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 2002  marzo 05 Martedì calendario

MANCINI Roberto

MANCINI Roberto Jesi (Ancona) 27 novembre 1964. Allenatore di calcio. Dal dicembre 2009 sulla panchina del Manchester City, nel 2011 ha vinto la Coppa d’Inghilterra. Ex calciatore. Esordì in serie A a nemmeno 16 anni con il Bologna. Ha vinto due scudetti, con la Sampdoria nel 1990/91 e con la Lazio nel 1999/2000. Vicecampione d’Europa nel 1992 con la Sampdoria. Ha vinto due coppe delle Coppe (nel 1989/90 con la Sampdoria e nel 1998/1999 con la Lazio) e sei coppe Italia (Samp 1984/85, 1987/88, 1988/89, 1993/94, Lazio 1997/98, 1999/2000). In nazionale ha disputato 36 partite segnando 4 gol. In totale ha giocato 541 partite di serie A segnando 157 gol. Allenatore, ha guidato Fiorentina, Lazio e Inter, squadra che sotto la sua gestione ha vinto gli scudetti 2006 (a tavolino), 2007 e 2008 • «Ha giocato a calcio meglio di tutti i suoi colleghi in panchina, è stato un fuoriclasse del livello di Baggio. Il che significa avere il calcio dentro, pensarlo in modo categorico e personale, avere la capacità di vederlo dove gli altri vedono solo spazi vuoti. Mancini ha giocato per venti anni, una carriera doppia sempre ad alti livelli. Ha vinto due scudetti con due squadre improbabili, Sampdoria e Lazio. Come i veri fuoriclasse ha trasformato i luoghi in cui ha giocato, li ha resi vincenti fino a livelli impensabili (la sua Samp ha vinto la coppa delle Coppe e ha perso ai supplementari la coppa dei Campioni). Poi lasciandoli, li ha riconsegnati alla loro normalità, confermando che la differenza era lui. Mancini in sostanza vede il calcio da genio, difficile capirlo, va seguito. Ma è un genio che non si parla addosso. Non ama il calcio per il calcio, cerca sempre la sostanza. Il primo anno a Firenze mise Rui Costa seconda punta accanto a Chiesa. Rinforzò difesa e centrocampo, passò a lungo per catenacciaro perché non aveva attacco. Si appoggiava dove trovava più forza. L’anno dopo inventò una difesa di juniores e un’orda di piccoli fantasisti in attacco. Si ruppe Chiesa, non funzionò. Ma era già un altro schema, un calcio opposto all’anno prima. Alla Lazio si è sfogato. Aveva giocatori di classe, altri li ha inventati, altri li ha rimessi in moto. Ha fatto sempre spettacolo e una Champions League. È stato l’uomo in più della sua squadra, la sua diversità. [...] ama il gioco, non si spaventa. Studia i particolari, ha le sue visioni, prende in contropiede la vita e il calcio degli schemi. La sua squadra ideale ha due mezzali che giocano a calcio, entrambe con piedi buoni. Una un po’ più fisica, l’altra decisamente tecnica. Vuole due esterni di attacco, che sappiano saltare l’uomo, molto larghi, molto talentuosi, due veri fantasisti. Il suo centravanti ideale è stato Casiraghi e quello ancora cerca nelle sue costruzioni di squadra. Poi la prima punta, comunque sia, basta che sappia segnare. Il suo centrocampo ideale credo sarebbe Fiore, Veron, Stankovic, Cesar, con Cristiano Zanetti a supportare l’eccessiva fantasia dei quattro. I terzini devono saper giocare come fossero mezzali. È lì la differenza. Saper difendere non è difficile, capita a molti. Meno facile è ripartire con intelligenza. [...] uno degli schemi che predilige è quello con tanti piedi buoni a girare intorno a una punta di fisico e tecnica come Adriano. [...] ha un buon rapporto con i suoi giocatori perché è sincero. Sotto questo aspetto è ancora molto giocatore. Molti dei suoi lo chiamano Mancio, non mister. Lui sa essere crudele come tutti quelli che devono prendere molte decisioni, ma se promette mantiene. E sa cosa promettere, ecco il suo vantaggio, perché conosce benissimo il calcio. Se prende Muzzi e Albertini, sa esattamente cosa possono dargli. E va a cercarli chiedendogli quello. Infatti è molto amato dai vecchi, che si sentono rispettati dal suo atteggiamento. Contrariamente a quello che probabilmente pensa anche lui, non va pazzo per i numeri dieci. Non quelli puri, almeno. Accusava Rui Costa di non riuscire a essere decisivo, ma di pesare sul gioco come se lo fosse. Allora era una profanazione, ora molto meno. Ha fatto la sua tesi al corso allenatori sulla differenza del numero dieci nel calcio di oggi, cioè quello dal ’94 in là. Un calcio molto più fisico, dove la tecnica deve