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 2002  marzo 05 Martedì calendario

Manfredi Nino

• Castro de’ Volsci (Frosinone) 22 marzo 1921, Roma 4 giugno 2004. Attore • «Bella faccia romana mai usata per suscitare affannosi erotismi sullo schermo o nel pubblico [...] gli attimi di silenzio pensoso e malinconico, la pausa breve in cui dopo un’offesa, un fastidio, un evento rovinoso, i suoi caldi occhi neri s’immobilizzavano nascondendo ogni affanno o rabbia: in quella calma sospesa di chi ha imparato dalla vita che difendersi è difficile e che per sopravvivere non è sbagliato riflettere prima di reagire, e nel reagire, non è vile sfuggire all’attacco solo con una battuta, una deviazione, con il silenzio. Senza pretendere di vincere. Il suo tempo è stato in parte anche quello dei film ad episodi, quando il nostro cinema e il nostro paese erano così ricchi di storie, che se ne concentravano cinque o sei in un solo film, mettendo insieme i nostri più grandi registi e i nostri più bravi attori. Così Manfredi fu, e aveva già 41 anni, il soldatino muto e toccaccione di L’avventura di un soldato da lui diretto (L’amore difficile, quattro episodi), l’anno dopo un massaio sposato a una prostituta in E vissero felici, (I cuori infranti), poi un marito geloso concupito dal presunto amante della moglie in Scandaloso (Alta infedeltà; in Controsesso, è un marito che con la moglie prova per noia la cocaina in Cocaina di domenica) e un musicista che non riesce a concludere un’avventura (Una donna d’affari); in Le bambole è un marito che non riesce a far l’amore con la moglie chiacchierona (La telefonata). In Vedo nudo, di Dino Risi, fu addirittura protagonista di tutti i sette episodi. Al cinema era arrivato con una laurea in legge ottenuta per far piacere al padre maresciallo di pubblica sicurezza, dopo aver esordito in teatro, radio, rivista e televisione, portandosi dietro la sua ambizione e l’orgoglio di un’infanzia e cultura ciociara e contadina. Negli anni 60 fu l’interprete di 28 film, vivendo la ricchezza di quel cinema geniale che oggi si chiama, limitandolo, commedia all’italiana. Era, bravissimo, l’attore più adatto a rappresentare l’italiano medio non eroe ma mai mediocre, di un’epoca felice in cui i cambiamenti sociali e politici arrivavano attutiti nel chiuso dei piccoli drammi familiari, in una serie di storie probe, dove ogni tanto il peccato, la trasgressione, arrivavano folgoranti ma mai distruttivi. Nino Manfredi non faceva ridere ma sorridere, lasciando sempre un fondo di malinconia, di pena, per il modo in cui sapeva rappresentare la coscienza dei nostri limiti ed errori quotidiani. Il suo personaggio era quasi sempre timido, talvolta sfortunato, pasticcione: accettato dalle donne ma forse non del tutto amato, adultero o tradito, piccolo borghese o immigrato, povero o arricchito, eroico o disonesto, Pasquino o Papa, Geppetto e Girolimoni. Un italiano, come tanti, nel cinema e nella vita, arrivato dall’isolamento provinciale segnato dall’educazione religiosa e contadina, che conquista la laurea, il successo, la bellissima moglie ex modella e poi tutte le donne, come lui stesso ha raccontato, di cui, blandamente, e temporaneamente, s’incapricciava. Senza mai mandare all’aria la famiglia, perno anche professionale per i figli. Il successo non era mai finito, e negli ultimi anni la sua bella maschera sorniona era diventata, in televisione, quella protagonista della fortunata fiction Linda e il brigadiere. In La fine di un mistero (La luz prodigiosa) di Miguel Hermoso, Manfredi interpreta il poeta Garcia Lorca invecchiato e vivo secondo la fantasiosa trama. Alla Mostra di Venezia gli avrebbero consegnato il premio Bianchi: da anni avrebbe meritato un solenne riconoscimento alla carriera, ma inspiegabilmente il nostro cinema se n’è colpevolmente dimenticato» (Natalia Aspesi, ”la Repubblica” 5/6/2004). «Alberto Sordi era il volto per tutte le stagioni. Vittorio Gassman il grande mattatore. Tognazzi