4 marzo 2002
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Lucentini Franco
• . Nato a Roma il 25 dicembre 1920, morto a Torino il 5 agosto 2002 (suicidio). Scrittore, famosissima la coppia formata con Carlo Fruttero (La donna della domenica, A che punto è la notte). «La famiglia Lucentini veniva da Visso, un paesino del Molise dove suo nonno possedeva un mulino. Prima di emigrare nella capitale, suo padre aveva graffito il proprio nome sulla facciata della pieve; il figlio lo ritroverà molti anni dopo. La Roma di Lucentini è una Roma scalcinata, popolare, una Roma di rovine in rovina. ”Mi piaceva piazza del Pantheon sia come luogo d’archeologia, sia perché era al centro di una matassa di vicoli. Vicoli e rovine: questa era la mia Roma. Ho odiato con tutta l’anima la città umbertina”. Da ragazzo, si comporta da autodidatta. Gira la città con l’aiuto delle guide Touring, che diventeranno sardonici breviari dell’uso di mondo nei romanzi scritti dalla coppia Fruttero & Lucentini. Dopo il liceo s’iscrive a Filosofia. Il fascismo gli appare dispotico e stupido nella stessa misura, e nemmeno sopporta i cosiddetti ”frondisti”, annacquati oppositori del regime amici di Bottai e di Vittorio Mussolini. Da questa doppia insofferenza, la beffa che organizza nel maggio ’41 all’università. Compra quattro pacchi di stelle filanti e un kit del ”Piccolo tipografo”, e sulla faccia interna delle stelle filanti stampa frasi sovversive e sfottò contro il duce, senza trascurare qualche W la fica a mo’ di alleggerimento. Il materiale viene abbandonato nel cortile dell’università. Lo trova un gruppo di avanguardisti che ritorna da una manifestazione a favore della guerra e del 18 politico agli esami. I giovanotti non resistono alla tentazione: soffiano nelle stelle filanti e troppo tardi si accorgono dell’effetto: il cortile lussureggia di carta sovversiva multicolore, e loro si vedono addirittura caricare e manganellare dalla polizia come antifascisti. Scoperti l’equivoco e il responsabile, Lucentini si fa sei mesi in isolamento a Regina Coeli. Non lega con i detenuti politici, mortalmente sussiegosi, che vogliono indurlo alla ”presa di coscienza” (e a prendere una tessera di partito). L’unica consolazione è lo spigolo rotto della finestra murata nella sua cella: dalla fessura si vede il Gianicolo. Di quegli anni universitari sopravvive oggi un quaderno ingiallito, di quelli con la copertina nera e il margine dei fogli tinto in rosso, sul quale Lucentini si è dilettato a tradurre dal cinese, in versione ”iperletterale”, il Tao Tê Ching, primo libro del canone di Confucio. solo la prima testimonianza di una vocazione che lo porterà ad affrontare altre massime cinesi (quelle del presidente Mao, ma con impassibile spirito filologico) e a guadagnarsi la fama, nelle case editrici per le quali lavorerà, di terrore dei traduttori. Nei primi anni Sessanta, quando comincia a dirigere con Fruttero la rivista di fantascienza Urania, impiega tre puntate della rubrica ”Il Marziano in cattedra”, nella quale veste la tuta spaziale del prof. Marziano, per correggere la prima riga, e solo quella, delle versioni di un passo di Robert Sheckley proposto ai lettori come esercizio. Il servizio militare, la guerra, il breve impegno politico in una formazione chiamata Democrazia Internazionale che con lungimiranza si propone il superamento del fascismo e dell’antifascismo. Poi, l’impiego ai servizi internazionali dell’Ansa e le promesse di carriera: ma butta tutto all’aria da un giorno all’altro e abbandona Roma, forse per una delusione d’amore. Lo ritroviamo a vagabondare nella Vienna 1948, la stessa del Terzo uomo. Comincia qui la sua vicenda di scrittore. Franco, l’io narrante del suo primo racconto I compagni sconosciuti, è lui stesso: un energico e ossessivo garbuglio di energie, e una capacità sbalorditiva di comunicare con il prossimo, di ascoltarlo e ”sentirlo”. Franco medita un suicidio che il finale della storia lascia in sospeso, così come restano sospese nell’aria, fragili e inalterabili, le voci dei compagni che gli tessono intorno una trama di frasi cèche, russe, tedesche. Per quell’epoca, è un racconto rivoluzionario. Elio Vittorini se ne entusiasma e lo sceglie per inaugurare nel 1951 la collana sperimentale ”I Gettoni”, che dirige da Einaudi. Qualcuno lo scambia per un frutto particolarmente audace della stagione neorealista; quindici anni dopo, sarà la neoavanguardia a rivendicarlo come precursore. In entrambe le occasioni, l’entusiasmo dell’autore è scarso, soprattutto per una cruda severità verso se stesso: quel Franco, dirà più tardi, ”era puramente e semplicemente in preda a quella che Valéry ha smascherato, una volta per tutte, come ’disperazione post-giovanile’: la disperazione, cioè, di ritrovarsi su i trent’anni ’senza essere né ricco né celebre’. Altro che storie di fratellanza umana!”