Varie, 4 marzo 2002
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Lopez Jennifer
• New York (Stati Uniti) 24 luglio 1970. Attrice. Cantante. Ballerina. «Dal trash delle strade in cui è cresciuta al cash dei conti in banca miliardari. Da un’estetica un po’ clochard al diamante di fidanzamento di cui fa sfoggio orgogliosa. Dai versacci delle prime apparizioni pubbliche al Versace sfoggiato ai Grammy Awards nel ”99, un modello minimo antigravità rimasto negli annali. [...] più che una diva è una donna-impresa. Un’impresa che va a gonfie vele, e che soprattutto, in un mondo in cui altri divi si bruciano per un passo falso, sopravvive a flop e cadute di gusto. E anzi trasforma ogni fallimento, ogni mossa sbagliata in una gemma in più sulla corona di regina del trash. Non male per una figlia del Bronx, zona Castle Hill, famiglia di portoricani emigrati a New York. Una ragazza carina come tante, che cantava e ballava fin da piccola e che se ne andò da casa a 18 anni perché la madre non voleva che facesse cinema. ”Un giorno la chiamai in lacrime, cercando il suo sostegno dopo un provino andato male”, racconta la Lopez: ”Ma lei mi disse: ”Non chiamarmi più piangendo! Volevi far parte di questo mondo? Allora fatti forza!’. stata la sua migliore lezione”. Molti, paragonandola ad altre star nere o latine, da Beyoncé a Kelis, da Eva Mendes a Halle Berry, accusano la Lopez di non avere grandi doti né per ballare, né per cantare, né per recitare. Ma paradossalmente la sua forza è proprio qui: in un successo costruito senza l’aiuto di qualità eccezionali, grazie soltanto all’ambizione e alla volontà. E alla sicurezza di sé: ”So di avere talento, ho passione, ambizione e voglia di fare, fare, fare”, dice la Lopez, detta anche La Guitarra o Supernova. O J.Lo, un nomignolo-logo che per qualche ragione lei sembra ora rinnegare: troppo kitsch, troppo adolescenziale? Per i suoi fan Jennifer è un mito: la amano al punto da organizzare incontri settimanali in un locale di New York a base di candele e vudù per pregare che riesca ad avere un figlio (nessun fan di Nicole Kidman, altra aspirante mamma, ci ha mai pensato). Lei è la prova che ancora oggi, in America, chi ce la mette tutta può farcela. La sua scalata inizia nel 1990, a 20 anni, quando entra tra le ”flying girls”, le ”veline” del varietà ”In Living Color”. Il primo ruolo da protagonista al cinema è in Selena, biografia di una cantante uccisa da un fan. Ma sono le cronache rosa a fare di Jennifer una vera diva. Succede quando questa latina dal sex-appeal prorompente (nessuno spettatore ha dimenticato l’inquadratura del suo fondo schiena in una scena di U Turn che sembra girata da Tinto Brass) conquista il bostoniano Ben Affleck, essenza del ”wasp”, e dà inizio al feuilleton ”Bennifer” adorato da tutti i tabloid nazionali. L’attore era così stregato, che all’apice del loro innamoramento comprò una pagina intera sui due quotidiani di settore, ”Variety” e ”Hollywood Reporter”, per un elogio pubblico di Jennifer, che recitava più o meno così: la più brava, bella, talentuosa, generosa, straordinaria, emozionante, la più fraintesa, la più sottovalutata. Accadeva al tempo delle riprese di Gigli, la loro commedia noir miseramente fallita, elencata tra i peggiori film del 2003. Forse l’unico vero passo falso della Lopez. A parte quella notte del dicembre del 1999 in cui finì in guardiola in seguito a una sparatoria tra i membri di una gang e le guardie del corpo dell’impresario rap Puff Daddy, allora suo fidanzato. La Lopez venne liberata, e scagionata di qualsiasi accusa, dopo poche ore ”di umiliazione tremenda e totale prostrazione”, come disse lei in lacrime. Qualche altro errore di gioventù continua a perseguitarla dai siti porno sul Web: sono quelle foto in cui posa nuda con un cappello da cowboy, o a letto insieme a un giovane aitante. Circola anche una sua immagine in body rosa shocking, calze nere con giarrettiera, scarpe turchesi col tacco a