il borghese irregolare. E lui, Nino Manfredi, il perfezionista. Anzi, come si definiva lui, un ”pignolo perfezionista”. Bravissimo, puntiglioso, ambizioso, tenace. Un ragazzo della Ciociaria, anzi, della capitale, Frosinone. Un ragazzo che da quella zona, remota (ottant’anni fa) e ferma in un passato provinciale e contadino, scala il suo destino a colpi di coraggio e volontà. Ne ha avuti, di coraggio e volontà, Nino Manfredi, a partire dal primo episodio noto della sua biografia: quando a diciassette anni si ritrovò chiuso al Forlanini per una grave forma di tubercolosi che, secondo quanto disse il medico al momento di dimetterlo, senza speranze, lo avrebbe condannato a morte certa entro pochi anni. E invece, come si sa, non è andata così. Saturnino (come si chiamava in realtà Nino, con un nome che sa di fauni, di campagna romana, di vecchie leggende) ha cominciato la sua battaglia. Per convincere il padre a fargli fare l’Accademia d’arte drammatica, per soddisfare una vocazione gli si era presentata precocemente. Poco importa se la condizione era laurearsi in qualcosa di cui non gli importava nulla, se sapeva che non avrebbe mai fatto l’avvocato. La laurea c’è stata e, si vantava Manfredi, invece di discutere la tesi recitò davanti alla commissione un Arlecchino. Ammetteva anche di aver preso solo 92. Sarà stato per via di Arlecchino al posto delle pandette o la sua recitazione non è piaciuta al professor D’Avak che capitanava la commissione? Era brutale, qualche volta, nel raccontare queste cose, o almeno nel raccontarle ai giornalisti. Era un duro, sotto la sua superficie sorridente e sotto la sua bella faccia tagliata nel legno di Geppetto, il nostro bravissimo Nino. Era uno che si divertiva a coltivare, probabilmente a beneficio degli estranei e di quelli che dovevano raccontarlo, uno stile plebeo, diretto e dialettale. A suo padre dopo la laurea dice (anche se lo racconta quando ormai è pentito): ”Mi ci pulisco il sedere con la tua laurea”. Porta a cena per la prima volta la sua bellissima, giovane futura moglie Erminia, dopo un corteggiamento di un anno e mezzo, e avvisa il cameriere che se per caso la giovane signora avesse chiesto dello champagne dovevano negarglielo con una scusa qualsiasi perché lui aveva in tasca pochi soldi. In un certo senso era così sicuro del suo charme che si sentiva autorizzato - e le cose gli hanno dato ragione - a dire cose normalmente ma ambiguamente impopolari. Siamo italiani, no? e i peccati della carne sono pecadillos. Ecco dunque che Nino confessava serenamente sua sponte di aver avuto una storia con ogni ”collega” con cui ha lavorato. E faceva i nomi. Erminia, a sentire lui, serena, bellissima e inossidabile, aspettava. Fino alla crisi, all’entrata in scena di una bellissima signora, e all’intervento, unico e solo, di Erminia. ”Meglio che lasci perdere. Tu sei greca, ma io sono siciliana...”. Ed Erminia è rimasta ”la mia zattera, il mio faro nella nebbia”. Gli piaceva rievocare il suo passato contadino, il nonno Giovanni che durante le lunghe estati in Ciociaria lo portava a mietere, e diceva che se Gesù era stato messo in croce qualche ragione doveva pur esserci... Ma il meglio del suo autoritratto ciociaro Manfredi lo diede giusto dieci anni fa, quando in occasione dell’uscita in libreria del suo libro autobiografico Nudo d’attore, diede un’intervista a un settimanale raccontando della sua iniziazione sessuale... con una capra: ”Accadde durante la transumanza, raccontò Nino, era uno sfogo necessario e abbastanza comodo, perché la bestia non voleva essere pagata, né ti chiedeva di essere innamorato”. Due punti fondamentali, nell’autoritratto di un uomo celebre anche per la sua parsimonia. Erminia, come sempre, non fece una piega, Gavino Ledda, l’autore di Padre padrone intervenne a illustrare questa forma di antica cultura contadina, e Nino ottenne una volta di più le luci dei riflettori che tanto più e meglio meritava per la sua bravura di