Varie, 4 marzo 2002
MAGRI Lucio
MAGRI Lucio Ferrara 19 agosto 1932, Zurigo (Svizzera) 28 novembre 2011 (suicidio assistito). Politico. Di formazione cattolica, militò inizialmente nella Democrazia cristiana, che abbandonò a metà degli anni 50 per passare al Partito comunista, da cui fu espulso nel ’69 assieme agli altri fondatori del Manifesto. Prima nel Pdup, dall’84 di nuovo nel Pci, ne uscì nel 91 per aderire a Rifondazione comunista, successivamente abbandonata. Più volte deputato • «“Il bello di Montecitorio”: chissà quante volte se lo sarà sentito dire da deputati e giornalisti, magari dietro le spalle. Lui, Lucio Magri, il più abbronzato e viveur dei deputati comunisti, di sicuro il più piacione, con il suo ciuffo candido, lo sguardo che fulmina, la voce bassa da leader incantatore che tradisce appena le ruvidezze bergamasche delle origini. [...] Col suo passo sicuro, le sue giacche di tweed e le sue soffici sciarpe ha attraversato mezzo secolo di vita politica italiana. Prima democristiano ribelle, poi comunista: nel Pci, nel gruppo del Manifesto, nel Pdup, di nuovo nel Pci, in Rifondazione, coi Progressisti. [...] Estimatore delle belle case in centro (è finito a sorpresa nella lista dell’Espresso dedicata ai vip beneficiati dalla cosiddetta Svendopoli), delle vacanze sulla neve a Cortina e dei tappeti annodati a mano, Magri continua a muoversi nella politica italiana con lo spirito contestatore che sul finire degli anni Cinquanta lo porta ad abbandonare, con Giuseppe Chiarante, suo ex compagno di liceo, il Consiglio nazionale della Democrazia cristiana. Non a caso, rispondendo qualche tempo fa a una domanda sulla crisi della politica italiana, si rifece al “luminoso esempio di Giuseppe Dossetti”, il sacerdote che nel ’53 aveva rinunciato al seggio parlamentare per ritirarsi a Gerico, in Palestina. “Non voglio sembrare immodesto”, disse in quell’occasione, “ma sarei dalla parte di coloro che per salvare la propria tensione morale sono usciti non solo dalla politica ma anche dal mondo cattolico per cercare la strada di un rinnovamento più profondo della spiritualità”. Di sicuro il profilo dell’uomo, nato a Ferrara da padre aviatore e madre casalinga, ma cresciuto a Bergamo, è interessante. Proprio per le contraddizioni che Magri racchiude fin da quando, giovane cattolico impulsivo e poco sintonizzato con lo spirito bigotto della città lombarda, assaporò il gusto della politica. Da un lato c’è il coltivato, aristocratico rifiuto della chiacchiera giornalistica, il piacere controcorrente di ragionare “alto”, oltre le miserie della contingenza tattica, inseguendo quel “bisogno di comunismo in Europa” che solleticò anche Pietro Nenni, proprio mentre i socialisti andavano al governo. Dall’altro c’è una lunga militanza comunista non estranea ai piaceri mondani, incline a qualche debolezza narcisistica, alla rimirazione di sé, al romanticismo socialista di “sesso vitalistico e pratica rivoluzionaria”. “Ricordo una polemica tra Magri e Amendola sul concetto di programmazione, alla vigilia della nascita delle Regioni rievoca Enzo Roggi, storico cronista politico dell’Unità: “Lucio era petulante e insieme fascinoso, il suo impianto logico-deduttivo ne faceva quasi un esteta teorico”. Così teorico – altri direbbero astratto – che Guido Quaranta, decano dei cronisti parlamentari, si divertì “malignamente”, ora ammette, a inchiodarlo nel corso di una Tribuna politica in tv con una domandina semplice semplice: “Onorevole Magri, ma lei sa quanto costano un chilo di pane, un litro di latte e mezza dozzina di uova?”