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 2002  marzo 04 Lunedì calendario

LUCHERINI

LUCHERINI Enrico Roma 8 agosto 1932. Press-agent. Dopo aver frequentato l’Accademia d’Arte Drammatica ed essere stato due anni nella compagnia dei Giovani, divenne press agent su consiglio di Anna Falk per la commedia D’Amore si muore di Giuseppe Patroni Griffi. «Una solida famiglia borghese alle spalle è in molti casi una sicurezza per diventare un ribelle. Ma Tomaso e Maria Giuseppina erano così perbene, così compiti, così in regola con la loro tipologia sociale, che mai nella ricca società romana che negli anni 60 si era insediata ai Parioli si poteva pensare che quel figliolo era loro. Loro che avevano Mario, che come il papà aveva fatto il medico e come papà doveva diventare primario. Uno dei più famosi della città. Anche per Enrico i genitori avevano la stessa strategia: facoltà di medicina, laurea, bella mogliettina e via andare, come tutti i ragazzi borghesi del dopoguerra. Non andò così: il piccolo Enrico li fece penare. Non sapevano più che fare. Lui infrangva tutte le regole, con quella faccia di tolla e quella battuta pronta che lo rendeva il più simpatico di tutti. [...] disse a mamma e papà che frequentava la facoltà di medicina e dopo due anni mollò tutto per iscriversi all’Accademia d’arte Drammatica. Non era portato, ma diventò amico di tutti. Quando Romolo Valli, Rossella Falk, Giorgio De Lullo e Anna Maria Gurnieri fondarono i Giovani lui era con loro. Finché a Civitavecchia gli fecero lo scherzo perfido di inchiodare, sul palcoscenico, tutto quello che doveva toccare. Doveva prendere il bicchiere, ma era inchiodato, immobile anche la tazza e la sedia. Uno scherzo che lo fece avvampare, [...] dopo quei dimenticabili esordi in scena, è diventato il più famoso press-agenti italiano, il predecessore di tutta la sterminata categoria di pierre che si aggira nella penisola. Quando lui iniziò, nel ”59, era un mestiere che non esisteva. Lo esportò dall’America e lo esaltò all’italiana. lui che fece girare la foto di Silvana Mangano in Riso Amaro, lui che inventò la Martinelli, buttandola in acqua. La scena che non ebbe sul palcoscenico se la conquistò nella vita. Spiritosissimo, cattivissimo, con un cuore grande [...] è l’unico in grado di raccontare la Dolce Vita romana. Non a caso il suo ufficio erano i tavolini di via Veneto, Fellini, Visconti, Loren, tutti sono stati aiutati da lui. Tutti gli devono la loro notorietà. [...]» (Lina Sotis, ”Capital” luglio 2002). «Il primo press-agent italiano, l’inventore del mito della Dolce vita [...] ”Io pettegolo? E chi non lo è? I più grandi curiosi di pettegolezzi di tutti i tempi sono sempre stati proprio gli insospettabili, i grandissimi. Nel cinema: Luchino Visconti, Pietro Germi, oggi Nanni Moretti... Luchino voleva sapere tutto di tutti, adorava le storie delle squinzie, e così Germi: mi portava in certe trattorie fuori mano e mi interrogava fino a notte fonda. Non parliamo di Moretti, lui così schivo, apparentemente. Vuole sapere tutto quello che succede negli altri set, per filo e per segno. Cosa sarebbe il cinema senza il pettegolezzo, senza la chiacchiera? Una noia mortale. Chi sarebbe Rita Hayworth se qualcuno non avesse piazzato la nuvola di Hiroshima dietro le sue gambe, soprannominandola l’Atomica? Quando il gossip non c’è bisogna inventarlo, e ho inventato tante di quelle storie... [...]. Sono innamorato dello spettacolo, degli attori, delle attrici, delle novità. Ancora adesso, la notte del lancio di un film non riesco a dormire: aspetto le due di notte per comprare i giornali, per vedere cosa hanno scritto, soffro più io del produttore... La prima volta che vidi Cinecittà fu con mio padre. Portò me e mio fratello a vedere un ciak di un film di Macario, il Jerry Lewis italiano, era Imputato, alzatevi... Ricordo quel giorno come fosse oggi. Correva l’anno 1939, avevo sei anni, rimasi folgorato. Non immaginavo che avrei passato in quei viali tante ore, tanti anni, tanti momenti meravigliosi. Non avrei neanche immaginato che mio padre mi avrebbe buttato fuori di casa. Già da allora, infatti, il mio destino di maschio primogenito era segnato: avrei studiato medicina. [...] Mio padre Tommaso era un grande medico. Cattedra, incarico al Policlinico, una clientela importante. Lavorava sempre, anche di notte, scriveva libri, studiava e correva dai malati: quando il telefono squillava, lui partiva con la sua borsa, aveva il senso della missione... Abitavamo in via dei Monti Parioli, il quartiere più chic di Roma, e lui aveva lo studio al pianterreno, io mi ci infilavo di nascosto quando visitava gli attori di allora: Salvo Randone, Mariella Lotti, Caterina Boratto. Mia madre, Maria Giuseppina Panzini, era la nipote dello scrittore Alfredo. Da piccolo, giocavo con mio fratello Mario e con mia sorella Bianca agli indovinelli sul cinema. Io mostravo a Mario una foto coperta, e lui dai capelli doveva capire se si trattasse della Noris o della Ferida... Eravamo pazzi per il palcoscenico, parlavamo solo di quello. Un giorno, incontrai un gruppo di ragazzi dell’accademia d’arte drammatica, erano in tuta da ginnastica, li seguii... mi parlavano dei loro miti: Andreina Pagnani, Giorgio De Lullo, Rossella Falk, di quella che era un tempo la Compagnia dei Giovani, un gruppo teatrale leggendario...”