Varie, 5 marzo 2002
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Malkovich John
• Christopher (Stati Uniti) 9 dicembre 1953. Attore • «’Io specialista in ”bad guy”? Lo dicono i media, la verità è che ho interpretato cento commedie e settanta film, e solo sei volte ho fatto il cattivo” [...] Cattivi no, ma certo i suoi personaggi non mancano di bizzarria. [...] Flemma e subdola ironia sono il suo segno [...] Malkovich tra cinema e teatro: ”Sono in teatro, è lì che mi hanno visto Scorsese e Antonioni, il quale mi offrì un ruolo prima che fosse colpito dal primo infarto. Il cinema è come spingere un treno in salita insieme ad altre 200 persone, il teatro è come essere su quel treno in discesa. All’inizio ero diffidente, ora mi piace molto l’idea di spingere il treno in salita. Ma il teatro mi piace sempre e non è vero che su un palco non ci sono le distrazioni di un set. C’è il pubblico che ti distrae, qualcuno che parla o fa un commento sbagliato. Vorresti liberartene, ma non puoi”. [...] come regista si definisce ”uno che agli attori dice solo salve, poi aspetto che mi sorprendano con il loro mestiere”, come attore è famoso per non interferire con il regista: ”Cerco solo di capire com’è l´inquadratura e basta. Alla fine di Ombre e nebbie Woody Allen mi face dire dal suo assistente se potevo raccomandargli attori come me, che non rompono le scatole al regista chiedendogli di parlare del film e del loro personaggio”» (Maria Pia Fusco, ”la Repubblica” 12/8/2005). «[...] il protagonista di Il tè nel deserto non è il tipo di attore che interferisce: ”Non obietto mai al metodo di un regista. Il suo è un lavoro duro e fare un buon film è quasi impossibile. Così faccio di tutto per dargli ciò che vuole”. [...] fascinoso nel modo di porgersi e di parlare (magnifica voce, magnifico accento) e spiritosissimo [...] Pensare che è diventato attore per caso: quando studente all’Università dell’Illinois flirtava con una ragazza che recitava e assistendo alle prove ci ha preso gusto. L’ultimo anno, parliamo del 1976, un gruppo di persone piene di talento gli ha chiesto di unirsi a loro per fondare una compagnia teatrale a Chicago: ”L’idea mi sembrava un po’ sciocca perché già allora si diceva che il teatro era in declino, forse lo è da 2500 anni, c’era la recessione e per di più in America non esistono fondi pubblici a sostegno. Tuttavia, che mi costava provare? [...] Al cinema ci andavo poco, non sono un particolare amante della settima arte. Ma nell’84 un nostro spettacolo, True West di Shepard, in tournée a Broadway ha avuto un enorme successo. Sono venuti e vederlo registi come Antonioni e Scorsese e da lì è nata la mia carriera nei film [...] Ho recitato, scritto e diretto sia per il cinema che per il teatro. Sono forme diverse e, forse, richiedono talenti diversi. All’inizio davanti alla macchina da presa mi sentivo come un pianista a cui chiedono di suonare un tamburo. Poi ho imparato: nel cinema, che è una somma di momenti e non un continuum, devi semplicemente esserci. La fisicità richiesta è più istintiva, superficiale, dettagliata e meno lavorata che a teatro. Sul set non cerco di entrare nel personaggio, semmai lavoro a svuotarmi e mi preoccupo di sapere quali sono le lenti usate, i movimenti di camera, l’inquadratura” [...]» (Alessandra Levantesi, ”La Stampa” 12/8/2005). «Se quando ero un ragazzino che cresceva nell’Illinois qualcuno mi avesse detto che nel 2002 avrei vissuto la vita di un attore con una settantina di film alle spalle e sarei stato a Venezia per la sesta volta, non ci avrei creduto. Ed è meglio così, sarebbe un errore immaginare le vite che ci aspettano, non sempre sono vite fortunate[…] Io rispetto i registi e cerco di adattarmi a tutti, non m´’mporta se mi trattano male o non mi dicono buongiorno, ma a volte è difficile, fanno scelte deprimenti, faticose. Per questo quello dell’attore si chiama lavoro. Io regista? Sono un vero, totale fascista» (Maria Pia Fusco, ”la Repubblica” 3/9/2002). «[...] Come attore, prediletto oggetto di manipolazione, ho compreso che è semplicemente impossibile mantenere il controllo, orientare la percezione che gli altri hanno di me. Il palcoscenico insegna il controllo ma anche che non si può fermare lo spettacolo, una volta spente le luci in sala. Posso solo continuare a essere John Malkovich, con tutta la serietà che gli spettatori pretendono. Occorre serietà per vivere altre vite, portare altri nomi, rimettersi ogni sera al giudizio del pubblico e, comunicando, rendersi strumento d’oblio. C’è un che di fondamentale nel recitare, nel darsi affinché lo spettatore possa dimenticare la vita che corre parallela alla scena. Dovremmo poter dimenticare, credo, ogni volta che ce ne sia data la possibilità. Chi è John Malkovich, dunque. Chiunque gli si chieda di essere. Al di là della moltiplicazione, dell’estensione di sé che questo mestiere consente, c’è l’individuo, mai uguale a se stesso. Vale per me, come per chiunque altro. Il teatro, il cinema, mi hanno solo aiutato a vederlo con maggiore chiarezza. [...] Sono una persona che prima leggeva sette quotidiani al giorno e poi ha smesso perché teme gli indovini e i venditori di guerra. Che preferisce i libri di storia. Che disegna, fa qualsiasi cosa, pur di non riguardare un proprio film. Uno che passa le vacanze a parlare con i produttori, che in vacanza non ci vanno mai. Che ama svegliarsi la mattina e nuotare nel mare, che tenta di conciliare libertà e responsabilità ed evitare che collidano. Sono un uomo che invecchia. Una famiglia, i miei figli. Fortunato e grato. Rimpiango poco. Che mio padre non abbia visto i suoi nipoti – ma solo perché si sarebbero piaciuti. Che mio nonno sia morto presto. E di aver ricominciato a fumare. [...]» (’Corriere della Sera” 3/8/2005).