. Il solo suo racconto al quale Lucentini riconosca qualche pregio, e l’inizio di una ricerca di stile (parole sue), è Notizie degli scavi (1964): anche in quella storia, è lui il Professore che dice io, il mezzo minorato dall’attenzione ossessiva che lavora in una pensione di malefemmine, e che con il suo puntiglio di miope negli occhi e nel cervello riesce nientemeno che a smontare il tempo, l’universo. C’è in quel racconto una frase straordinaria. Il Professore è sotto una tettoia degli scavi di Villa Adriana, solo. Sta aspettando una delle signorine che ha accompagnato sul lavoro. Piove. ”Da una grotta in fondo veniva un cane, a vedere che stavo lì, e dopo ne venivano pure altri due, più grossi. Stavamo con questi cani a guardare che spioveva”. Stavamo: lo sguardo del narratore livella se stesso e i cani allo stesso grado di esistenza, di fratellanza, di uguaglianza. Era questo il modo che aveva Lucentini di smontare il nostro universo trito, ed era questa la bontà che ci ha illustrato Fruttero in un racconto-prefazione, scritto per un’edizione delle Notizie e intitolato Ritratto dell’artista come anima bella: un ritratto straordinario che bisognerebbe ristampare prima di subito. Quando Lucentini cominciò a occuparsi di storie di fantasmi e di guerra, quando al seguito di Fruttero lasciò il tempio intellettuale Einaudi per trasferirsi nel supermarket Mondadori a dirigere riviste di fumetti e di fantascienza, furono in pochi a capire. Il gesto fu giudicato una manifestazione di snobismo alla rovescia. Da allora in poi, si diffuse il luogo comune di Lucentini grande scrittore d’avanguardia corrotto da Fruttero e dalla smania del bestseller. Ora non è il caso di smontare questa sciocchezza. Basterà leggere mezza pagina a caso dei romanzi di Fruttero & Lucentini (quelli che inalberano con orgoglioso pudore la celebre & commerciale) per accorgersi che non è così. E non è naturalmente neppure il caso, per rispetto verso Lucentini e verso Fruttero che ha perso l’amico, di provare a suddividere il territorio dei loro libri nelle rispettive zone d’influenza, Berlino Est-Berlino Ovest. Tanto Fruttero quanto Lucentini considerano l’universo un fantasma, ed è stato probabilmente questo a unirli e a fargli mantenere un silenzio assai british su questa convinzione, nella quale c’imbattiamo in ogni loro opera. Conta poco che i fantasmi di Lucentini provenissero dai Presocratici (che lui leggeva in originale, nell’edizione Diels-Krantz) e quelli di Fruttero magari da Henry James. Oggi importa solo che Franco Lucentini, pur dubitando sempre della reale esistenza dell’universo, e pur considerando l’universo un disguido del Non-Essere, abbia passato tutta la vita ad armeggiare con il kit del piccolo tipografo e con stelle filanti di tutti i colori, sul rovescio delle quali abbiamo potuto leggere, divertiti e sgomenti, che ombra di sogno è l’uomo» (Domenico Scarpa, ”La Stampa 6/8/2002). «Torino e Parigi, per lui romano, erano le sue ”due città”, già dopo essersi laureato in filosofia nel 1942 nella Capitale, esser stato in galera e al confino per una burla ai danni di suoi colleghi universitari eccessivamente fascisti. Se ne era andato a Praga e a Vienna e poi a Parigi, dove l’incontra Carlo Fruttero. Lucentini segaligno e robusto fa i massaggi, in una palestra, a ricche e mature signore, Fruttero un po’ il lavapiatti e un po’ il cameriere. Entrambi hanno sentito l’aria irrespirabile dell’Italia e il fascino di Parigi. Lucentini scrive racconti che piacciono a Fruttero che già sta pensando ad una possibile vita editoriale da realizzarsi in Italia. E infatti all’inizio del ’53 si impiega come redattore all’Einaudi, correggendo bozze, scrivendo risvolti, traducendo, scoprendo autori come Beckett e Salinger. Dalle stanze di via Biancamano non si dimentica dell’amico narratore e massaggiatore e si fa mandare schede di lettura di libri francesi. Lucentini diventa così un consulente dello struzzo, segnalando Robbe-Grillet ma anche Borges. Nel ’56 non potendone più di una Francia sempre sull’orlo di una guerra civile, con una Parigi sconvolta da attentati quotidiani, morti e feriti, terroristi algerini e Santé straripante di intellettuali, Lucentini decide di rientrare in Italia. Va a Torino e il suo amico Fruttero riesce a farlo entrare, anche lui all’Einaudi, dove rivedrà traduzioni e note di classici. Intorno a loro ci sono in quegli anni Italo Calvino, Natalia Ginzburg, Massimo Mila, Cesare Cases, Giulio Bollati, Franco Fortini, Sergio