spillo e lunghi guanti rossi. La foto mette in bella mostra il famoso sedere dell’attrice, che è stato assicurato per 300 mila dollari (il corpo intero è assicurato per un milione). Non si sono mai viste, invece, le foto a cui J.Lo teneva di più: quelle per un servizio che nel ”99 doveva essere la copertina di ”Vogue”, ma che fu bocciato dalla direttrice Anna Wintour. Malgrado gli sforzi di fotografo, truccatore e stilista non c’era uno scatto in cui la diva fosse abbastanza chic per ”Vogue”, sentenziò la direttrice. Ma sono piccoli incidenti. J.Lo è stata la prima attrice di origine ispanica a riceve salari multimilionari: cinque milioni di dollari per The Cell, dieci per The Wedding Planner e Un amore a cinque stelle, 15 per Monster-in-Law [...]. Il suo rapporto coi soldi è ambivalente. Spende migliaia di dollari per un paio di sandali tempestati di pietre, ha ville sparse sulle due coste degli Usa, ma sentenzia: ”Se il tuo unico interesse è fare soldi, sei destinato a fallire”. Lei si appassiona davvero alle cose che fa. E non ha paura di affrontare imprese nuove. Ha [...] aperto un ristorante di cucina caraibica e ci ha messo come manager il primo marito, Ojani Noa, un cameriere cubano. [...]» (Silvia Bizio, ”L’Espresso” 28/4/2005). Genitori portoricani, mamma Guadalupe maestra d’asilo, papà David tecnico di computer, è la seconda di tre sorelle (Lynda, la minore, lavora come dj per numerose radio; Leslie, la maggiore, è una maestra di musica appassionata di lirica). Già scatenata all’età di 2 anni (si snodava sul tavolo di casa al grido di «menealo!», muoviti, agitati), studi di danza dall’età di cinque, ha fatto una dura gavetta: «Ricordo gli interminabili viaggi in metropolitana per raggiungere la Preston High School, a Manhattan. Non facevo che pensare al giorno in cui sarei diventata una cantante. Quando dissi ai miei che non avrei proseguito gli studi per inseguire il mio sogno di gloria, dissero che ero una pazza. Che nessun latino ce l’aveva mai fatta. Per me è stata una sfida fin dall’inizio. Frequentai una scuola di danza e per arrotondare facevo la comparsa in qualche videoclip per 50 dollari. Grazie a dio non sono stata costretta a fare la cubista. Per molte ragazze è stata una trappola: quando guadagni 500 dollari a notte è facile convincersi che in fondo mostrare le tette non è un sacrilegio. Le cose cominciarono ad andare meglio quando fui scritturata per ballare nel video di That’s the way love goes di Janet Jackson». Una particina nel film My little girl del 1986, partecipazioni in rappresentazioni locali di musical come Oklahoma e Jesus Christ Superstar, racconta: «Ho cominciato la mia carriera nello showbusiness come ballerina in musical a teatro, uno dei miei primi lavori come ballerina è stato durante la tournée europea dei Golden Musicals of Broadway». Nel 1990 esordì nel corpo di ballo ”Fly Girls” dello show televisivo In Living Color. Dopo aver ballato e recitato in tv in ruoli di secondo piano, nel 1995 debuttò sul grande schermo con Mi Familia di Gergory Nava e comparve in Money Train. «Il mio primo lavoro come attrice è stato in un episodio pilota di una cosa chiamata South Central per la Fox. Era un lavoro per cui mi aveva raccomandata una mia collega di In Living Color perché suo marito ero lo sceneggiatore e produttore, ma era talmente orribile che è finito ancora prima di cominciare. Credo che mi abbiano pagato poche migliaia di dollari, e non ho nessun ricordo di come li ho spesi. Probabilmente ci ho pagato le carte di credito». Dopo aver partecipato nel 1996 a Jack di Francis Ford Coppola (con Robin Williams) e Blood and Wine di Bob Rafelson (con Jack Nicholson), nel 1997 arrivò finalmente la grande occasione: Selena, film sulla leggendaria vita della cantante latina Selena Quintanilla-Perez, uccisa da un fan a 23 anni, che le valse la nomination al Golden Globe. Quell’anno girò anche Anaconda e U Turn, diventando un’attrice da un milione di dollari