interprete. Una bravura che è stata la sua maggiore qualità, accanto al suo essere profondamente patriarca e padre di famiglia (il titolo, guarda caso, di un bel film di Nanni Loy di cui è stato l’interprete), e quindi di una famiglia composta di tre figli, sette nipoti, nuore e generi assortiti (’Ma io mi sento l’ottavo nipote di mia moglie”). Era un attore bravissimo, Manfredi, asciutto, senza sbavature, che facesse Canzonissima in tv, il suo straordinario Rugantino in teatro, la pubblicità del caffè Lavazza che gli rimase appiccicata a lungo come un non voluto ma fortunato marchio di fabbrica, o uno dei suoi tanti film con il meglio del cinema italiano e non solo: e quindi con Puccini e Berlanga, con Loy e Wertmuller, con Magni - che creò con lui un binomio ”romano” straordinario - e con Pietrangeli, con Comencini, Scola, Brusati. Con Brusati scrisse e interpretò, vent’anni fa, Pane e cioccolata, un film ”epocale” (l’aggettivo per una volta non è eccessivo) che oggi va riletto al contrario: non più vedendoci le disavventure di un povero emigrato italiano in Svizzera, ma quelle dei poveri emigrati nella potente e ricca Italia di oggi. Brusati, all’epoca, diceva che, con il suo perfezionismo, Manfredi lo aveva fatto impazzire. Sempre un po’ puntiglioso, Manfredi ribatteva dicendo che avrebbe solo dovuto dirgli grazie, perché il film era più suo che di Franco. In ogni caso il suo perfezionismo e la sua bravura li dimostrò anche dietro la macchina da presa, con L’avventura di un soldato, con Per grazia ricevuta, in cui fu regista, sceneggiatore e attore. La grazia che lui aveva ricevuto era quella dell’intelligenza tagliente, dello humour affilato, della tenacia e del metodo. Non proprio quello di Strasberg, ma quello che deriva da un orgoglio contadino, paziente, sparagnino, e che lo ha sempre spinto a fare le mille cose della sua vita - anche a costruire una leggenda di burbero bonario - da professionista impeccabile» (Irene Bignardi, ”la Repubblica” 5/6/2004). «Uno di quei personaggi che ammetteva in tutta onestà di apprezzare e di desiderare i riconoscimenti, li considerava segni di stima e di affetto, alimento essenziale per un attore. E che attore. Tenace, caparbio, dotato di un’intelligenza acuta e istintiva. Da sempre, da quando, ancora Saturnino, con il padre maresciallo di Pubblica Sicurezza e tutta la famiglia si trasferì a Roma da Castro dei Volsci, il paese in provincia di Frosinone in cui era nato. Erano gli anni Trenta, i mezzi nella famiglia Manfredi, come in tante famiglie, erano scarsi. Ma non era la povertà il problema del ragazzo Manfredi, bensì una ribellione segreta, una voglia di eludere le regole della scuola e poi del collegio Santa Maria, da dove non a caso scappò più volte. Manfredi voleva altro, voleva uscire dal futuro d’impiegato di concetto o al massimo di avvocato, come sognava la famiglia. Il primo scatto verso qualcosa d’artistico fu il banjo, che imparò a suonare durante una lunga degenza in sanatorio per una grave forma di pleurite. Entra nel complessino a plettro dell’ospedale, suona alla radio per i malati, si arrangia come presentatore in parrocchia, e tanto per non deludere la famiglia s’iscrive a Giurisprudenza. Finisce la guerra e Manfredi decide finalmente il suo destino entrando all’Accademia d’arte drammatica e inventandosi mille mestieri per mantenersi, autista, assicuratore, postino, bookmaker. Tenacia, volontà e talento lo portano ad affermarsi nel teatro drammatico prima, poi a vincere la sfida della rivista e del teatro leggero, sul palcoscenico come alla radio e poi in televisione. Ma il richiamo del cinema si fa sempre più forte all’inizio degli anni Cinquanta. Prima lo considera solo un’occasione per sperimentare qualcosa di nuovo, poi s’intestardisce, non capisce come tanti attori presi dalla strada come si diceva allora conquistassero il pubblico delle sale e lui no. ”Vincevano proprio perché non sapevano recitare, perché non facevano niente. Dicevano