varie, 4 marzo 2002
LIGRESTI
LIGRESTI Salvatore Paternò (Catania) 13 marzo 1932. Imprenditore. Presidente onorario di Fondiaria Sai. Famiglia di agiati commercianti. Studia ingegneria prima a Palermo, poi a Padova. A Milano presta servizio nell’Aeronautica. Congedato, apre uno studio di progettazione, esordisce con successo nel mondo degli affari. Realizza un importante progetto di sistemazione di un’area centrale di Milano. Nonostante i successi finanziari dedica il meglio delle sue energie alla realizzazione del Piano casa del Comune di Milano. Coinvolto in una delle inchieste di Mani pulite perde la passione del mattone «[...] antico re dell’edilizia nella ”Milano da bere” [...]» (Luca Piana, ”L’Espresso” 26/5/2005) • «[...] re del mattone negli anni Ottanta, potentissimo alla corte di Bettino Craxi, forte nella finanza del sostegno di Cuccia, siciliano come lui, è poi crollato sotto il peso dei debiti e di Tangentopoli, che lo ha portato anche in carcere. Una condanna definitiva lo ha obbligato nel ”97 a passare la mano, a trasferire la proprietà del gruppo ai suoi tre figli [...] sotto la guida di Mediobanca ha dovuto cedere pressoché tutto per rimbirsare i creditori [...]» (Sergio Bocconi, ”Sette” n. 46/2001) • «C’è una qualità che tutti riconoscono all’ingegner Salvatore Ligresti: la perseveranza. Nella vita come negli affari. [...] è riuscito dopo tre anni di attesa sull’uscio a entrare nel patto di sindacato di Rcs, non si darà pace finché non verrà accolto nella stanza dei bottoni delle Generali» (Giovanni Pons, ”la Repubblica” 14/3/2006) • «In tuta Ligresti sembrerebbe un operaio, ma un operaio efficiente, capace di fare il suo lavoro. In fustagno, con il fazzoletto annodato al collo, Ligresti sembrerebbe un contadino, ma un contadino tenace, capace di far fruttificare la terra. Vestito con un abito di buon taglio, come deve vestirsi un uomo d’affari, Ligresti sembra un uomo d’affari, pieno di energia, di nerbo, di durezza, come deve essere un buon uomo d’affari. Il suo aspetto ha certo contribuito alle leggende sul suo conto. Poiché Ligresti è un uomo che si è fatto da sé, è necessario che sia partito da uno dei gradini più bassi della scala sociale. Secondo una leggenda che non vuole morire, il padre era un povero artigiano di Paternò che trovandosi in casa due ragazzini intelligenti aveva deciso di farli studiare. Uno da ingegnere e uno da medico. Nella realtà il padre Ligresti desiderava che il figlio Salvatore diventasse ingegnere e il figlio Antonino diventasse medico, ma poteva permetterselo, perché non era un artigiano povero, ma un commerciante benestante. Secondo la leggenda Salvatore Ligresti si sarebbe attrezzato alla vita nei rigori delle mense delle case dello studente. Nella realtà Ligresti frequentò il biennio di ingegneria a Palermo, poi decise di laurearsi in un’università a nord di Napoli. Scartò Milano, scartò Torino, scelse Padova per la cordialità di una camerierina di una tavola calda. A Milano arrivò laureato, non per raggiungere come vuole la leggenda il clan dei siciliani, ma per prestare servizio militare. Invece di tirare a campare, di aspettare l’ora di libera uscita, di trafficare per le licenze, il sottotenente Ligresti Salvatore nella caserma dell’Aeronautica di piazza Novelli approfittò per sperimentare in pratica alcune cose che aveva imparato all’università, lavorò con passione all’ampliamento dell’Aeroporto Forlanini, si interessò al demanio. Nella terra in cui si è avvocati e ingegneri o cavalieri per antonomasia o metonimia, Ligresti non era ingegnere per antonomasia o metonimia, ma per vocazione e formazione. Di lui si sarebbe detto che non si muoveva mai senza il tecnigrafo e il tiralinee, si sarebbe detto che non sapeva impedirsi di dare una sua impronta personale a progetti che aveva peraltro affidato ai migliori architetti sulla piazza, di lui si sarebbe detto che non riusciva a trattenersi dal visitare