a film. Nel 1998, grazie al successo in Out of Sight (con George Clooney) il suo cachet salì a 2 milioni di dollari. Nel 1999 pubblicò il primo album, On the 6: subito ribattezzato dai maligni On the Sex, in realtà 6 è il numero del treno che prendeva quando dal Bronx andava a Manhattan a studiare danza. Un successo. Quando nel 2000 interpretò The Cell il suo cachet aveva raggiunto i 4 milioni di dollari. Nel 2001 uscì J.Lo., il secondo disco e, nello stesso mese, The wedding planner-Prima o poi mi sposo, la sua prima commedia romantica (compenso di 9 milioni di dollari, ma fece sapere di sentirsi ancora ”sottopagata”). Nel 2002 il terzo cd, This i s me… then, nelle sale i film Enough e, negli Usa, Maid in Manhattan, compenso 12 milioni di dollari (’Max” ottobre 2002, ”Max” gennaio 2003, ”Ciak” luglio 2000; ”Ciak” luglio 1999; Antonio Vellani, ”Madame Class” gennaio 1999; ”Max” maggio 2002; ”Repubblica” 23/5/2001; Silvia Bizio, ”Il Venerdì” 10/3/2000; Benedetta Pignatelli, ”Sette” n. 4/2002). Un metro e 66 (lei dice 1,70, i più scettici non vanno oltre l’1,64 e mezzo), tra 50 e 58 chili a seconda delle fonti (comunque una 44 abbondante), bella ma non bellissima, brava ma non bravissima, la voce non è così speciale (ricorda quella di Paula Abdul, altro peso piuma del pop, il critico Jim Farber dice che «nessun essere sano compra un suo disco alla ricerca di un ardire vocale, confessioni strazianti o suoni innovativi»), stesso discorso per la recitazione (istintiva, decorosa, alla Sandra Bullock). In compenso, è molto sexy, in particolare il suo sedere, quello sì a livelli d’eccellenza, tanto da esser considerato il più seducente dello showbiz (anche se per quelli che proprio non la possono vedere è «troppo tondo»). Erin J. Aubry, spiritosa giornalista di ”Entertainment”, ha riadattato per lei il famoso motto del Black Power anni’ 70: da ”Black is Beautiful” a ”Back is Beautiful”. Ai tempi di Out of Sight, il critico cinematografico del ”Los Angeles Weekly” spiegò che il suo «spettacolare fondoschiena» sporgeva «con la stessa espressività della bocca carnosa, favolosa». Lei si lamenta: «Non vedo l’ora di leggere un articolo che non citi il mio sedere». Oppure: «Se mi crescesse un neo sul sedere lo verrei a sapere dala stampa…». Ma poi racconta che da ragazzina gli amici l’avevano soprannominata ”la guitarra” per le curve che facevano impazzire i compagni di palestra. Nella sua fenomenologia il sedere ha un ruolo fondamentale: giudicato di proporzioni ”epiche” o ”mitologiche”, ha goduto di un saggio sul ”Los Angeles Times” in cui la proprietaria veniva esaltata come un modello di realtà contro le fantasie anoressiche hollywoodiane. L’inglese ”Sunday Times” è andato oltre proponendo di assegnare al suo didietro l’Oscar al ”miglior non protagonista”. Raccontano che sul set di Prima o poi mi sposo il partner Matthew McConaughey avesse inventato il gioco ”Metti la coda a Jenny”: lancio di freccette con per bersaglio una foto del suo deretano. «’Big bottom, ehi, big bottom! Culona, ehi, dico a te”. Big bottom. Culona. Grosse chiappe. Queste cose mi ferivano allora. Avevo 9 anni, e il sedere già imponente. E per quello mi deprimevo: quello era il principio dei miei complessi. ”Sciocchina”, cercava di incoraggiarmi mia madre, che somigliava a Natalie Wood, e a casa ascoltava tutto il tempo America, Cool, I feel pretty: le canzoni di West Side Story, il film più importante di quell’attrice, che sembrava un’ispanica, una latina scura del Bronx, come noi, ed era invece figlia di russi. ”Noialtre portoricane” diceva mia madre ”siamo fatte così, per via di quel filo, o di quel torrente, di sangue nero che ci circola dentro: abbiamo il didietro bello sporgente, bello rotondo, bello sodo. Bello, insomma. Come le nere, come le africane. un bene ereditario: gli uomini ci amano anche per questa ricchezza, che le caucasiche di Manhattan, anemiche e secche, sotto sotto c’invidiano”. ”Ragazze, io ho