le battute così, senza ricercare un’espressione e risultavano giusti. Io cercavo un significato, un’interpretazione. Mi resi conto che dovevo liberarmi di tutto quello che avevo imparato in Accademia e recuperare semplicità e spontaneità”, disse in un’intervista. E così, cercando di dimenticare Shakespeare e di avvicinarsi di più al suo celebre slogan ”fusse che fusse la vorta bbona”, anche la carriera cinematografica di Nino Manfredi diventò possibile. Ma non fu facile perché ”non ero mai contento dei personaggi che mi affidavano. Presi l’abitudine d’interferire nelle sceneggiature, di sistemare le battute, di essere sempre presente sul set”. Tanto che volle provare a fare tutto da solo, esordendo nella regia nel ’62 con l’episodio L’amore difficile, tratto da Italo Calvino, un piccolo film senza parole, un soldatino e una vedova che giocano di sguardi chiusi in un treno durante una calda estate siciliana. Un esordio sofisticato per i tempi così come nove anni dopo, quando tornò autore completo di Per grazia ricevuta, una riflessione satirica sull’educazione cattolica in un paesino di provincia, stupì la critica e il pubblico con il suo talento visionario e con le sue azzardate scelte visive. Nell’ambiente del cinema intanto si era diffusa la sua fama di rompiscatole, poco accomodante, puntiglioso. Ma questo non impedì ai grandi maestri dell’epoca di esaltarne le doti d’attore totale, comico e drammatico, vigliacco ed eroico, terreno e surreale» (Maria Pia Fusco, ”la Repubblica” 5/6/2004). «Passerà alla storia come il comico che inventò se stesso. [...] Il suo ideale sarebbe stato di diventare Danny Kaye, ma per anni nel cinema imparò ad accontentarsi di ciò che gli offrivano. Senza badare alla lunghezza della parte o al numero delle battute, solo impegnandosi a non passare inosservato anche se il ruolo si esauriva in pochi minuti. Nel gruppo degli storici ”colonnelli” della risata all’italiana, da Sordi a Tognazzi, da Mastroianni a Gassman, quest’ultimo era quello che Manfredi sentiva più affine sul piano della formazione. Allievo come lui dell’Accademia (dove gli altri tre non avevano messo piede), il giovane ciociaro era partito come attore drammatico. Visconti voleva fargli fare Romeo, Mario Ferrero gli assegnò un ruolo alla Brando in Scontro di notte di Odets. Quest’intenso tirocinio, che doveva portarlo a impersonare Amleto oppure Oblomov, gli insegnò invece quell’aurea regola per cui il comico va recitato con un sottinteso drammatico e viceversa. Poi le occasioni che si succedettero in un cinema dove trionfava la commedia decisero per lui: un film dopo l’altro con registi a volte eccellenti (Bolognini, Pietrangeli, Zeffirelli, Puccini, Risi, Loy, Camerini, Zampa, Comencini, De Sica e via enumerando, li ha passati quasi tutti) e a volte meno. Non potendo farsi garante dell’intera operazione, l’attore garantiva comunque per se stesso. Perfino pignolo per evitare le banalità, sempre pronto a rinfrescare la scena portando qualche idea: con il risultato di prodursi in un paio di prove registiche, l’elegante episodio L’avventura di un soldato dal racconto di Italo Calvino, il vivido Per grazia ricevuta che gli fece vincere addirittura l’Opera Prima a Cannes nel 1971. un peccato che Manfredi non sia andato avanti in un possibile percorso autoriale, ma è stato il coautore di tutti i suoi personaggi: anche quando a scrivere e dirigere erano maestri come Franco Brusati con il premiatissimo Pane e cioccolata, Ettore Scola con C’eravamo tanto amati, Brutti, sporchi e cattivi o Luigi Magni che spesso ha saputo collocare al giusto posto la figura di Nino nei suoi film romaneschi. E lo zampino di Magni c’è anche nel copione di Rugantino (1962) di Garinei e Giovannini, dove Manfredi da squisito cantante cesellò per primo l’indelebile Roma non far la stupida stasera di Armando Trovajoli. Questo è stato Nino Manfredi: un formidabile talento totalmente immerso nel suo lavoro, mai facilone, sempre attento