Varie, 4 marzo 2002
Tags : Andrea Longo
Longo Andrea
• Predazzo (Trento) 16 novembre 1971. Mezzofondista. Specialista degli 800 metri, fermo due anni per doping • «Due giorni prima dei Mondiali di Edmonton 2001 effettuò un test che lo convinse dell’impossibilità, causa una dolorosissima fascite plantare, di partecipare agli 800 della rassegna iridata in terra canadese. Ancora non sapeva, il padovano, che nel giro di pochi giorni sarebbe stato investito da un’autentica bufera, e neppure cosa sarebbero stati i successivi due anni. Come un fulmine infatti si abbattè su di lui proprio alla vigilia di Ferragosto la positività per nandrolone riscontrata nel meeting disputato due mesi prima, il 9 giugno a Torino. Valori di pochissimo superiori al lecito, ma sufficienti per farlo additare come un dopato e conseguentemente squalificare per due anni. A nulla valse dimostrare che la sostanza illecita si trovava in un integratore sulla cui etichetta non ne veniva indicata la presenza e neppure sottoporsi ad un profilo ormonale nel quale Andrea risultava normalissimo. Tutto inutile. Chi giudica dovrebbe saper anche interpretare la legge, ma così non è stato: ben più facile limitarsi ad applicarla. Due anni d’inferno, tra speranze e amari risvegli, che neppure i sostanziosi danni chiesti alla casa produttrice del prodotto incriminato riusciranno a restituire a Longo. Due anni, dai 26 ai 28, rubati alla maturità dell’atleta. Due anni in cui Andrea ha continuato a dichiarare la propria buona fede e ad allenarsi nella speranza gli venissero concesse, quanto meno, le attenuanti e conseguentemente ridotta la pena. Niente, invece. Soltanto una deroga in extremis al termine ultimo, fissato per il 13 agosto, per ottenere il minimo di partecipazione ai Mondiali di Parigi, in modo da non aggiungere l’ulteriore beffa di non poter tornare a gareggiare pur essendo scaduti i termini della squalifica» (Giorgio Barberis, ”La Stampa” 18/8/2003). «Erano circa le 23.30 del 7 agosto 2001 quando il telefono a casa Longo a Padova cominciò a squillare. ”Stavo guardando la finale degli 800 ai Mondiali di Edmonton e studiando gli avversari che avrei trovato pochi giorno dopo a Zurigo, perché finalmente ero tornato ad allenarmi bene, dopo la rinuncia per infortunio a quelle gare iridate. Mi sorprese un poco sentire la voce di Fischetto, il medico della nazionale che stava proprio ad Edmonton. Non è il tipo da svegliare la gente nella notte. ’Ciao, come stai?’ L’ha presa alla larga e poi all’improvviso: ’C’è un problema. Sono arrivate le analisi del test a cui sei stato sottoposto a Torino in giugno. stato riscontrato un nanogrammo di troppo nei metaboliti di nandrolone’. Che roba è? Ho urlato. uno scherzo? Mi è crollato il mondo addosso, ma avevo la coscienza tranquilla, perché quel prodotto che avevo preso portava l’autorizzazione del ministero della Sanità. Non avevo dubbi di potere dimostrare la mia innocenza [...] Ho ripreso ad allenarmi nell’ottobre 2001, dopo avere smaltito il dolore e la rabbia. Pensavo che le udienze mi avrebbero aiutato a dimostrare che non avevo assunto quella sostanza consapevolmente e quindi avevo già studiato il programma per il ritorno alle gare. Ma poi ogni udienza mi ha ributtato giù per le scale. La federazione la prima volta mi ha fatto addirittura capire che mi aveva quasi graziato, visto che la squalifica era di due anni e non di quattro... stata anche una sottile tortura, soprattutto dopo che il primo luglio del 2002 il Coni mi ha riabilitato. Ho sognato per due giorni. Ho fatto nuovi programmi, ma il 3 luglio la federatletica mondiale ha confermato i due anni di stop. Non era servito a nulla consumare i treni nel su e giù con Roma e tutti i soldi che avevo messo da parte. Quel denaro doveva servire a costruirmi la casa, invece adesso sono in bolletta nera [...] Questa vicenda mi ha fatto uscire di testa nei primi mesi. Sono andato anche dallo psicologo, perché ero esaurito. Non potete immaginare cosa significa essere innocenti, avere fiducia nella giustizia e finire condannati. C’è un solo aspetto positivo: questa esperienza traumatica mi ha maturato. Credo di essere un uomo migliore, perché ho imparato a combattere per dei valori [...] La mia donna, Fabè Dia, atleta di origine senegalese che ora vive a Parigi, mi è stata molto vicina. Anche lei ha principi molto solidi. Avrebbe potuto lasciarmi perdere, invece mi ha dimostrato come il legame fosse vero» (Gianni Merlo, ”La Gazzetta dello Sport” 18/8/2003).