Varie, 4 marzo 2002
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Lumet Sidney
• Filadelfia (Stati Uniti) 25 giugno 1924, New York (Stati Uniti) 9 aprile 2011. Regista. Oscar alla carriera 2004 • «[...] un maestro indiscusso del cinema americano, autore di opere che fanno parte della storia di Hollywood come La parola ai giurati, Quel pomeriggio di un giorno da cani, Quinto potere, Serpico, Il verdetto. [...] nativo di Philadelphia, inizi al Teatro Yiddish di New York prima di passare alla tv e al cinema [...] È famoso nell’industria per l’efficienza del suo modus operandi, il controllo, l’economia, la correttezza, e per la consuetudine delle due settimane di prove “di lettura” con gli attori prima di iniziare a girare, pratica che applica [...] dal suo primo film, La parola ai giurati (1957). [...] “[...] anche io faccio film di consumo. Voglio dire che credo che quei giganteschi film di cassetta che incassano cifre astronomiche non avrebbero catturato l’attenzione del pubblico senza il lavoro di maestri come Marcel Carné, Federico Fellini, Luis Buñuel, Billy Wilder, Roberto Rossellini, Orson Welles, Bernardo Bertolucci, Steven Spielberg e tanti altri. Gente che ha fatto del cinema un’arte ma che ha anche permesso un consumo più popolare, ha messo il cinema su un doppio binario. C’è chi va a divertirsi con The Incredibles e chi va a commuoversi con Hotel Rwanda [...] gli attori sono una parte fondamentale di ogni film. Spesso sono l’unica ragione per cui si va a vedere questo o quel film. I bravi attori sono artisti, e in quanto artisti sono spesso persone complesse, non facili da gestire. Ma fa parte del gioco [...] Ammiro molto Paul Newman, che ho diretto in Il verdetto. Un uomo molto timido, ma che è capace di tirare fuori spicchi della sua interiorità nel momento giusto. Un divo, eppure una persona semplice: non aveva entourage neppure quando era al top. Fa tutto da solo, il cinema, il business delle salse, le opere di beneficenza, le corse in macchina! Amo molto anche Sean Connery, che ho diretto nel ’74 in Assassinio sul Nilo, per la essenzialità ed efficienza dei suoi modi: siamo in perfetta sintonia”. [...] Quel pomeriggio di un giorno da cani era in gran parte improvvisato? “[...] bisognava rendere l’immediatezza della ‘storia vera’ a cui era ispirato il film. L’improvvisazione però avveniva prima di girare, al momento dell’‘azione’ sapevamo cosa avremmo fatto. Gran parte delle battute di Al Pacino sono state inventate da lui sul set: i suoi dialoghi col direttore della banca Charles Durning, la sua conversazione con l’amante al telefono, Chris Sarandon, con sua madre, Judith Malina, con gli altri ostaggi nella banca, e così via. Tutta la sequenza di Pacino che grida ‘Attica’ incitando la folla in strada, è improvvisata. Dissi al cameraman di rimanere fisso su Al qualsiasi pazzia avesse fatto. Anche le luci erano ambientali, per sottolineare l’approccio naturalistico. Quando Pacino entra nella banca all’inizio del film la macchina da presa gli gira intorno: mi sembrava il modo giusto per catturare l’energia di Pacino e volare con lui dovunque andasse” [...]» (Silvia Bizio, “la Repubblica” 9/2/2005). «[...] dopo alcune esperienze teatrali e televisive, esordì nel cinema nel 1957 con una riuscitissima versione di un film per la televisione, La parola ai giurati (titolo originale 12 Angry Men), che doveva restare una delle sue opere migliori. La sua produzione successiva, con risultati alternanti, in genere ha affrontato temi quasi sempre d’impegno civile, toccando fenomeni del costume americano come la violenza, i media, l’apparato giudiziario, la corruzione, la polizia. Il suo secondo film, Fascino del palcoscenico (1958), fu un ritratto dell’ambiente teatrale cui seguirono una serie di pellicole