ai particolari. [...] stava in palcoscenico come a casa sua; e a casa, per ciò che se ne sa, stava come un agiato borghese conducendo una vita scandalosamente normale se riferita a un divo. La stessa moglie da quasi mezzo secolo, i figli, il culto della privatezza. Qualcuno, come avveniva con Sordi, lo criticava dicendo: ”Non ha mai offerto un caffè a nessuno”. Sarà anche vero: però sulla scena e sullo schermo, spendendosi generosamente, ha regalato tanto a tutti e sarà ricordato come uno dei grandi» (Tullio Kezich, ”Corriere della Sera” 5/6/2004). «Ha saputo rappresentare, nei molti film da lui interpretati, nelle trasmissioni e persino negli spot di una famosa marca di caffè, il tipo di italiano medio, discreto, appartato, a volte solitario, a volte timido, sorretto sempre da una forza interiore che gli fa superare le difficoltà e le disavventure della vita. Un personaggio diverso da quelli creati, negli anni d’oro della commedia all’italiana, da Alberto Sordi e da Vittorio Gassman, e tuttavia complementare ad essi, nel senso che tutti e tre hanno saputo cogliere taluni aspetti del carattere degli italiani: la furbizia e un certo cinismo, la tracotanza e il menefreghismo, ma anche, appunto, la discrezione e l’individualismo. E tuttavia Manfredi, come d’altronde Sordi e Gassman e altri attori comici e brillanti, non si è rinchiuso entro i confini di un modello drammatico ripetuto all’infinito. Ha di volta in volta approfondito e modificato i suoi personaggi, toccando un’ampia gamma di aspetti, sentimenti, caratteri, atteggiamenti, in situazioni storiche e ambientali diverse, sino a giungere a tratteggiare, da par suo, il personaggio ripugnante del capofamiglia in Brutti, sporchi e cattivi (1976) di Ettore Scola, ovvero a creare, nel trittico di Luigi Magni Nell’anno del Signore (1969), In nome del Papa Re (1977) e In nome del popolo italiano (1990), tre diversi tipi di romani dell’Ottocento, il carbonaro Cornacchia, l’ecclesiastico Don Colombo e Ciceruacchio, con uno stile di recitazione fra il comico e il beffardo, l’ironico e il grottesco. D’altronde Nino Manfredi, che è nato a Castro dei Volsci (Frosinone) e si è laureato in giurisprudenza all’Università di Roma, ha percorso le varie tappe di una tradizionale carriera d’attore, dall’Accademia d’Arte Drammatica al palcoscenico, dalla radio al cinema alla televisione, in un lungo tragitto di avvicinamento alla notorietà e al successo di pubblico e di critica, che egli raggiungerà solo alla fine degli anni 50 e nei primi 60, dopo una ventina di film in cui interpretò parti secondarie dimostrando soprattutto la sua vena popolaresca e la sua comicità macchiettistica. Sarà L’impiegato (1959) di Gianni Puccini, che lo vede protagonista e cosceneggiatore, a imporlo, proprio per quel suo umorismo contenuto, per quella finezza e riservatezza di tratto, che sarà una delle caratteristiche peculiari della sua recitazione di quegli anni. Ed è nell’episodio L’avventura di un soldato da lui diretto e interpretato per il film L’amore difficile (1962), un breve racconto muto, fatto di sguardi, di piccoli gesti, di un erotismo inespresso, che Manfredi esprime al meglio le sue doti di attore e di regista. Un regista acuto nel cogliere le diverse sfaccettature di una storia, di un ambiente, di un personaggio; un attore altrettanto acuto nel rappresentare quella storia, quell’ambiente, quel personaggio. Come s’è visto in Per grazia ricevuta (1970), forse il suo capolavoro, quasi un ritratto idealmente autobiografico, premiato al Festival di Cannes, in cui racconta la piccola odissea di un orfanello oppresso dal senso del peccato, che fa il venditore ambulante di articoli femminili e in qualche modo si riscatta dal passato seguendo gli insegnamenti del suocero anarchico. Più che nell’altro film da lui diretto dieci anni dopo, Nudo di donna, in cui non sempre riesce a coniugare comicità e fantasia, erotismo e drammaticità. Ma come dimenticare i personaggi da lui creati