Solmi, Luciano Foà, Elio Vittorini. Sono gli anni dei ”Gettoni” e dell’impegno, delle discussioni vivacissime che il gruppo einaudiano fa in casa editrice e nelle trattorie torinesi, da ”Simone”, ai ”Goffi”, in collina alla ”Fontana dei francesi”, ci saranno i ”fatti d’Ungheria”, le incrinature con il Pci, i distinguo, le uscite dal Partito. Lucentini e Fruttero, anarchici e individualisti, galleggiano fra le correnti impetuose di via Biancamano, si tuffano su una idea di Solmi e costruiscono una antologia di racconti di fantascienza, Le meraviglie del possibile. Ormai è la fine degli Anni ’50, Lucentini, che ha esordito come narratore con I compagni sconosciuti, che ha letto e tradotto le avanguardie, ha voglia di misurarsi con la letteratura ”popolare”, in sintonia assoluta con Fruttero. E mentre i loro amici discutono di Adorno girano le bancarelle torinesi cercando libri polizieschi, del mistero, di fantascienza. Hanno preso contatto con la Mondadori, vogliono progettargli, cosa che faranno, una Antologia di fantasmi e pensano di curargli anche un settimanale di fantascienza, Urania. L’editoria milanese per Fruttero e Lucentini è ”una vacanza ideologica” dalle stanze einaudiane e anche un arrotondamento economico al magro stipendio einaudiano. Ma è l’inizio della fine del loro rapporto con lo Struzzo, che non gradisce questa loro attenzione per una ”letteratura di consumo”. Il primo a farne le spese è il ”più debole” Lucentini, e pare ci fosse nei suoi confronti una dura presa di posizione di Franco Fortini, il superimpegnato, costretto, dopo una accesa discussione con Giulio Bollati, a dare le dimissioni. Carlo Fruttero per solidarietà, e pur fra molte difficoltà economiche (gli è da poco nata la prima figlia), rassegna anche lui le dimissioni. Dopo un po’ di tempi difficili è anche l’inizio della loro fortuna, della loro indipendenza. Va bene Urania, vanno bene le antologie. Fruttero tiene rapporti con Milano e con tutti, Lucentini continua ad occuparsi di gnostica e metafisica e a viaggiare, con la moglie Simone, fra Torino e Parigi, traduce I mandarini della De Beauvoir, parla al telefono con Vittorio Sereni e progetta un libro di lettere filosofiche con Calvino. Lascia le incombenze pratiche, dalle quali non saprebbe districarsi o che lo vedrebbero, per noia, rovinoso, all’amico Fruttero: è lui che discute libri e articoli per i giornali e le riviste, che solidifica i contratti. Lui che gli fa i resoconti quotidiani di ciò che sta vivendo il mondo. Ma sul lavoro di progettazione e di scrittura diventa inflessibile, maniacale, disposto alla rissa o allo sfibramento per una virgola, un punto e virgola, sorretto dalle sue quaranta sigarette, Gauloise o Camel, di cui non sente neppure più il sapore ma il piacere meccanico del gesto. Vede e rivede i capitoli, da La donna della domenica a La morte di Cicerone, controllando frase per frase, tic e modi di vestire e gesti dei personaggi con maniacalità. Guarda alla scrittura della ”ditta”, a quel ”terzo scrittore” con certosina severità. Ogni tanto andava a vedere una partita di pallone in tivù da Fruttero, ma gli andava sempre male perché finiva zero a zero. Ogni tanto si lasciava convincere a prendere un treno, ma i ritardi lo prostravano psicologicamente. Non voleva sentir parlare di aerei e aeroporti. Ipotizzava, vicino ad ogni aeroporto, un circo con belve feroci che al suo arrivo al gate di partenza sarebbero fuggite dalle gabbie per arrivare ad artigliarlo. Così la piccola, malferma Peugeot gli rimaneva il ronzino più affidabile per affrontare qualsiasi viaggio, dopo un’ispezione alle luci, alle frecce di direzione, alla pressione dei pneumatici. ”Altissimo, fragile, aquilino, era, anche nell’aspetto, nel modo di muoversi e di parlare, un perfetto ”estraneo”, l’impassibile abitatore di un tempo privato, appena tangenziale al nostro. A nessuno sarebbe venuto in mente di chiedergli una presa di posizione, una firma di protesta, di porgergli un microfono sulla pubblica piazza; ma neppure, d’altra parte, di rimproverargli la sua rigorosa ritrosia, di poeta. Anzi”. Questo veloce ritratto di Beckett, scritto da F&L, vale come autoritratto di un Lucentini privato, fuori ”ditta”, extrasodalizio amicale con Fruttero. Un Lucentini che, di tanto in tanto, tornava a scrivere in prima persona racconti borghesiani nei quali una ”papilio dinardensis”, la bianca farfalla di Dinard cara a Montale, svolazzando sulla pensione ”Gli Oleandri”, ai Ronchi, spia i manoscritti di Fruttero e quelli di Lucentini e poi va a riferire al futuro Premio Nobel immagini e suggestioni. Un Lucentini tornato ad essere solo, vagabondo e sognatore» (Nico Orengo, ”La Stampa” 6/8/2002).