di soppiatto il cantiere in cui stava nascendo un suo progetto, nemmeno la mattina della domenica, nemmeno la mattina di Pasqua. In chiunque altro un simile attaccamento al lavoro sarebbe stato salutato come un nobile esempio di quel senso del dovere e di quell’orgoglio professionale che i milanesi considerano proprio patrimonio etico, se non genetico, in quanto discendenti degli industriosi ed eretici patarini medievali, in quanto discepoli dell’ascesi produttiva e quasi calvinista dei cardinali Borromeo. Ma Ligresti si chiamava Salvatore, un nome poco usato nel Ducato di Milano, veniva dal sud dove era uso compensare la poca voglia di lavorare con la furbizia. Se un Salvatore Ligresti si comportava così non poteva essere per l’orgoglio del proprio lavoro, doveva esserci qualcosa di poco onesto. La spiegazione non poteva che essere una. Salvatore Ligresti si comportava così perché non poteva resistere a quella pratica dell’abuso edilizio, che di propria iniziativa gli stimati progettisti lombardi di cui si serviva non avrebbero potuto concepire nemmeno in sogno. Ancora oggi, volendo, si può organizzare un giro turistico per le periferie di Milano con una guida che faccia notare come le torri costruite da Ligresti abbiano l’ultimo piano a giorno. Non si tratta, spiegherà la guida, di un marchio estetico, ma di un diabolico stratagemma per acquistare volumetria abusiva. Quel piano che secondo i progetti avrebbe dovuto ospitare (e ospita tuttora) le centrali tecniche della torre, in un secondo tempo, quando i vigili e gli amministratori di zona fossero diventati miopi, sarebbero stati coperti e destinati a uffici e abitazioni. Non era tanto il fatto in sé quanto la pratica dell’astuzia che offendeva le coscienze di una città in cui gli imprenditori edili e i cittadini rifuggivano anche dall’idea del minimo abuso edilizio. Con la fortuna e la posizione crescevano i sospetti nei confronti di Ligresti. Sospetta era la sua riservatezza, l’uso parco e grigio della ricchezza. Avevano un bell’affermare i pochi amici che gli andavano per casa che era un uomo semplice, legato alla terra, fiero di mettere in tavo-la i pomodori del suo giardino, un uomo che conduceva una vita ordinata e serena nel culto della madre e della famiglia. Non poteva vivere sereno chi si era sposato per fini di carriera con la figlia bruttina di un provvidenziale provveditore alle opere pubbliche. Non poteva condurre una vita davvero ordinata chi era un siciliano focoso, destinato dalla cultura e dalla natura sciagurate a sciupare femmine. Poiché non si trovarono ballerine, poiché non si seppe di crociere sfarzose, di ville lussuose illuminate fino all’alba, la voce popolare (che non sbaglia mai), la voce dei cronisti (pronta alla rettifica), attribuirono a Salvatore Ligresti affari fulminei con impiegate comunali consumati in ristoranti con dancing di periferia. Una vita condotta molto al di sotto delle possibilità, così ammirata nella borghesia genovese, così apprezzata nella vecchia borghesia milanese che non voleva sapere nulla dei commendatori del Dopoguerra, era di certo in un siciliano un’astuzia contro natura. Tanto più che a Milano non c’era solo Ligresti a praticarla. C’era stato anche quel Michelangelo Virgillito per il quale il giovane Ligresti aveva lavorato, per il quale aveva studiato con successo la possibilità di creare una piscina e un parcheggio sotterraneo proprio dietro a corso Vittorio Emanuele, dal quale aveva imparato a operare in Borsa. C’era quel Virgillito che non solo abitava in un appartamentino di tre stanze, seppure a porta Magenta, ma invitava anche Ligresti a dare in beneficenza il dieci per cento dei profitti ottenuti con il suo aiuto. C’era quel Virgillito che non solo avrebbe lasciato il suo grande patrimonio a istituzioni religiose, ma che era anche di Paternò, lo stesso paese alle pendici dell’Etna da cui veniva Ligresti. C’era anche quell’Enrico Cuccia