Varie, 4 marzo 2002
MAIFREDI
MAIFREDI Gigi Lograto (Brescia) 20 aprile 1947. Allenatore di calcio. Lanciato dal Bologna, nel 1990/91 sostituì Dino Zoff (che aveva appena vinto coppa Uefa e coppa Italia) sulla panchina della Juventus, chiamato da Luca Cordero di Montezemolo che cercava un allenatore ”moderno” da contrapporre al milanista Arrigo Sacchi. Si presentò perdendo 5-1 la sfida con il Napoli di Maradona per la Supercoppa italiana. Dopo un buon girone d’andata, la squadra crollò nel ritorno rimanendo esclusa dopo decenni dalle coppe Europee. Non ebbe maggior fortuna in coppa delle Coppe, dove sfiorò la finale (eliminato in semifinale dal Barcellona, 1-3 al Camp Nou, 1-0 con gol su punizione di Roberto Baggio nel ritorno). Dopo quell’esperienza non si è più ripreso, inanellando un fallimento dopo l’altro. «Uno dei personaggi più scoppiettanti degli anni ’90. [...] Toccato il cielo con un dito, quando Montezemolo lo chiamò alla Juventus nella stagione 1990-91, non ne ha più imbroccata una: Uefa fallita per un punto, addio alla Juve, poi Bologna, Genova, Venezia, Brescia, Pescara. Lo chiamavano e dopo un po’ lo cacciavano. E’ andata male persino in Tunisia e - quando ha cercato di ripartire dalla C con la Reggiana - è stato silurato dopo poche partite. ”Lo ammetto, è anche colpa mia. Non avrei dovuto accettare certe offerte: le ho accolte senza entusiasmo, solo per monetizzare la popolarità seguita a quell’unico, incredibile anno alla guida della Juventus [...] Il mio torto più grande, se così si può chiamare, fu quello di essere rimasto sempre me stesso anche alla guida della squadra più importante d’Italia. Certe sere, dopo l’allenamento, me ne tornavo a casa a giocare a tennis. Finché si vinceva, nessuno diceva niente: poi me ne hanno fatto una colpa [...] Parliamoci chiaro, io ero lì per aprire un ciclo, ma mi fu impedito di portarlo a termine. L’ossessione dei risultati condizionò tutto. Ricordo il debutto stagionale contro il Napoli, nella Supercoppa. Chiesi in società se fosse un obiettivo primario. ’Non ce ne frega nulla’, mi risposero. Allora, per rispetto verso chi aveva vinto la coppa Italia, schierai la squadra dell’anno prima. Perdemmo e arrivarono i processi [...] Difesa sperimentale, zona allegrissima, inevitabile la figuraccia. E poi Tacconi, per dimostrarmi di essere bravo a giocare anche con i piedi, fece il resto. Non gliene faccio una colpa, per carità. Col tempo ci siamo chiariti. E la squadra, un po’ alla volta, assimilò i miei schemi. Baggio era appena arrivato dalla Fiorentina, senza molto entusiasmo. Il mio primo obiettivo fu quello di dargli gli stimoli giusti. Mi ripagò con una grande stagione [...] Lui parla sempre bene di me. Ma c’è qualcuno, nel mondo del calcio, che può fare il contrario? [...] Prendemmo 28 pali, non so se mi spiego. E sino alla fine del girone di andata la squadra era in corsa su tutti i fronti. Poi cominciai ad avvertire una brutta aria attorno, c’era chi nell’ombra preparava il ritorno di Boniperti. Agnelli? No, lui mi stimava. E fu tempestivo nell’avvertirmi, prima della trasferta di Marassi con la Samp: ’Se perdiamo e andiamo sotto di tre punti, non potrò fare più nulla per lei’. Perdemmo su dubbio calcio di rigore. Ma la situazione era largamente rimediabile. Invece sentii mancare la fiducia dell’ambiente e più nulla fu come prima. Il calo nelle ultime partite resta per me un mistero tuttora inspiegabile [...] Non era facile far accettare a tutti certe regole. Ricordo una trasferta di Coppa Coppe a Liegi: decisi di far riposare Schillaci, lui la prese malissimo e mi disse che non avrebbe accettato la panchina, così lo mandai in tribuna. Allora andò a sfogarsi da Montezemolo: al termine del colloquio, venne a dirmi di avere cambiato idea. Ma io avevo già detto ad Alessio di andare in panchina al posto suo, e così avvenne. La partita andò benissimo, vincemmo 3-1. Tornammo nella notte, scesi a un motel per leggere la prima edizione dei giornali sportivi. I titoli? ’Schillaci rompe con la Juve: andrà al Real Madrid o al Napoli’. Il suo procuratore lo aveva già messo sul mercato...”» (Vincenzo Cito, ”La Gazzetta dello Sport” 20/2/2003). «Alto, massiccio, sicuro