. Lui farfugliò qualche cifra, sbagliandola, e poi, per trarsi d’impaccio, ammise che era solito pranzare al ristorante. “Dopo quella volta mi tolse il saluto”, ricorda il giornalista dell’Espresso. All’uomo, “ispido e irrequieto, oggi magari un po’ fané”, Quaranta riconosce comunque una certa qualità intellettuale: “In un Parlamento nel quale tutti vestono in grigio, lui sfoggiava un’eleganza negligente. E poi gioca bene a bridge e a scacchi, non si concede volentieri ai giornalisti, che anzi detesta. Un giorno Francesco Damato mi disse che sembrava un parlamentare inglese prestato alla Camera dei deputati”. Si narra che le impiegate di Montecitorio se lo godessero con gli occhi, dalle tribune, quando prendeva la parola in aula. “Lucio dagli occhi belli” lo chiamavano, e certo l’aspetto fisico, quel particolare mix di virilità e ritrosia, deve averlo aiutato. “A Montecitorio s’aggirano vari tipi di belli”, analizza Quaranta. “C’è il bello cattivo alla Sgarbi, il bello ragazzesco alla Casini, il bello ciula alla Frattini. E poi c’era lui, Lucio, bello e impossibile per antonomasia”. Vero è che la sua biografia politica, fitta di scissioni e ricomposizioni, anche dolorose, ma sempre all’insegna di una coerenza “comunista”, s’intreccia nelle cronache giornalistiche con una vitalità sentimentale che gli valse anche qualche invidia. La lunga storia d’amore con Luciana Castellina, che per lui lasciò il marito Alfredo Reichlin attirandosi addosso l’esecrazione moralistica del Bottegone, resta una tappa fondamentale della sua vita. Un po’ meno determinante, giura chi lo conosce, fu il flirt, mai andato troppo giù ai militanti del Pci, con la revizigina dei salotti Marta Marzotto. Si potrebbe azzardare che le donne gli piacciano almeno quanto la politica, o viceversa. E alla politica Magri ha davvero donato tutto se stesso, sin da quando, enfant prodige cattolico poco in linea con l’atlantismo ufficiale dello Scudo crociato, seguì le orme di Mario Melloni e Ugo Bartesaghi, usciti dalla Democrazia cristiana qualche anno prima. L’approdo nel Pci, pur tra le polemiche ancora calde legate all’invasione dell’Ungheria, non sorprende. Antisovietico per sensibilità e convinzione, Magri (mai “sacrista di sinistra”) si installa con una certa destrezza in quel contenitore plurimo che si avvia a diventare il partito di Togliatti. Ricopre anche ruoli direttivi, prima di essere espulso nel novembre del 1969, insieme a Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Luciana Castellina, Valentino Parlato (ma nel gruppo c’erano anche Massimo Caprara e Aldo Natoli), per aver dato alle stampe, nel giugno di quell’anno, la rivista Il Manifesto, considerata dal Pci né più né meno che un’inaccettabile eresia. Ma gli eretici non si arrendono: nel 1971 fondano il quotidiano omonimo (un successo, se trent’anni dopo è ancora in edicola), e l’anno successivo decidono di presentarsi alle elezioni con Valpreda capolista (un insuccesso, avendo raccolto alle urne uno scarno 0,7 per cento). Da quel momento le redini dell’organizzazione passano nelle mani di Magri, “il più giovane e il più ambizioso”, come scriverà qualche anno dopo Guglielmo Pepe. L’idea è di raccogliere intorno al Manifesto le forze sparse della nuova sinistra: fallita l’acrobatica aggregazione con Potere Operaio, Magri stringe con Vittorio Foa, che guida le truppe sciolte dell’ex Psiup, un’alleanza che porterà alla nascita del Pdup. Ma i tempi forse non sono