in decine di film, dall’emigrante di Pane e cioccolata (1974) di Franco Brusati al trafficone di La mazzetta (1978) di Sergio Corbucci; dal ruolo drammatico di Il giocattolo (1979) di Giuliano Montaldo a quello comico-grottesco di Café Express (1980) di Nanni Loy, per citare soltanto alcuni dei suoi maggiori successi? A cui va almeno aggiunto il ritratto dell’innocente accusato di omicidio di Girolimoni il mostro di Roma (1972) di Damiano Damiani» (’La Stampa” 26/8/2003). «Suocero di Nancy Brilli, attore in pensione, invece di passare le giornate a giocare con i nipotini e a rivedere in cassetta i suoi vecchi film (e pensare che ce n’è di buoni), da quando si è ammalato di intervistopatia è detto anche ”Mecredi”. Se è la settimana dell’orgoglio omosessuale, lui ti racconta: ”Mecredi, da pischelletto in ospedale me pigliai na scoffia de n’amico”; ed è possibile, ma bisognerebbe chiedere a quello se ci stava; se c’è l’inchiesta sulla ”prima volta”, ti rivela: ”Mecredi, da ciociaro scoprii er sesso quanno me so ingroppato na capra”, e può anche darsi, però quella poraccia non può confermare; se è tempo di sdoganare la destra, ti svela: ”Mecredi, quanno ero un pupo facevo er balilla, però ora sto co’ Rutelli”, ed è sicuro che er Piacione confermerà, ma il federale di allora? Se il Papa festeggia vent’anni di pontificato, ti confessa”Mecredi, na vorta stavo pe’ comincia’ a dubita’ de Dio e allora er Papa, che nun è più er Papa re, m’ha tenuto pe’ n’ora a parla’ de ste cose e alla fine me disse: nun te preoccupà, ce sto io a prega’ per te, e da allora semo amici”, e chi può dire che non è vero, però chi c’ha la faccia di andare a chiedere al Papa se ogni sera prega per il suo amico Nino ”Mecredi”?» (Pietrangelo Buttafuoco, ”Dizionario dei nuovi italiani illustri e meschini” 24/10/1998). «Ho conosciuto il teatro in sanatorio, al Forlanini. Avevo la tubercolosi bilaterale. Entrai in sanatorio nel 1935, vi ho vissuto fino ai diciotto anni. Pensavo che la morte, la ”comare secca”, volesse farmi un brutto scherzo. Ma il mio organismo lottò e si difese. Il mio compagno di stanza era morto, io invece fui trasferito in un’altra camerata. Ho visto morire molti ragazzi, molti compagni. Uscii dall’ospedale nel 1939, non ero più contagioso, ma guarii definitivamente solo nel 1942 con la streptomicina che arrivò dall’America. Cominciai prima a suonare il mandolino in un complesso formato da malati, molti dei quali morirono. Io non pensavo alla morte, la respingevo, pensavo che sarebbero morti gli altri. La domenica facevamo delle recite, anche con le ragazze. Facevo l’annunciatore, i ragazzi ridevano e io mi incazzavo. Non capivo cosa significasse essere un comico. Una volta venne a recitare una compagnia con Vittorio De Sica. Scoprii che recitare era una professione. Quando uscii dall’ospedale, scoprii un teatrino in parrocchia. Facevamo commediole tra uomini, mi travestivo da verginello. Poi Franco Giacobini mi consigliò di iscrivermi all’Accademia. Anche Vittorio Gassman aveva studiato all’Accademia e vi tornava spesso: quando decise di mettere insieme la sua prima compagnia prese me. Buazzelli, Luciano Salce e Squarzina [...] Scola è uno dei miei registi favoriti, Comencini è quello che ho amato di più. Mi fece fare Geppetto; mi disse: ”Tu in Italia sei l’unico che può parlare con un pezzo di legno”» (Alain Elkann, ”La Stampa” 26/4/1993). «La sua vocazione di comico era nata dal dramma, però sentimentale: era innamorato di una ragazza che un pomeriggio lo piantò; la sera, al Teatro delle Arti di Roma dove recitava diretto da Orazio Costa ne La dodicesima notte di Shakespeare, furono papere, battute saltate, gesti inconsulti, una pena, un macello; ma gli applausi rimasero gli stessi di tutte le altre sere. Di qui lo shock: pensò che finchè interpretava Shakespeare, Pirandello o Ibsen non avrebbe mai conosciuto il proprio valore; decise di affrontare senza la protezione di un testo importante quel pubblico che urla soltanto ”’A coso, facce ride!”