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 2002  marzo 05 Martedì calendario

MAN

MAN Igor (Isidoro Manzella) Catania 9 ottobre 1922, Roma 18 dicembre 2009. Giornalista • «[...] figlio di uno scrittore siciliano e di una nobile russa [...] Autorevole commentatore del mondo islamico, ha cominciato al ”Tempo” [...] A ”La Stampa” dal 1963, inviato in Vietnam, in Africa, in America Latina, ha intervistato Ben Gurion, Nasser, Golda Meir, Gheddafi, Khomeini, Arafat e Simon Peres. Tra i suoi libri: Diario arabo, Il professore e le melanzane, L’Islam dalla A alla Z [...]» (’La Stampa” 3/6/2005) • «Ciuffo bianco, sguardo ”cinese”, fu il prediletto di Renato Angiolillo al ”Tempo” anche in virtù di un rocambolesco licenziamento che gli procurò un’ottima liquidazione. Come Georges Gurdjeff, adora il divertimento e la frivolezza facendo finta di indignarsi. Sulla polemica estiva dell’onda anomala (in odio a Capalbio, dove tutti speravano che gli intellettuali finalmente annegassero), dettò la sua opinione: ”L’onda anomala è solo una minchia di mare”. Di sangue russo, è di Catania» (Pietrangelo Buttafuoco, ”Dizionario dei nuovi italiani illustri e meschini” 24/10/1998) • «’Noto giornalista. Tre lettere”. Soltanto leggendo il cruciverba di un settimanale enigmistico, confida, Igor Man si è accorto di aver acciuffato la chimera di ogni giornalista: ”Diventare famoso” [...] Mezzo secolo in giro per il mondo (altro sogno agguantato). Gli incontri con Kennedy - ”a un party newyorkese, appoggiato a una colonna dell’Algonquin, per lenire il perenne mal di schiena” - e Krusciov - ”nelle fattorie sperimentali di Nasser, che il presidente contadino criticava” - Golda Meir e Arafat, Padre Pio e Madre Teresa, Sukarno - ”un gigante” - e Khomeini - ”occhi slavati, testa nell’empireo, piedi per terra” -. Saddam e re Hussein, Gheddafi e Che Guevara. E l’ingresso - ecco il terzo sogno - in quella schiera di cinque, sei giornalisti senza età di cui si può dire, come dei preti, ”eris sacerdos in aeterno”. All’inizio fu la Sicilia, ”la campagna affogata nel sole dell’ETna”, ”la polvere alta e spessa che odorava di cartucce da caccia”, ”la scorza fresca dei cetrioli’, ”i calabroni neroazzurri”, ”le bestemmie adulte dei figli dei massari”, ”l’odore del ragù: pigro, sensuale, torbido”. Figlio di uno scrittore catanese e di una nobildonna russa in esilio (la cui morte è evocata nel racconto de Il professore e le melanzane), trapiantato a Roma alla scuola della Resistenza e della ”libera università di Mario Pannunzio, indirizzo: via Veneto, caffè Rosati”. Ai tavolini frequentati dal fondatore de Il Mondo, Igor Man e pochi altri giovani sedevano accanto a Luigi Barzini jr, Gibò, ”che aveva studiato da antipatico eppure era così umano”, Vitaliano Brancati, ”gran coniatore di soprannomi”, Sandro De Feo, ”detto il Pizzicati per gli esiti del vaiolo”, Vittorio Gorresio, Il Cucchiaio, per la silohuette, Paolo Monelli, il Colonello degli Albini. Il ragazzo prodigio siciliano lavora al Tempo e impagina in terza gli elzeviri di Curzio Malaparte, Alberto Moravia, Guido Piovene, Gianna Manzini, accanto ai suoi. Un giorno riceve uno scrittore che Comisso presenta a Falqui. Ha appena pubblicato un romanzo, Il ragazzo morto e le comete, che a Igor è piaciuto moltissimo. ”Con Goffredo Parise parlammo per tre ore quasi fossimo scambievolmente in analisi, e così finimmo col dirci tutto. Fu per questo, presumo, che non diventammo amici”. Il libro in cui Parise dava la parola a uno scomparso aveva affascinato Man perché lui stesso aveva avuto quell’intuizione. I morti non muoiono si intitola la raccolta di racconti, prefati da Enrico Falqui e che Elvira Sellerio ristamperà quarant’anni dopo, dove Igor sperimenta quel genere, di cui critici come Barberis (che lo accosta al ”miglior Buzzati”) e Gorlier gli attribuiranno la paternità, ”che fonde commento, rendiconto, resa immediata, riflessione culturale, passione civile”. In due parole, cronaca e letteratura. Igor, però, scelse subito dopo la prima. ”Lorenzo Mondo ha definito una civetteria la mia autodefinizione di Vecchio Cronista. Ma io cronista mi sentivo fin da quando, sul bancone della tipografia, tagliai l’ultimo capoverso alla prefazione di Falqui, quello che annunciava ”un grande romanzo proventuro’. ma quale romanzo. Io volevo viaggiare”. Sarà accontentato. Suez, 1956, battesimo del fuoco. E di morte. Il battello su cui Man si sta avvicinando a Port Said, porta gli inviati sovietici, giapponesi, canadesi e una signora egiziana con una bimba in braccio. Gli inglesi, ”nervosissimi, guidati da un generale scozzese incazzato, Stockwell”, sparano. ”Prendo il mezzo marinaio, mi tolgo la maglietta per issare bandiera bianca. Non faccio in tempo. Il sangue schizza dalla fronte della donna come vino spicciato da una botte. Ci chiniamo sulla bambina. Morta