tratte da drammi teatrali come Uno sguardo dal ponte e Il lungo viaggio verso la notte, entrambi, nel 1962, Il gabbiano (1968), o da opere letterarie come Il gruppo (1965). Il tema della violenza costituì il concetto di fondo di L’uomo del banco dei pegni (1964) e La collina del disonore (1965), la sua opera forse più riuscita. La variante poliziesca dello stesso tema comparve in film dall’azione febbrile e coinvolgente come Serpico (1973), Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975), Il principe della città» (1981), La trappola (1982), Terzo grado (1990). Vanno inoltre menzionati il fantapolitico A prova di errore (1964), il giallo da Agatha Christie Assassinio sull’Orient Express (1974), la satira sulla televisione Quinto potere (1976), con il quale portò all’Oscar i due protagonisti Faye Dunaway e Peter Finch, il giudiziario Il verdetto (1982), Daniel (1983), Garbo Talks! (1984), Vivere in fuga (1988), la commedia Sono affari di famiglia (1989), i thriller Un’estranea fra noi (1992), Per legittima accusa (1993), Prove apparenti (1996) e Gloria (1998), remake dell’omonimo film di John Cassavetes» (“La Stampa” 17/12/2004). «Figlio di un attore, recita in teatro fin da ragazzino, immerso nel clima denso di suggestioni culturali di Broadway. In particolare metabolizza gli slanci di tensione civile e politica dell’esperienza teatrale newyorkese mentre dagli anni ’50 si fa le ossa con rigorose regie televisive presso il network Cbs. L’impegno di fede democratica e un linguaggio televisivo “stretto”, “addosso” ai personaggi, tipico del racconto destinato al teleschermo, diventeranno una costante di tutto il suo cinema. Il primo film è La parola ai giurati (1957), amara storia giudiziaria girata su invito di Henry Fonda protagonista designato. Segue Fascino del palcoscenico (1958) irrinunciabile omaggio al mondo del teatro che gli fornisce i testi a cui ispirarsi nei film immediatamente successivi come Pelle di serpente (1959) da Tennessee Williams, protagonisti Anna Magnani e Marlon Brando, Uno sguardo dal ponte (1961), da Arthur Miller, e Il lungo viaggio verso la notte (1962) da E. O’Neill. L’orizzonte poi si allarga a opere più spettacolarizzate per quanto sempre dedicate a temi di impegno. Il rischio di conflitto nucleare diventa oggetto di A prova di errore (1963); L’uomo del banco dei pegni (1965) riflette sulle laceranti contraddizione dell’odio razziale, mentre Il gruppo (1965) si cala in una pionieristica forma di “autocoscienza” femminile offrendo la prima ribalta ad alcune attrici impegnate della nuova Hollywood come Candice Bergen e J. Walter. Nel 1972, con Rapina record a New York, inaugura un filone di storie di violenza metropolitana di volta in volta affrontata dal punto di vista del poliziotto (Serpico, 1973) o del criminale (Quel pomeriggio di un giorno da cani, 1975). L’approccio si rivela sempre problematico, lontano da prese di posizione manichee e anzi a volte eccessivamente indugiante sulla indecifrabilità del confine fra legalità e crimine. Il culmine è raggiunto con Il principe della città (1981), quattro ore di scene di interni, fra commissariati e tribunali che raccontano di un investigatore costretto a denunciare i colleghi corrotti e stritolato da rancori e sfiducia. Un altro emblematico caso di alienazione attuale era già stato affrontato in Quinto potere (1976), film esasperato e disturbante, affondato nei subdoli tentacoli di chi controlla e manipola la forza dei mass media. L’avvocato alcolista di Paul Newman, capace di ritrovare l’orgolgio per combattere la tracotanza dei potenti, è analogamente al centro de Il verdetto (1982), mentre Daniel (1983) elenca impietosamente i misfatti del maccartismo [...]» (le Garzantine – Cinema, a cura di Gianni Canova, Garzanti 2002).