Varie, 5 marzo 2002
MANNINO
MANNINO Calogero Asmara (Eritrea) 20 agosto 1939. Politico (democristiano). Eletto alla Camera nel giugno 1976 con 83 mila voti, nel giugno 1979 entrò nel governo Forlani come sottosegretario alle Finanze. Nella stessa legislatura diventò ministro della Marina Mercantile con Spadolini e dell’Agricoltura con Fanfani. Arrestato nel febbraio 1995 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, alcuni pentiti lo accusarono di aver costruito la sua carriera grazie all’amicizia con alcuni esponenti della mafia di Agrigento e di essere stato eletto grazie ai voti delle cosche. Il 14 gennaio 2010 fu assolto in Cassazione dall’accusa di concorso esterno alla mafia • « Per capire il calvario giudiziario di Calogero Mannino [...] basta ascoltare il suo primo commento: ”Hanno portato via un pezzo della mia vita”. Ma forse per mettere a fuoco lo psicodramma politico-giudiziario bisognerebbe ripartire da quei manifesti giganti che, per le elezioni del 1991, tappezzarono tutta la Sicilia con una sorta di sfida lanciata dalla grassa e inquinata Democrazia Cristiana alla mafia dei Corleonesi, di Riina e Provenzano, già latitanti da trent’anni. Perché su quei proclami voluti dall’ex ministro poi finito in cella si leggeva per la prima volta a caratteri cubitali ”Contro la mafia, costi quel che costi”. Firmato Mannino, allora segretario regionale del partito, leader della sinistra interna, deciso a isolare ”don” Vito Ciancimino, in buoni rapporti con Giovanni Falcone e, allora, appena salvato da Paolo Borsellino che aveva bloccato le insinuazioni di un pentito pilotato. Eppure, morti Falcone e Borsellino, due anni dopo le grandi stragi, nel febbraio ”94, a un anno dalla discussa cattura di Riina, fu notificato l’avviso di garanzia e nel febbraio ”95 maturò l’arresto di Mannino, triturato dal pool della Procura dove era arrivato un nuovo capo, Giancarlo Caselli, indifferente a quei manifesti che debbono essergli sembrati la prova del paradosso siciliano di chi dice una cosa per farne intendere un’altra. Fatto sta che quel tentativo di sganciare almeno un pezzo della vecchia Dc dalle trame mafiose abortì con la stessa fine del partito e con il terremoto giudiziario di Mannino, additato come l’interlocutore diretto dello Stato con l’antistato. Per dirla con quello che Caselli, i sostituti Vittorio Teresi e Teresa Principato, indicarono come il ”Buscetta della politica”, tal Gioachino Pennino, un amico di Ciancimino, per dieci anni considerato un pentito attendibile, poi mollato, adesso ritenuto da tanti magistrati un bluff. Smentito via via perfino da altri boss come Leoluca Bagarella che definì Mannino ”un carabiniere” e Giovanni Brusca, il pentito che rivelò il progetto di uccidere l’ex ministro ”perché aveva avversato pubblicamente Cosa Nostra”. Sono cadute una dopo l’altra le accuse, un processo dopo l’altro. I giudici di primo grado si convinsero dell’insussistenza delle prove. Di qui la prima assoluzione, dopo sei anni di dibattimento, nove mesi a Rebibbia, due anni ai domiciliari e un carcinoma. Fu immediato il ricorso al secondo grado chiesto e ottenuto dalla Procura. Lasciando sul banco d’accusa lo stesso pm frattanto nominato sostituto procuratore generale, Teresi. Un nuovo processo concluso nel 2004 con una condanna a 5 anni e 4 mesi. Cominciò allora il ping pong fra Palermo e Roma. Con la difesa che ricorse in Cassazione dove il procuratore generale chiese l’assoluzione dell’imputato. La corte preferì ordinare un nuovo processo, ma esprimendo un giudizio severo per il lavoro compiuto in secondo grado. E i nuovi giudici d’appello a Palermo ne tennero conto. A fine 2008 la nuova assoluzione che demolì l’ipotesi di un presunto patto politico-elettorale con la mafia, ritenuto ”evanescente, dunque insussistente”. Poteva finire lì il ”calvario”, come lo chiama Mannino pensando alla moglie, Giusi Burgio, al figlio Toto, a tutti i familiari. E invece la procura generale ci provò di nuovo. ”Prendendo una sberla dalla Cassazione” [...] la Suprema Corte [...] ha rigettato il ricorso ritenendolo ”inammissibile”. Molti sono convinti che quella Dc, anche la Dc di Mannino, deve avere avuto le sue colpe per i compromessi con la mafia. E continueranno le polemiche politiche [...] Ma l’epilogo giudiziario evidenzia più di un paradosso. Perché Mannino era il nemico di Ciancimino. O meglio Ciancimino non lo tollerava, con lo stesso atteggiamento covato contro i big della sinistra Dc che lo avevano isolato sin dal 1983, al congresso di Agrigento. Ma paradossalmente da qualche tempo i pubblici accusatori di Palermo auspicavano una condanna definitiva di Mannino, mentre corre sulla strada accidentata di una ipotetica e complessa riabilitazione il rampollo di don Vito. [...]» (Felice Cavallaro, ”Corriere della Sera” 15/1/2010) • «Già luogotenente di Gava in Sicilia, era rientrato in scena all’inizio del 2001. A una megaconvention del Cdu, a Palermo, era stato accolto da un boato e dagli abbracci di 3.000 ex dc con le lacrime agli occhi. Pareva fatta: deputato nazionale, e poi, Buttiglione permettendo, segretario nazionale. E invece manco lo candidano. Per salvare la faccia, gli mettono il figlio nel proporzionale (non eletto). Incassa e risorge. Rilascia durissime interviste contro Forza Italia e Gianfranco Miccichè. Ora è il capo della segreteria politica di Buttiglione. A Roma. Gli attribuiscono un ruolo da Mazarino. ”Vuol rifare la Dc”, dicono. ”E ci riuscirà”, aggiungono. Poi, lo scivolone. Il 31 ottobre 2001, tre minuti prima dello stop di mezzogiorno alla presentazione delle candidature, ha chiamato il suo uomo ad Agrigento, Manlio Cardella. E al cellulare gli ha spiegato che no, era andata male, e che non doveva più presentare la lista contro la Casa delle libertà. Sarà che i manniniani si sentivano già ex. E del padre nobile dicevano: ”Ma che vuole fare?”» (’Il Foglio”, 22/11/2001) • Da una lettera al direttore del ”Foglio” Giuliano Ferrara: «Nella mia lunga militanza nella Democrazia cristiana mi sono sempre riconosciuto sulla linea e sulle posizioni della sinistra. Mai luogotenente di altri, né di alcuno. La prego voler pubblicare questa precisazione anche per evitare al suo giornale infortuni di ”disinformazione”. Il cardinale Richelieu illustre prototipo di quel gran personaggio che oggi è Ella non negherebbe questo diritto all’epigono del Cardinale Mazzarino. Da epigono come Egli restaurò la Francia, vorrei, infatti, rifare soltanto un pezzo della Dc. Quella indispensabile a restaurare l’Italia repubblicana, senza concessioni o indulgenze monarchiche» (lettera a ”Il Foglio” del 24/11/2001).