sposato vostra madre anche per le sue curve posteriori: fiiiuuuu, che schianto di curve posteriori!”, confermava papà a me e alle mie due sorelle, sederone (e complessate) anche loro, per tirarci su un po’. Già stupende parole. Generose. Plausibili. Ma io continuavo a detestarlo, il mio grosso deretano ispanico-negrito. Quando potevo, non indossavo neppure le mutande, sotto i jeans, perché, sì, perché sembrasse un po’ meno voluminoso. Un’abitudine che non ho perso: adesso però è un vezzo. Una civetteria. Ma massiccio era, il mio sedere, e massiccio restava, con o senza gli slip. Lo era specialmente agli occhi e negli epiteti della biondina slavata, smilza, piatta che, dall’altra parte della strada, quel pomeriggio d’ottobre si sgolava a metterlo in ridicolo: ”Big bottom, ehi, big bottom! Culona, ehi, dico a te!”. Be’ la storia era questa. Facevamo tutte e due la quarta elementare, e io mi ero innamorata del suo boyfriend. Solo che se n’era accorta anche lei, oltre a lui. Mi pungeva nel vivo in quella maniera, mi torturava nei miei complessi, per farmela pagare, e convincermi a stare alla larga dal suo ragazzo, che si chiamava Charles e aveva gli occhi blu. Alla larga io, biondina sculata? A un tratto, sentii ribollire il mio sangue, più caldo e colorato del suo. Attraversai la strada di corsa e la abbattei con un unico uppercut, strappando gli applausi della mia gente sui marciapiedi: ”Olé, chica, olé!”, gridavano, impietosi, eccitati, e anche Charles si scalmanava in quel modo […] Nel barrio mi chiamavano ”la trasera pugilista”, qualcosa come ”la chiappa pugilatrice” […] Con questa etichetta attraversai l’high school e approdai all’università, facoltà di legge: volevo diventare avvocato, per mantenermi lavoravo in uno studio legale, e quel clima mi piaceva. Dei boxeur, del resto, possedevo il naso: spappolato, parzialmente disossato. Così, data la mia nomea, parecchi credevano che me lo fossi fracassato proprio in un ring di strada. Un incidente automobilistico, invece. Avevo 13 anni. A un incrocio, l’auto di mia madre fu centrata da un camion carico di bombole di gas compresso. Una, come un missile, sfondò il parabrezza dalla mia parte e finì sul sedile posteriore. Mi salvai perché un secondo prima dello scontro m’ero piegata per allacciare una scarpa: ci rimisi solo il naso, che si spiaccicò contro il cruscotto. ”Babe, devono averti martellato la faccia giù nel Bronx”, qualcuno ancora mi dice. Però, il mio naso incidentato, livellato, a me piace adesso. Almeno di profilo, poi, viene benissimo […] Il mio corpo lo amo quasi tutto, adesso. Solo le caviglie mi cambierei: troppo sottili, troppo ossute rispetto al resto. Pazienza: gli uomini, per fortuna, di solito trascurano le caviglie» (Antonio Vellani, ”Madame Class” gennaio 1999; Benedetta Pignatelli, ”GQ” marzo 2001; Vittorio Simon, ”Max” novembre 2000; Federica Lamberti Zanardi, ”Il Venerdì” 2/3/2001; Christopher Goodwin, ”The Sunday Times”, ”Il Venerdì” 9/10/1998; Gianni Passavini, ”Maxim” febbraio 2000). «Sono sempre stata una cantante e una ballerina e ho sempre voluto essere attrice. Per me, sono tutte e tre una stessa cosa»; «Sono una ballerina che voleva essere una cantante che è diventata un’attrice. E che ad un certo punto ha avuto la possibilità di cantare. Mi sembra la quadratura del cerchio. Mi piace pensare di essere un’artista completa. Anche perché è quello che ho sempre desiderato fin da quando ero ragazzina e sognavo di diventare qualcuno»; «Al cinema interpreti sempre qualcun altro. Nella musica, invece, riveli completamente te stessa»; «Per recitare e per cantare devi provare emozioni forti. Se sei veramente felice, arrabbiata, depressa o innamorata puoi anche scrivere e interpretare una buona canzone»; «Quando sei una star del cinema sei alta 10 metri. La gente per vederti deve uscire di casa, e quando t’inconrano pensano ”Oh mio Dio!”, ma non si lanciano a cercare un contatto diretto. Invece quando fai musica sei