anche lei, come muoiono i gattini: le si era fermato il cuore”. Dallas, novembre 1963. Il gran cattivo, Giulio De Benedetti - ”ma rispettò sempre la mia fatica: aumenti di stipendio, telegrammi di congratulazioni, e mai un cicchetto” - l’ha appena chiamato a La Stampa. Il primo abboccamento, quattro anni prima, era cominciato male (’d’istinto, entrato nel suo ufficio, mi ero seduto, mentre il fido Frittitta tentava di avvertirmi che davanti a De Benedetti si restava in piedi” e finito peggio: ”Mi offrì il posto di corrispondente da Washington. Risposi che volevo girare, non chiudermi in una Montecatini più grande. Non gradì”. Ma quella volta, dopo l’assassinio di Kennedy, la telefonata arriva quando Man sta partendo con la moglie per una vacanza in Tunisia: ”Prenda il primo aereo per il Texas”. Laggiù, l’amara sorpresa che del presidente ucciso ”non importava a nessuno, e i pochi dispiaciuti venivano insultati o percossi”. Poi, due mesi di discesa agli inferi del Profondo Sud americano. Il lato oscuro di quell’America per altri versi tanto amata, Igor lo ritrova in Vietnam, sugli spalti di Camp Kannack, dove conta 240 corpi di ragazzini mandati avanti dai vietcong carichi di bombe per aprire varchi agli assedianti. ”Ma fu a casa del farmacista di Saigon, una sera del ”65, che capii come sarebbe finita la guerra. Le ciotole di riso avanzato venivano messe sul davanzale della finestra. ”Verrà la ronda dei vietcong a ritirarle’, spiegò il farmacista. ”Tutti passano il riso ai ribelli, anche chi lavora per gli americani?’, chiesi. Sì, lo passavano tutti. Così io scrissi: come potevano vincere i marines?”. Vinsero invece gli israeliani, quando nel ”67 sbriciolarono a terra l’aviazione egiziana e provocarono le dimissioni di Nasser. Non ci furono pezzi di Man, né di altri inviati, il primo giorno di guerra. Linee bloccate. ”Ma la sera in cui fallì il golpe del maresciallo Amer e le vie del Cairo si riempirono di sostenitori di Nasser, il centralinista mi regalò 11 minuti di comunicazione con Torino, che il mattino dopo De Benedetti trasformò in un neretto di prima pagina” [...]» (Aldo Cazzullo, ”La Stampa” 15/5/1999) • «Il giornalismo non è viaggi e champagne. , quando fatto bene, fatica, sacrificio, ricerca di notizie, per informare e non soltanto per comunicare. Ed è umiltà. Senza quella non fai nulla [...] Si rischia la vita, a volte si muore, ma la ricerca dello scoop non deve diventare una malattia, perché la malattia acceca. Si deve aver paura, si ha paura e solo conoscendo la paura la si può gestire, questo è il vero coraggio: saper gestire la paura [...] Puoi trovare le notizie più grandi, ma se non le esprimi bene, con la parola giusta, le hai sprecate» (’La Stampa” 11/5/2004) • «La memoria di Man, ogni volta che si racconta, è un regalo a chi fa il suo stesso mestiere, ma anche a chi legge i suoi articoli, lo segue in televisione, ne ascolta i giudizi e i commenti. Quel giovane inviato, entrato nella redazione del ”Tempo” di Roma dopo la Liberazione, chiamato alla ”Stampa” nel ”63 da Giulio De Benedetti, è l’uomo del Vietnam - gli assalti dei vietcong - e del Sudan - un plotone di esecuzione pronto a ucciderlo - ed è l’uomo che incontra Kennedy e Kruscev, Golda Meir e Arafat, Khomeini e Saddam Hussein. [...] E lui continua a dire: ”Sono un cronista che racconta quello che vede”. Ma se ne vedono tante. E la storia di un inviato nasce dalla scuola che frequenta, scuola quotidiana più che di aule. Dice Man: ”Io facevo parte degli uditori del cenacolo di Pannunzio. C’erano Giovanni Russo, Alberto Ronchey, Alberto Arbasino, Giovanni Spadolini. Ci si trovava al caffè Rosati o al caffè Aragno e stavamo, noi giovani, ad ascoltarli discutere. Io lavoravo al ”Tempo” e talora ci chiamavano e ci facevano l’esame, discutevano di ciò che avevamo scritto. Stavamo a sentire grati, con l’umiltà che i giovani di oggi nemmeno conoscono”. Poi ci si ritrova come grande figura del giornalismo in un villaggio assediato oppure davanti a un plotone d’esecuzione. Che effetto fa sapere che stai raccontando la Storia? ”Il giornalista è lo storico dell’istante. Vivi la Storia e non te ne rendi conto”. Te ne rendi conto almeno quando hai paura: ”Una persona ragionevole come si presume che sia un inviato speciale con la paura deve conviverci: è una compagna ineludibile. Un conto sono gli spaventi, come quando in Sudan mi trovai di fronte a soldatini giovani, che mi piazzarono davanti al plotone d’esecuzione, un conto è quando ti regoli su come muoverti. Quei soldatini aspettavano il sergente e volevano fucilare. Con il sergente ci capimmo. Scampai alla fucilazione”. Ma la paura si porta a casa? ”Si porta a casa la pelle. Perché la paura è una consigliera di prudenza. Vedi morire bambini e gente inerme. Reagisci con la biro e basta”» (Marco Neirotti, ”La Stampa” 23/6/2004).