Varie, 5 marzo 2002
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Mandela Nelson
• Transkei (Sudafrica) 18 luglio 1918. Politico. Leader del movimento contro l’apartheid. Capo storico dell’African National Congress, dopo la messa fuori legge dell’organizzazione (1960) passò alla lotta armata e fu arrestato (’62) e incarcerato (’64). Liberato nel 1990, ha guidato l’Anc nel negoziato con il governo che ha permesso il superamento del regime di segregazione razziale. Trionfatore nelle prime elezioni libere multietniche del ”94, presidente della repubblica fino al ”99. Nobel per la pace ”93 con F. W. De Klerk (Garzantina Universale, 31 agosto 2008) • «[...] geniale stratega di una transizione che sembrava impossibile [...]» (Aldo Rizzo, ”La Stampa” 2/11/2005) • «Un monumento vivente, venerato dalle scolaresche in pellegrinaggio, consultato come un oracolo dai leader del pianeta. Il padre della patria, a cui s’intitolano aeroporti e strade, biblioteche e centrali elettriche. Un santo laico, secondo la definizione unanime della stampa internazionale. [...] Per il pubblico televisivo mondiale, l’immagine simbolo di Nelson Mandela è quella della liberazione, nel febbraio del 1990, dopo 27 anni di carcere. La lenta gloriosa marcia in una Capetown intiepidita dall’estate australe, la folla innamorata, la consapevolezza solenne che quel giorno cambiava la storia. Ma per chi c’era, il Mandela a cui restare affezionati è quello del ”94: l’uomo in camiciola variopinta dal sorriso largo un palmo, appena proclamato presidente nelle prime elezioni democratiche della storia sudafricana, che si divertiva pazzamente a sgomitare nel khoi-khoi, la danza della vittoria. La vita di Rolihlala Dalibhunga Mandela è un concentrato del peggio e del meglio che ha saputo produrre il secolo scorso; e di un Paese, il Sudafrica, meraviglioso, ricchissimo, ma insanguinato e diviso dalla storia. L’università di Fort Hare, a cui s’iscrisse nel 1939 per diventare avvocato, era l’unica per i neri. E anziché dissolversi lentamente, la segregazione razziale peggiorava: nel 1948 l’apartheid divenne legge. Quattro anni dopo, Mandela la combatteva con una campagna di disobbedienza civile, d’ispirazione gandhiana. Ma nel ’61 fu lui a fondare l’ala armata dell’African national congress, il vecchio partito dei minatori neri, Nel ’64 fu condannato all’ergastolo e rinchiuso a Robben Island, un penitenziario al largo di Capetown. La dignità e la forza d’animo con cui affrontò la persecuzione ne fecero l’icona dei movimenti di liberazione nel mondo intero. Nel ’90 la liberazione trionfale, negli anni successivi le trattative con il governo ancora bianco per la transizione. Nel 1993 il premio Nobel per la pace, da dividere con Frederik De Klerk, l’ultimo presidente afrikaaner. Alla presidenza, Mandela compì il suo capolavoro politico: l’istituzione della Commissione per la verità e la riconciliazione, presieduta da un altro Nobel per la pace, l’arcivescovo Desmond Tutu. Lo strumento che riuscì a svergognare gli antichi oppressori, sopprimendo tuttavia la voglia di vendetta delle loro vittime. Nel ’99, saggio e leggendario, Mandela rinunciò alla presidenza in favore del gelido Thabo Mbeki. [...]» (Michele Concina, ”Il Messaggero” 19/7/2008) • Ha raccontato Anthony Sampson, suo biografo che arrivò in Sudafrica nel 1951: «Non mostrava ancora i segni del grande leader. Era vicino a politici di livello, Walter Sisulu e Oliver Tambo in particolare, ma intellettualmente si sentiva meno agguerrito di loro. A volte parlava e agiva in modo avventato e i dirigenti più anziani del partito dovevano tenerlo a freno. Spesso i compagni lo trovavano arrogante. Aveva un fare distaccato, freddo, quasi regale. Intimoriva, con quel suo fisico e quel suo piglio da boxer. […] Fu la prigionia ad abbattere il muro difensivo che si era costruito attorno e ad arricchire la sua capacità di comprensione degli uomini e degli avvenimenti. Fu lì che ebbe il tempo di leggere, scrivere, argomentare le sue tesi, riflettere, acquisire la sicurezza interiore, la pazienza e la lungimiranza che gli avrebbero poi permesso di annientare ogni oppositore, incluso l’astuto Frederick De Klerk. La cosa straordinaria è che arrivò a dominare psicologicamente la prigione. Diventò amico di alcuni guardiani afrikaner, fino a considerare anche loro quasi come dei prigionieri, con le loro paure e le loro aspirazioni […] Verso la fine del processo di Rivonia, si era convinto che lo avrebbero condannato a morte. Quando giunse il momento della lettura del verdetto, buttò giù in fretta alcune righe da leggere quale ultima dichiarazione. Poi invece fu condannato all’ergastolo e quelle note finirono chissà dove. Mi capitarono fra le mani facendo le ricerche per la sua biografia. Mandela di solito ha una scrittura chiara e leggibile ma gli appunti che mi ritrovai a decifrare risentivano del nervosismo e della drammaticità del momento. Tutto ciò che riuscii a leggere fu: ”Anche se sapessi che questo è il mio destino, rifarei tutto da capo”. Inviai allora le note all’unica persona che avrebbe potuto decifrarle: Mandela stesso. Che qualche giorno dopo mi telefonò per dirmi: ”Scusa Anthony, ma nemmeno io sono riuscito a leggerle!”» (Arianna Dagnino, Stefano Gulmanelli, ”l’Espresso” 17/6/1999).