lì con loro, nelle case, in bagno, in camera da letto. una cosa molto più personale. Se t’incontrano pensano comunque ”Oh mio Dio!”, ma ci tengono ad abbracciarti e starti vicino. un altro tipo d’energia» (’Ciak” luglio 1999; Enrico Magrelli, ”Capital” dicembre 1999; ”Max” novembre 2000; Bruno Vecchi, ”Max” ottobre 2002; Federica Lamberti Zanardi, ”Il Venerdì” 2/3/2001). Film preferito: West Side Story. «Il mio mito era Rita Moreno. La adoravo perché era portoricana ed era l’unica donna ad aver vinto Oscar, Tony, Grammy, Emmy, tutti i più importanti premi dello spettacolo. E poi era stata Anita in West Side Story, il mio personaggio preferito nel mio film preferito»; «Sono cresciuta ascoltando melodie e ritmi musicali molto diversi. Ero ancora a scuola quando The Sugarhill Gang ha cambiato la mia vita. Poi arrivavo a casa e la mamma ascoltava Celia Cruz, Tito Puente o Diana Ross. Questa è stata la colonna sonora della mia giovinezza e quando ho inciso il mio primo disco ho messo insieme tutte queste atmosfere musicali. soul latino» (Merle Ginsberg, ”GQ” marzo 2001; Enrico Magrelli, ”Capital” dicembre 1999; Lucia Castagna, ”Sette” n. 3/2001). «Dicono che sono una donna d’acciaio. Non è vero. Sono sempre uguale a me stessa, una abituata a darsi da fare, una che non si ferma davanti a nessuna difficoltà». Aggettivi che usa per definirsi: «Vulnerabile, forte, sensibile, ambiziosa, concentrata, curiosa, meticolosa, organizzata». Dice: «Non è importante andare a letto tristi la sera, è importante svegliarsi felici la mattina»; «Se mi tolgo i vestiti non sono più sexy, sono semplicemente nuda»; «Gli uomini vedono quello che hai, le donne quello che sei»; «I miei consiglieri sono cuore e fegato» (Ilaria Bellantoni, ”Max” gennaio 2003; Marco Giovannini ”Ciak” luglio 2000). «In Prima o poi mi sposo c’era una scena nella quale dovevo fingere di essere ubriaca. Ma per me era impossibile perché non mi sono mai ubriacata in vita mia. Allora che ho fatto? Ho buttato giù sei bicchieri di vodka di fila. Alla fine la scena è riuscita benissimo anche se, lo ammetto, non mi sentivo benissimo» (Merle Ginsberg, ”GQ” marzo 2001). «Sono disponibile anche a concerti a casa di privati. Mi pagate un milione e mezzo di dollari, io arrivo con i ballerini e metto su un concerto in due ore» (Giulia Zonca, ”Specchio” 17/3/2001). Cosa la rende felice? «Andare a trovare la mia famiglia e portare ai miei genitori dell’uva in regalo. Era la loro passione quando eravamo poveri» (Giovanna Grassi, ”Corriere della Sera” 22/1/2001; Federica Lamberti Zanardi, ”Il Venerdì” 2/3/2001). «La sua biografia è una litania di numeri 1: la prima star ad avere nella stessa settimana un album e un film al primo posto in classifica; il suo terzo album, J To Tha L-O!: The Remixes è stato il primo del genere ad imporsi al primo posto in classifica; è fidanzata con l’uomo che la rivista ”People” ha definito il più sexy vivente, Ben Affleck (che le ha regalato il diamante rosa che sfoggia all’anulare, in tinta con il vestito di seta a pieghette rosa da cui il suo corpo generoso sembra voler straripare). Ed è alla testa di un impero commerciale, ”J. Lo by Jennifer Lopez”, una linea che comprende profumi, abiti, accessori e occhiali da sole. […] Ho vissuto quasi 23 anni nel Bronx, mi sembra ieri che me ne sono andata; il mio passato è chi sono io, Jennifer, portoricana, dal Bronx. Certo, è cambiato lo stile di vita, ma dentro mi sento sempre la stessa”» (Silvia Bizio, ”la Repubblica” 26/11/2002). Il suo sogno è «lavorare in un musical di Broadway: mi avevano chiamato per Evita, ma in quel momento non potevo permettermi di stare nove mesi bloccata in teatro […] Tutti dicono che sono una drogata dal lavoro. Il fatto è che quando mi si presenta un’occasione creativa non riesco a dire di no. Non posso certo controllare i pettegolezzi sul mio conto, ma la mia carriera professionale sì. Io sono una che dà il 100 per cento» (’Repubblica”, 23/5/2001).