Varie, 4 marzo 2002
MAFAI
MAFAI Miriam Firenze 2 febbraio 1926. Giornalista • «Figlia di due artisti. Il padre Mario, pittore, fu un esponente della scuola romana. La madre, Antonietta Raphäel fu pittrice apolide e visionaria. Nonostante i furori dell’arte, è venuta su con la testa sulle spalle. Sotto l’ala del Partito comunista e del comandante Nullo, in arte Giancarlo Pajetta, ha percorso una fulgida carriera approdando, tra i fondatori, alla ”Repubblica”. Di Eugenio Scalfari ha sempre parlato male, cordialmente ricambiata. Dopo un’esperienza alla guida della Federazione della stampa (sconfitta da Giuliana Del Bufalo, non la mandò mai giù) ha imparato a sciare e si è data, con successo, alla scrittura di libri (tranne un Chi è delle Donne Italiane del Novecento che fece infuriare le escluse e fu dalle medesime stroncato) e alla posta su un femminile. Mamma affettuosa, veglia con distacco sulla vita e la carriera dei figli. Di lei sono famose la chiacchiera irrefrenabile e la risata incontenibile; mise fine a un dibattito di femministe sulla corsia preferenziale per le donne con un secco: in autostrada mi è sempre piaciuta la corsia di sorpasso. Dopo aver passato la vita con un grande comunista, ha fatto il deputato postcomunista ma non le è piaciuto o lei non è piaciuta a loro. Amica inseparabile di Sandro Curzi, lo sostituì con Enzo Siciliano per il breve periodo in cui è stato presidente della Rai» (Pietrangelo Buttafuoco, ”Dizionario dei nuovi italiani illustri e meschini” 24/10/1998). «I miei genitori erano antifascisti e poi, attorno al 1940, mio padre entrò in contatto con il Partito Comunista. Nel 1943, a Roma, io e le mie due sorelle più giovani entrammo in contatto con il Partito Comunista […] Nel 1958 a Parigi lavoravo per ”Vie Nuove”, un settimanale del Partito Comunista diretto allora da Maria Antonietta Maciocchi. Per il giornale andai in Algeria e vidi nascere lì la Quinta Repubblica. A Parigi vivevo in povertà insieme a mio marito che aveva un incarico di tipo politico e mio figlio Luciano. Stavamo in estrema periferia […] Con Pajetta ho vissuto circa trent’anni. Era una personalità molto forte, ma nei rapporti personali non era prevaricante nei miei confronti […] Mi sarebbe piaciuto cominciare più presto il lavoro di giornalista» (Alain Elkann, ”La Stampa” 1/3/1998). «’Io sono affascinata dall’odore della pittura, dei colori mescolati, della trementina. Altro che Chanel n. 5! Per me quello è il profumo più bello del mondo”. Per Miriam Mafai l’infanzia è anche un fatto olfattivo. La sua madeleine proustiana, quel nonnulla che scatena la memoria, è l’esalazione del colore a olio. Figlia di due grandi artisti, Mario Mafai e Antonietta Raphaël, la giornalista è cresciuta posando per loro. ”Mio padre dipingeva le cose che amava: la moglie, le sue figlie, Roma, i fiori... [...] La lezione di piano [...] uno dei tanti ritratti che mi ha fatto mio padre. Ma posare per lui era un piacere, perché aveva una grande dolcezza. Potevo leggere, muovermi, ogni tanto mi richiamava: ’Miriam!’, e io mi rimettevo in posa. Mia madre invece pretendeva tutto il tempo che io, Simona e Giulia, le mie sorelle, restassimo immobili. Avevano due modi molto diversi di lavorare... Lui era più pacificato, forse più sereno. Ma lei era donna, straniera, girovaga, figlia di un rabbino della Lituania, certamente la sua vita era stata più difficile”. [...] La tuba che compare nei Modelli nello studio faceva parte degli oggetti che mio padre e mia madre andavano a comprare al mercato delle cose usate di Campo de’ Fiori. Riportavano a casa stracci, drappi, vasi, vestiti da ballerini, costumi teatrali e li inserivano nelle loro opere. Qualcuno gli suggerì di non mettere la tuba perché era un attributo troppo anglosassone e gli inglesi erano i nostri nemici... Lui la lasciò e vinse lo stesso il Premio Bergamo. Poi mi ricordo che andavamo al Gianicolo e io avevo il compito, che svolgevo molto seriamente e con grande fierezza, di portare una parte dei suoi strumenti da lavoro. Noi abitavamo dall’altra parte del Tevere. Si attraversava una strada che si chiamava ’il ponte del soldino’, perché dovevi pagare un pedaggio. Noi lo facevamo, salivamo su al Gianicolo. Lui si metteva a dipingere e io lo guardavo. Avrò avuto 8 anni, forse 10, e per me Mario Mafai era l’uomo più bello del mondo. [...] Bisogna dire che erano due personaggi molto schivi, riservati, non erano disponibili a un uso mediatico, politico delle loro immagini. Mio padre era più un frequentatore di osterie che di salotti e, sebbene sia stato iscritto al Partito comunista fino al 1958, non è mai stato un pittore ufficiale dedito al realismo. Era un artista dell’intimità, anche nella protesta. Quando dipingeva il ciclista, l’uomo che suona la fisarmonica, o l’operaio all’Osteria, gli interessava l’anima popolare della ’sua’ Roma, più che la denuncia della loro condizione” [...]» (’La Stampa” 3/12/2004).