maturi. Nemmeno il successivo accordo con Avanguardia Operaia, sotto la sigla elettorale di Democrazia proletaria, assicura al Pdup un’adeguata rappresentanza, e intanto il Pci fa il pieno di voti nel 1976, mentre la nascita del movimento del ’77, violento ed eversivo, spiazza a sinistra Magri e compagni. Nel 1979 la pattuglia del Pdup conta sei deputati: è la crisi di un progetto politico (l’ambizione di costruire un movimento comunista moderno, critico, radicale, non dogmatico), ma ci vorranno altri cinque anni prima che Magri e Castellina siano riaccolti nel Pci da quello stesso Alessandro Natta che ne aveva motivato l’espulsione nel 1969, con gli onori che si debbono ai dissidenti tornati nella casa madre. Per il Pci una piccola rivincita, per Magri “il riconoscimento di un cambiamento che coinvolge tutti”. Anche se poi sull’ingresso in Direzione dell’ex segretario del Pdup si registrano ben sette voti contrari (Rubbi, Fanti, Perna, Colajanni, Boldrini, Borghini e Verdini) e tre astenuti (gli storici Boffa, Villari e Procacci). “Non mi sarei meravigliato se, al mio rientro nel Pci, mi avessero accolto con la celebre frase di Stanley a Livingstone ritrovato nel cuore dell’Africa: ‘Mister Magri, I presume…’”, scherzerà l’interessato. Non senza aver prima risposto con un “Uffa, questo Pintor!”, al vecchio amico e compagno del Manifesto che lo accusa di non essere riuscito “a mettere il movimento operaio in contatto con le nuove realtà che pensavate di rappresentare”. “Io invece credo che ci siamo riusciti”, replica Magri. Aggiungendo piccato: “E poi basta con la storia che gli intelligenti fanno gli indipendenti, i generosi vanno nei movimenti, mentre gli ambiziosi e i fessi stanno nei grandi partiti”. Forse ambizioso ma non certamente fesso, l’ingraiano Magri resterà nel Pci alla sua maniera: soffrendo e scalpitando. Dal 1984 fino al marzo del 1991, quando, sfidando le ironie di Giorgio Napolitano (“Mica ho capito cosa vuole”), esce nuovamente dal partito, ora pilotato da Occhetto, per ritrovarsi accanto a Cossutta e Garavini tra i rifondatori comunisti. Ma anche lì la convivenza non risulta facile, specie con il neosegretario Bertinotti. Risultato: nel 1995 il nome di Lucio Magri non compare in nessuna lista dei candidati alla Camera. “Voglio tornare a pensare, a scrivere”, spiega in un’intervista. [...] Certo, sembrano lontani gli anni (era il 1992) in cui Magri, dopo aver definito Craxi “una tigre di carta”, sentenziava: “Quando la sinistra, per sperare di governare, fa la politica della destra, cresce una spinta qualunquistica e torbida”. E c’è da dubitare che l’esperienza del centrosinistra, specie dopo il poco travolgente approdo dei D’Alema boys a Palazzo Chigi, l’abbia soddisfatto. Impegnato a pilotare sulla rivista il dibattito “su come la sinistra deve andare al voto per non uscirne con le ossa rotte”, Magri sembra aver recuperato, fuori dalla politica attiva, quella dimensione teorica che è sempre stata il suo tratto distintivo. Insieme alla passione per le donne: di classe, possibilmente belle, di sinistra e dal volto austero. Ne sa qualcosa quella famosa giornalista di buona famiglia che, volendolo intervistare, se lo ritrovò davanti dolcemente disteso su un divano, con addosso niente altro che un voluttuoso kimono di seta giapponese. Letteralmente. Così, almeno, vuole la leggenda tramandata nei salotti romani con un sovrappiù di malizia che, nel dubbio e per rispetto verso l’uomo, volentieri tralasciamo» (Michele Anselmi, “Il Foglio” 28/1/2001).