. Veniva Da tre anni d’Accademia d’Arte Drammatica e da tre anni di Piccolo Teatro di Milano, andò in rivista con le sorelle Nava (Tre per tre Nava), con Billi e Riva, con Wanda Osiris, fino alle commedie musicali di Giovannini e Garinei, Un trapezio per Lisistrata, Rugantino. Faccia da contadino o da soldato, occhi bruni ridenti, Nino Manfredi è stato un attore comico straordinario, di grande sapienza e ritmo, dotato di rara comunicativa, sempre recitante ”in levare”, spesso irresistibile. Eppure i suoi personaggi più memorabili non sono comici: l’italiano platinato emigrante in Svizzera di Pane e cioccolata di Franco Brusati; la bestia prepotente di Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola; Geppetto nel Pinocchio di Luigi Comencini; il portantino d’ospedale di C’eravamo tanto amati, ancora di Scola; il maestro di Lo chiameremo Andrea di Vittorio De Sica; l’architetto di sinistra de Il padre di famiglia di Nanni Loy. E soprattutto il protagonista de L’avventura di un soldato tratto da un racconto di Italo Calvino, bellissima opera prima muta di Manfredi regista, e l’altrettanto ammirevole protagonista del primo lungometraggio da lui diretto, Per grazia ricevuta. Come comico era molto divertente, si capisce, uno dei più bravi: ma Nino Manfredi è sempre stato un uomo serio. Erano serie le sue manie, secondo la moglie che lo vedeva sussultare perchè un portacenere non era stato vuotato, impallidire davanti a un armadio in disordine, angosciarsi per una lampadina fulminata non sostituita, per una bolletta pagata in ritardo. Era serio il suo modo di guidare l’automobile: mai superati i centoventi l’ora, ogni macchina tenuta con una cura tale che una volta gli valutarono due milioni una Porsche pagata tre milioni cinque anni prima. Erano seri il suo rispetto per il danaro, per la proprietà, ”la roba”; e la sua prudenza nel pensare all’avvenire, nel non sprecare nè buttare mai via nulla, nel non fare mai il passo più lungo della gamba. Poteva sembrare poco seria la sua maniera di esprimersi sempre fittamente intessuta di parolacce, doppi sensi, grossolanità, intemperanze dialettali: ma era serio il suo senso della moralità. Quando venne accusato di oscenità per uno sketch interpretato nel film Le bambole, quasi scoppiò a piangere nell’aula del tribunale di Viterbo davanti al giudice esterrefatto: ”Ma come? Io, che sono un padre di famiglia esemplare? Cosa racconterò adesso ai miei figli, come giustificherò ai loro occhi questa vergogna?”. Più che la tristezza metafisica del comico, aveva addosso il malumore fisico dell’epatico: dall’infanzia soffriva di una disfunzione biliare e per questo quasi non mangiava, beveva soltanto acqua minerale, caffè d’orzo o the leggero, era di carattere nervoso e un poco tendente all’ipocondria. Non si conosceva poi, nel cinema italiano, un perfezionista come lui. La prima cosa che sentivi dire dalla gente di spettacolo era: ”Manfredi? Bravo, simpatico. Ma che rompiscatole, che scocciatore, maniaco, pignolo, puntiglioso, cavafiato...”. Esasperava gli sceneggiatori con infinite proposte di revisioni, riscritture, sostituzioni di battute. Tormentava i registi: mai contento, avrebbe ripetuto cento volte la stessa scena, voleva sempre ricominciare da capo. Del cinema sapeva tutto: come si adopera la macchina da presa, come si usa la moviola, come si applica la tecnica di doppiaggio (aveva doppiato molti attori americani, Gèrard Philipe e una volta anche Marcello Mastroianni). Pure di musica si intendeva, essendo stato da ragazzo brillante suonatore di mandolino e poi di banjo, con irritazione del padre sottufficiale di polizia che il banjo glielo ruppe anche in testa. Un perfezionismo da timore, spiegava Nino Manfredi: ”Far ridere per me non è un istinto, è una grossa fatica. Perciò sono pavido almeno quanto sono presuntuoso. Cerco di prevedere tutto perchè ho paura. Una paura tremenda”» (Lietta Tornabuoni, ”La Stampa” 5/6/2004).