. Enrico studia medicina di malavoglia e - di nascosto dai suoi - frequenta l’accademia. Quando i genitori partono, organizza a casa delle grandi feste per gli attori di teatro. Spera di fare anche lui l’attore. Grazie all’amicizia di Giuseppe Patroni Griffi riesce ad ottenere una comparsata, una piccolissima parte, in D’amore si muore. Il padre lo butta fuori di casa, lui si trasferisce in una pensioncina dalle parti della stazione Termini. Lasciata una famiglia, ne trova un’altra: quella che si ritrova al teatro Eliseo, attorno a Paolo Stoppa e a Visconti. ”Una nuova vita e un nuovo ufficio, tutto mio: via Veneto. Correvo da un tavolo all’altro, cominciavo un mestiere sconosciuto a tutti: l’addetto-stampa. Lanciavo i film, costringevo i settimanali di allora, ”Europeo”, ”Epoca”, ”Espresso”, a parlare del cinema. La prima mossa fu quella di indicare ai fotografi gli attori, le attrici. Nessuno, allora, li conosceva... La seconda, organizzare delle foto in qualche modo ”proibite’, vista la censura imperante. Per Mauro Bolognini e la sua Notte brava del 1958, feci bagnare, tutte vestite, Antonella Lualdi, Annamaria Ferrero, Elsa Martinelli... le camicette diventavano trasparenti, e il gioco era fatto”. Fellini scrive La dolce vita, Lucherini gli suggerisce di immergere Anita Ekberg nella Fontana di Trevi. Un’idea che avrebbe fatto il giro del mondo, un’immagine che ha reso eterno il mito del regista. Magro, alto, veloce e sveglissimo, Enrico comincia a guadagnare i primi soldi ed è adorato da Ennio Flaiano e Sandro De Feo ”sempre per i miei racconti, e per la mia disponibilità. Fui io a portare fuori dal night Rugantino, la notte dello spogliarello di Aiché Nanà, il rullino che Tazio Secchiaroli aveva scattato. Ero elegante, nessuno mi fermò all’uscita. L’’Espresso” fece il suo scoop ed entrò nella storia di quegli ann”. Giochi veri e giochi falsi. Tutti buoni per far scrivere i giornali. Visconti mette in scena Il giardino dei ciliegi e vuole fiori freschi, Lucherini inventa che gli alberi arrivano, ogni cinque giorni, dal Giappone. Non è vero, ma tutti ci credono. Si gira Il Gattopardo e una voce suggerisce che tutti gli oggetti, perfino le bretelle, siano della casata Tomasi. Verosimile, ma falso, come i fiori che dovrebbero arrivare - per espressa volontà del regista - da Sanremo e invece sono del negozio all’angolo. Di notte, Luchino ed Enrico ridono, alle spalle dei cronisti. Ma confermano sempre. In casa Visconti, in via Salaria, dopocena si gioca. A nascondere un anello, che tutti devono cercare... e magari è legato ai lacci delle scarpe del regista. O alla camiciaia: ”Due squadre - spiega Lucherini - debbono scrivere nomi famosi, poi si eliminano quelli in comune... vince la squadra che resta con più nomi. Ovviamente, i nomi che avanzavano erano quelli delle attricette, delle poverette... Ci divertivamo moltissimo: pochi sanno che il regista, di nascosto dal partito comunista che allora lo voleva sempre superimpegnato, si divertiva con Nilla Pizzi, Mina, Iva Zanicchi, adorava scommettere in gruppo sulla finale di Sanremo, correva di pomeriggio a vedere film come Sciarada, Il dottor Zivago e mi diceva sempre: non diciamolo ad Antonello Trombadori (dirigente del Pci responsabile, in quegli anni, della cultura, ndr )”. A insegnare a Lucherini i segreti dei press-agent americani è Sofia Loren: ”Mi spiegò l’importanza del marchio: di un film, bisogna imporre un’immagine sola... Sofia è e resta la sola diva vera che abbiamo. una mia grande amica, ma ormai ci vediamo pochissimo. Aveva una grazia innata, entrava sempre per ultima, si concedeva pochissimo. Con lei, lavorare era facile. Con le altre, facevo più fatica... Alla Milo dovetti incendiare - per finta - una parrucca. Agostina Belli, per farla apparire sui giornali, la feci annegare. La scena era costruita perfettamente: lei che annaspa, il regista vestito che la salva, l’ambulanza, l’iniezione... Agostina non voleva l’iniezione, ma io la costrinsi. La notizia non potevo darla io, doveva darla il medico. Allora sì che tutti ci avrebbero creduto... come fu”. Fantasia, creatività, molto cinismo e tanta ironia. ”Non esiste una formula segreta, il mio è un mestiere che devi reinventare tutti i giorni. Leonardo Pieraccioni lo lanciai facendolo apparire, per la prima volta, sul mio lettone di casa. Chiamai i giornalisti e dissi loro che avrebbero trovato una sorpresa... Monica Bellucci, in Malèna di Giuseppe Tornatore, l’ho lanciata mostrando un video di dieci minuti a pochissimi superVip, nelle case, in una stanza d’albergo al festival di Venezia... se ne parlò per mesi, prima che il film arrivasse nelle sale”. Un consiglio per conquistare le pagine dei giornali? ”L’unico che sento di dare è la sottrazione, apparire il meno possibile e soltanto nei posti giusti... evitare la Sardegna, fingere di avere passato un mese nel deserto, rendersi preziosi. Negarsi, in Italia, è così raro... fa notizia chi non c’era e non chi c’è sempre”» (’Corriere della Sera” 9/4/2001).