che tutto casa e banca attraversava ogni giorno a piedi piazza della Scala, quell’Enrico Cuccia che non amava rilasciare interviste, la cui moglie non si sognava neppure di prendersi lo svago di un concerto se il cognato non le regalava il biglietto. I milanesi sanno come sono fatti i meridionali: sono sbruffoni, hanno la bocca larga. Il comportamento strano di quei tre siciliani (vogliamo metterci anche La Russa? Primo: di Paternò; secondo: reduce non pentito di el-Alamein; terzo: senatore dell’Msi) era davvero sospetto. Venivano da una terra di associazioni oscure, non potevano non ordire una trama. La prova provata era la ricchezza di Ligresti. Non si poteva diventare così ricco senza un patto con qualche diavolo. Poi il diavolo fu scoperto. Era anche lui di origine isolana, anche se era diventato grande in quella che allora si chiamava la mezza periferia, che oggi i commessi immobiliaristi chiamano mezzo centro. Si chiamava Bettino Craxi, era il segretario del Partito socialista italiano, era l’addendo che faceva tornare i conti, era l’elemento che mancava per la dimostrazione del teorema dello sciagurato patto tra finanza e politica all’ombra dei poteri oscuri che chissà perché cominciano tutti per emme. Gli amici dissero che in Ligresti l’ammirazione per Craxi crebbe smisurata. I nemici più che a un’affinità elettiva pensarono a una convenienza reciproca. Intanto in Ligresti la prospettiva si faceva più ampia. L’ingegnere che aveva iniziato la sua fortuna acquistando il diritto di un sopralzo in via Savona, cominciava a pensare in termini di urbanista. Milano aveva bisogno di alloggi, aveva bisogno di espandersi. Ligresti aveva superato il suo maestro Virgillito, era riuscito ad acquisire la maggioranza della Sai. Aveva finalmente acquistato la Grassetto, la società di costruzioni che condensava la storia dello sviluppo di Milano nel Dopoguerra. Aveva a disposizione grandi capitali. Quando il Comune lanciò il Piano casa, non si fece trovare impreparato. Acquistò il 70 per cento delle aeree che il Piano destinava allo sviluppo delle abitazioni. Aveva in testa un’idea precisa di città. La conversione economica andava moltiplicando all’interno di Milano le aree dismesse. Ligresti era convinto che dovessero essere destinate a verde pubblico, a servizi per la città. I nuovi insediamenti si sarebbero sviluppati ai margini della città. Soprattutto in una zona a sud tra via Abbiategrasso e via Ripamonti dove le cascine e i campi si incuneavano nella città. In quell’area sarebbe nato l’equivalente milanese del quartiere romano dell’Eur. Era un progetto di grande respiro. Una sera d’estate mentre nel giardino di una cascina di sua proprietà si festeggiavano i cinquant’anni di un amico artista, al chiarore dei fuochi d’artificio Ligresti immaginò forse come sarebbe stato il suo quartiere. Si rammaricò forse che Craxi non fosse potuto venire, non fosse lì con lui a condividere il sogno. Non ne trasse però cattivi auspici. Non temeva i grandi proprietari milanesi che possedevano le aeree dismesse e per la città avevano tutt’altri progetti. Non temeva l’opposizione degli ambientalisti che volevano difendere quel lembo di campagna attraversato da una strada piena di piccole discariche abusive, che i locali percorrevano malvolentieri anche di giorno. Non considerava la concezione della città diffusa, con quartieri satelliti distanti dal centro, concorrenziale alla sua visione. Non sentiva il rumore che il muro di Berlino faceva cadendo. Non immaginava il carcere. Non immaginava che dell’Eur che aveva intravisto tra i fuochi di artificio non sarebbe sorto che qualche brandello, qualche quartiere mal servito, qualche torre vuota tra le erbacce popolate di ratti, un vecchio cartellone che si guarda con un vecchio pioppo. Non immaginava di potere un giorno scoprire di aver perso ogni passione per il tecnigrafo e il rapidograph» (Sandro Fusina, ”Il Foglio” 29/10/2000).