accoppiarsi alla potenza. Il suo calcio. Mancini si sente una prosecuzione moderna di Rivera e pensa Totti la sua prosecuzione. In generale, penso che non ami il numero dieci perché ha infinito rispetto di sé. Mancini ha un modo modesto di amarsi, ma non può esimersi dal farlo. Come molti geni, non riescono a trovare futuro al ruolo che è stato loro. Pensano che quel ruolo è cambiato, com’era prima non c’è più. Così ne cerca tutte le varianti, ma non vede la realizzazione completa. Attenzione, perché capita che Mancini procuri tempeste nelle società in cui arriva, specie fra gli ex campioni di quella società, e all’Inter ce ne sono molti. Ha troppo carisma, troppo passato, credo che i vecchi lo sentano come un pericolo. Come se temessero di perdere ruolo fra la gente e con il presidente. Lui non è un orso, ma non è nemmeno un cacciatore. Tende a rapporti o molto forti o molto formali. Ha un difetto importante, punta a pensare di risolvere i problemi da solo. Tende ad accontentarsi. A vedere il bicchiere mezzo pieno di un giocatore, non quel che gli manca. Un eccesso di buona volontà che in una grande squadra potrebbe pesargli. All’Inter dovrà soprattutto pretendere. Complessivamente è un incendiario, è un trasgressivo naturale, la cui trasgressione ti prende alle spalle perché scende da una calma olimpica. Ha imparato a reggere le tensioni, a trasformarle in energia. [...] sarebbe un ottimo commissario tecnico proprio perché ha intuizioni velocissime e si basa molto più sulle caratteristiche degli uomini che sugli schemi. In attesa di una Nazionale, non c’è dubbio che sia un grande tecnico. Perfetto per l’Inter» (Mario Sconcerti, “La Gazzetta dello Sport” 18/6/2004). «Un artista, sul campo e nella vita. Roberto Mancini, a differenza di molti che non nascono ricchi e lo diventano, sa scegliere. È un uomo misurato che della ricchezza ama le cose belle, non le cose tante. [...] La sua essenza preferita [...] è “Eternity” di Calvin Klein. [...] Il figlio del falegname di Jesi - dove torna per la pasta al forno e i vincisgrassi di famiglia - ricorda ancora quando se ne andò di casa a 13 anni. Destinazione Bologna. Era il 1977, Lucio Dalla forniva la colonna sonora e per le strade si consumava una breve ma intensa (direbbe Sacchi) rivolta. Roberto seguiva distrattamente gli eventi da una panchina del parco, sempre quella, dove ripensava a casa e a una giovinezza sacrificata al pallone. Bologna con la sua grassa compagnia lo ha aiutato e ancora adesso è la città che ama di più. Più di Genova, dove è diventato grande. Gli sono sempre piaciuti i circoli, le tavole rotonde. Ogni giovedì dall’indimenticabile Edilio, il ristorante dietro lo stadio Ferraris, si riunivano Biancaneve (Edilio medesimo) e i sette nani: Mancio, Vialli, Mannini, il direttore generale Borea, il direttore sportivo Arnuzzo, l’addetto agli arbitri Montali e Antonio Soncini, il responsabile del settore giovanile che aveva valorizzato Mancini a Bologna, fino all’esordio in serie A, a neanche 17 anni. Crescendo, Mancini ha traslocato dai circoli ai salotti. Pesano di più. È diventato amico dei Geronzi, dei De Mita. Ce l’aveva nel sangue (è un’artista, no?) ma ha plasmato il suo stile, scegliendo gli abiti giusti, quasi sempre blu (come Carraro), gli orologi di classe, le sciarpe di cachemire (è stato uno dei primi ad annodarsele al collo a mo’ di cappio), le scarpe inglesi, le auto costose e veloci, come 007, il personaggio che lo seduce di più. Scivola sul bere: al verdicchio preferisce la coca cola. Però, per i nuovi amici a sangue blu non ha dimenticato i vecchi, come il mitico magazziniere della Samp, Bosotin. Offre e pretende lealtà, però diventa intransigente con chi si azzarda a contraddirlo. Difetto: si circonda solo di gente che sa dire “sì” e tende a venerarlo. Però non è un fondamentalista. Sa cambiare idea. Una volta, con la nazionale di Vicini a Milanello, arrivò nel salone del camino dopo aver assistito a un allenamento del Milan di Sacchi. “Sono venuto via: mi stancavo solo a guardare”. Adesso, dall’altra parte della barricata, è diventato un perfezionista, sta incollato al campo e se uno dei giocatori si azzardasse a interromperlo, come faceva lui con Boskov, gli servirebbe cinque pessimi minuti» (Antonio Ferrari, “Corriere della Sera” 17/6/2004). «Se arrivasse in Italia