di sè, ricco della comunicativa forgiata a vendere champagne nella Bassa e che oggi lo rende più gradevole perchè si prova più simpatia per chi ha preso le bastonate senza piegarsi. ”Quando stai troppo alla destra di Dio qualche mazzata fa bene. Credo che l’abbia provato anche Lippi, perchè mi sembra cambiato dopo l’esperienza all’Inter”. Auto di lusso, occhiali da sole alzati tra il grigio dei capelli. E’ lui. La foto appena invecchiata di quando si presentò alla Juve e i pensionati allo stadio ma anche noi freschi orfani del serioso pragmatismo di Zoff, lo inquadrammo: un ”blagoer”, un fanfarone. Invece era uno che si sforzava di tenersi allegro e su di giri di fronte alla prova più importante della vita. ”Non ho mai capito perchè a molti dà fastidio un allenatore che riesce a ridere”, dice adesso. [...] ”Chi ha allenato la Juve è come il Papa, tutti si ricordano chi è. Mi ero staccato dal calcio. Negli ultimi due anni mi sono occupato di sviluppare un meccanismo di apertura delle porte per gli invalidi: sto cominciando la produzione e la vendita. [...] Sono convinto di non essere peggiore di altri: il mio calcio era avanti di dieci anni quando stavo alla Juve, dunque va bene adesso. [...] Le mie squadre giocavano per vincere e sento che adesso vogliono farlo tutti, dal Trap in giù. [...] Nove volte su dieci me ne sono andato io perchè la situazione non mi piaceva. Con la Juve chiusi intimamente alla vigilia di Natale: vincevamo 2-0 sul Cagliari, salvammo a stento il 2-2 perchè i giocatori pensavano alla festa che la società aveva organizzato alla sera senza dirmi niente. Era una Juve anomala, quella. Prima della semifinale di Coppa col Barcellona, dovetti far aprire un albergo ad Asti perchè nessuno aveva prenotato le stanze a Torino. E avevo una squadretta. [...] Schillaci era un idolo per il Mondiale ma non era un grande giocatore. Tacconi voleva dimostrarmi di essere capace di giocare fuori porta e infatti tre dei 5 gol che prendemmo a Napoli in Supercoppa li devo a lui. Haessler fu un errore: nella Juve di oggi sarebbe un Camoranesi più bravo ma in quell’impianto non serviva. Fosse arrivato Dunga, come era possibile, avremmo vinto subito lo scudetto o la Coppa delle Coppe. Sarebbe cambiato tutto. [...] Lo dico sempre a Roberto: avessi avuto la personalità di adesso avresti vinto tre Palloni d’Oro. Veniva da Firenze, dove gli avevano insegnato a odiare la Juve: giocava con il fastidio sotto pelle e c’erano due suoi compagni che gli facevano la guerra, montando gli altri. Dovetti difenderlo. Eppure segnò 30 gol perchè in campo era ed è un fenomeno. Non ci vediamo spesso ma siamo molto amici. Mi regalò una litografia con dedica del Pallone d’Oro che vinse: non credo che l’abbia fatto con molti altri allenatori. [...] Sono stato uno stupido. Un dilettante. Nel finale di stagione svaccai anche negli atteggiamenti. Non ero ancora pronto per la grande squadra, avrei avuto bisogno di un Boniperti che mi proteggesse, invece Boniperti era uscito dalla società, pensava di rientrarci e in qualche modo mi danneggiò. Sono convinto che certi giudizi taglienti di Agnelli, ad esempio sulla mia ”difesa emozionante”, nascessero dalle valutazioni di Boniperti. Ma io non recrimino, ho allenato la Juve da tifoso, sono stato fortunato. [...] Come giocherei adesso? Come nel basket: moduli che cambiano all’interno della partita, quasi nella stessa azione. Poi allenerei i giocatori a saltare l’avversario, una cosa che 10 anni fa, rapiti dagli schemi, trascurammo. E insisterei sulla costruzione di un gruppo vero come era il mio Bologna, quando Pecci volle rientrare 12 giorni dopo un’operazione alla gamba. Oggi si parla tanto di gruppo ma non so dove c’è. [...] Chi vorrei allenare? Quelli bravi, perchè con loro sono sempre andato d’accordo. E’ con gli asini che non mi trovavo bene. Vorrei Nedved e Del Piero, Totti e Vieri, che ebbi a Venezia ed era un musone che combinava poco ma lo portai dalla mia parte dicendogli che ero stato tifoso di suo padre. Vieri e Totti che si allenano nella mia ”gabbia”, come quella che feci costruire a Orbassano. Uno spettacolo, vi garantisco. Chissà che un giorno...”» (’La Stampa” 16/9/2003).