il famoso marziano che sa tutto di pallone e venisse a sapere che Roberto Mancini, vent’anni di serie A, due scudetti storici (Sampdoria e Lazio), undici (!) Coppe nazionali e europee, simbolo acclarato del talento calcistico puro, non ha MAI disputato una sola partita di un solo Mondiale, ci toglierebbe probabilmente la tessera di abitanti della galassia. Eppure è andata proprio così. Quattro Mondiali “sfiorati”: un record. “E nell’unico in cui venni convocato, cioè in quello del ’90 - ringhia con un rancore ancora solido, immutato e per nulla addolcito dal tempo - Azeglio Vicini non mi fece giocare neanche dieci minuti! Nemmeno la finale per il terzo posto! D’altra parte quello non fu certo l’unico errore che commise!”. [...] Per chi non lo ricordasse, Roberto Mancini è stato uno dei rarissimi casi di “bambino prodigio” che ha mantenuto tutte, ma proprio tutte, le promesse dell’adolescenza. A sedici anni giocava già da titolare in serie A (nel Bologna), a diciassette venne scelto da Paolo Mantovani come prima pietra della Sampdoria dei miracoli. “Nell’82 Bearzot mi fece addirittura balenare la speranza di poter disputare il Mondiale di Spagna: mi inserì nella lista dei quaranta, poi, alla fine, preferì Selvaggi”. Però fu poi proprio Bearzot a farlo esordire, non appena ventenne, nella nazionale ormai campione del mondo: anche se, più che un trampolino di lancio, quello diventò l’inizio di un clamoroso esilio. “Venni convocato per una tournée in America: si stavano gettando le basi del Mondiali dell’86. C’erano ancora Gentile, Tardelli, Scirea, Collovati, Altobelli, insomma buona parte del nucleo storico, più alcuni giovani da inserire (Bagni, Battistini, Fanna, lo stesso Baresi...) Giocai un tempo a Toronto, contro la nazionale canadese; dopo quattro giorni, stesso copione a New York al Giants Stadium contro gli Usa. Feci il mio dovere: almeno in campo”. In che senso “almeno in campo”? “Una sera uscii dall’albergo assieme ad altri compagni: New York era bella, piena di luci, un paradiso per i miei vent’anni non ancora compiuti. Non feci nulla di male: tornai solo un po’ più tardi del previsto. Bearzot mi aspettava al varco: me ne disse di tutti i colori. Io forse ebbi il torto di non chiedere scusa, né quella notte, né una volta rientrati in Italia. Me la giurò: e non mi convocò mai più! E così saltò il secondo possibile Mondiale: quello dell’86”. Meno male, Mancini, che in azzurro arrivò il suo “nemico” Vicini... “Ero il capitano della sua Under 21: c’erano Zenga, Vialli, Ferri, Giannini, De Napoli, Donadoni, la futura nazionale. Perdemmo il titolo europeo ai rigori: ma ci volle tutti con sé al suo debutto sulla panchina maggiore”. Arrivò quindi l’Europeo dell’88 (nel quale, per la verità, Vicini fece non poco per imporre e difendere la scelta di Mancini), ma finalmente - soprattutto - Italia ’90: la prima, vera, attesa occasione di scendere in campo in un Mondiale. Ma non fu così. “Fui inserito nei ventidue, ma non sapevo se sarei partito titolare: tanto più che per l’attacco erano state fatte anche alcune convocazioni impreviste (Carnevale, Schillaci, Baggio). Però proprio Vicini - alla vigilia - mi aprì il cuore: ’La sorpresa del Mondiale - dichiarò - sarà Roberto Mancini’. Fu davvero di parola: di sette partite, non ne giocai neanche una. Neanche mezza!”. E pensare che, sulla sua strada, non era ancora apparso - se non come timida alternativa - l’allora giovanissimo Roberto Baggio, la sua futura dannazione. “So benissimo perché Baggio giocò e io no: ma so anche che avremmo potuto tranquillamente giocare assieme essendo le nostre caratteristiche fondamentalmente diverse. Peccato che nessuno lo abbia mai capito: né in quell’occasione, né più tardi”. Erano, lo ricorderete, le celebri “notti magiche” del calcio italiano. Il vento, per gli azzurri, sembrava spirare in una direzione sola: quella della vittoria. Ma mentre Schillaci trasformava in gol come Re Mida tutto quello che gli passava tra i piedi, mentre Vialli vedeva trasformare in calvario quello che doveva essere il “suo” Mondiale, Roberto Mancini schiumava di rabbia nelle retrovie. “Settanta giorni di ritiro per fare lo spettatore. Pazzesco! Vicini si comportò malissimo con me: non ebbe neppure il coraggio di darmi una spiegazione [...] Probabilmente il mio torto, come il torto di Vialli o il torto di Vierchowod era solo quello di giocare nella Sampdoria e non in una società politicamente più forte. E Vicini, si sa, non è mai stato un cuor di leone. In quel Mondiale, purtroppo, non fu neanche un tecnico accorto: nella partita che ci costò la finale, quella contro l’Argentina, sarebbe bastato mettere Vierchowod su Maradona. Lo avrebbe annullato e tutto sarebbe cambiato. Lo avrebbe visto anche un cieco: ma, purtoppo, non Vicini”. Certo che il tempo non ha davvero stemperato quel rancore: forse Vicini fu chiamato a fare delle scelte, ora - da allenatore, da collega - lo potrebbe capire... “Neanche per idea: anzi, adesso lo capisco ancora meno. Un regalo, però, ce lo fece. Ci fece talmente imbestialire, ferì così tanto il nostro orgoglio che noi della Samp vincemmo alla grande il successivo scudetto”. Delusione dimenticata dunque. “Assolutamente no. Anche perché, tanto per cambiare... non giocai neppure il Mondiale successivo. Sacchi mi tenne con sé fino al marzo del ’94: ma due mesi dopo partì per l’America senza di me. E allora sa cosa le dico? Che a questo punto solo una cosa potrebbe farmi dimenticare le delusioni che il Mondiale mi ha dato. Vincerlo! Vincerlo come allenatore. Non ho fretta: il 2010 potrebbe andare benissimo!”» (Marino Bartoletti, “Corriere della Sera” 29/5/2002). «“Sono Mancio datemi del tu”: così si presentò ai giocatori della Fiorentina. [...] Durante gli allenamenti, infatti, dopo aver svolto la parte atletica insieme alla squadra, giocava tutte le partitelle e poi, non sazio, s’intratteneva a battere i calci di punizione. Il suo era un calcio dimostrativo non solo parlato: faceva vedere un esercizio e pretendeva che venisse fatto nello stesso modo. Maniaco della pretattica, non comunicava mai la formazione ai giornalisti, la decisione finale veniva presa la domenica dopo pranzo, prima dell’incontro. La sua avventura di tecnico viola è iniziata ufficialmente a Perugia nel marzo del 2001 per poi interrompersi l’11 gennaio del 2002, giorno delle sue burrascose dimissioni. Una volta, durante una cena, raccontò a Gianluca Vialli di un pre partita a San Siro dove era rimasto meravigliato dall’atteggiamento tenuto dai giocatori del Milan: scherzavano e parlottavano in palestra durante il riscaldamento, poi arrivò Arrigo Sacchi e calò il silenzio. “Pazzesco!”. Fu questo il suo commento e forse quello che vide, in parte lo condizionò. A Firenze, non a caso, nessun giocatore è mai rimasto intimorito dalla sua presenza, molti, primo della lista Enrico Chiesa, sono diventati anche suoi consiglieri. Mai sottomesso, però: con Rui Costa ebbe un’accesa discussione perché voleva che giocasse seconda punta mentre il portoghese non gradiva quel ruolo. Durante le partite, la sua flemma nei confronti degli arbitri ha stupito tutti coloro che hanno ancora nitide in testa le immagini dei suoi trascorsi da giocatore, dove i cartellini gialli e rossi, sventolavano spesso per proteste. Tutt’altro atteggiamento, invece, ha tenuto con i giocatori. Spesso afono a fine partita dopo essersi sgolato per guidare la squadra, non si è lasciato condizionare dalla sua giovane età ed ha attaccato più volte i suoi con frasi del tipo: “Giocherà solo chi se lo merita”, o peggio: “In questa città i giocatori sono abituati male”. Pronto a riconoscere i suoi errori riuscì anche a consigliare a Cecchi Gori di esonerarlo: “Se qua ci fosse una logica disse il 22 ottobre scorso mi avrebbero già cacciato dal momento che ho perso cinque partite su sette”. La drammatica situazione economica della Fiorentina lo ha costretto a risolvere problemi che andavano ben oltre il suo ruolo: ha fatto l’allenatore, ha pensato di poter tornare in campo per aiutare la squadra, si è trasformato in direttore sportivo convincendo Moratti a prestare ai viola Adriano e chiedendo a Cragnotti di lasciar andare via Baronio e Mihajlovic (quest’ultimo trasferimento fu bloccato dal tribunale fallimentare). Ma alla fine si è arreso. Hanno preso a calci i vetri di plexiglass dietro la sua panchina, gli hanno rotto uno specchietto della macchina ma la decisione di lasciare la Fiorentina è stata presa per proteggere la sua famiglia dopo essere stato aggredito verbalmente da un gruppetto di pseudo tifosi sotto casa a tarda notte» (Laura Bandinelli, “Il Messaggero” 13/5/2002).