Varie, 5 marzo 2002
Tags : Diego Maradona
Maradona Diego
• Armando Lanus (Argentina) 30 ottobre 1960. Ex calciatore. Dal 2009 allenatore dell’Argentina • Detto il ”Pibe de Oro”, è stato forse il più grande calciatore di tutti i tempi (il dubbio è fra lui e Pelè, ma qualcuno preferisce ad entrambi Di Stefano). Con l’Argentina ha vinto i mondiali di calcio del 1986 in Messico: nei quarti di finale contro l’Inghilterra, in una partita resa ancora più nervosa dal ricordo della recente guerra delle Falkland, fece un gol di mano (dopo aver a lungo negato l’evidenza, disse che era stata «la mano di dio») e, dopo un’azione personale iniziata dalla propria metà campo, realizzò uno dei gol più belli e più famosi della storia del calcio. Dopo aver giocato nell’Argentinos Juniors e nel Boca Juniors, si trasferì in Europa e precisamente al Barcellona, squadra con la quale non ottenne però grandi successi. Trionfale l’accoglienza che gli fu invece riservata dai tifosi del Napoli al suo arrivo in Italia (1984), accoglienza ripagata con la conquista del primo scudetto partenopeo (1986-87 davanti alla Juventus, bis nell’89-90 davanti al Milan) e della prima (e finora unica) coppa europea, la Coppa Uefa del 1988-89 (in finale battuto lo Stoccarda). Con la maglia dell’Argentina ha affrontato tre volte, in incontri validi per la fase finale di un mondiale, l’Italia: nel 1982, in Spagna, si imposero per 2-1 gli azzurri poi campioni del mondo (memorabile la marcatura che gli riservò Claudio Gentile); nell’86 finì 1-1, i biancocelesti, poi campioni del mondo, pareggiarono grazie a lui (complici Giovanni Galli e Gaetano Scirea) il vantaggio azzurro di Alessandro Altobelli; nel 1990, semifinale del campionato del mondo disputato in Italia, si imposero ai rigori gli argentini (1-1 dopo i supplementari, reti di Salvatore Schillaci e Claudio Caniggia): l’incontro fu disputato a Napoli, leggenda (smentita dai fatti) vuole che i tifosi locali, innamorati di Maradona e da lui aizzati alla vigilia della partita, tifarono contro l’Italia. Nel 1991 dovette lasciare l’Italia perché trovato positivo a un controllo antidoping, ma seppe riprendersi fino a partecipare alla fase finale dei mondiali del 1994: dopo un gran gol contro la Grecia, fu trovato nuovamente positivo ad un controllo antidoping ed escluso dalla competizione • «’I Mondiali senza Maradona sono come una festa da ballo senza ragazze”, recitava uno striscione esposto dai tifosi in uno degli stadi di Francia ”98. Dopo sedici anni, quello era il primo Mondiale che faceva a meno dell’asso argentino: un enorme vuoto, senza altri fenomeni all’altezza, scavato in fondo al tempo che scorre. Questione di età. A 38 anni, Diego Armando Maradona era pesantemente vecchio e si era già troppo maltrattato per pensare di poter continuare a giocare, lui che ha sempre detto quello che pensava senza mai pensare troppo a quello che diceva. [...] Maradona era un piccolo Mozart, capace di trasformare in musica divina i percorsi del pallone, tenendolo incollato al suo piede sinistro contro ogni legge di gravità. Per lui vale quello che Gertrude Stein raccontava di Picasso: ”Era nato facendo disegni; e non disegni da bambino, ma disegni da pittore”. Cosa vuole dire? Significa che Diego Armando Maradona non ha mai imparato da nessuno le cose fenomenali che faceva vedere in campo. Baciato da una scheggia di infinito, se l’è ritrovate addosso, nel Dna. E poi, molto semplicemente, le trasformava in palleggi, dribbling, assist, veroniche e gol. ”Quando stavo bene, in campo, sapevo di poter fare qualunque cosa”, ripete ancora adesso Maradona. E non sta barando. [...] Maradona non è stato un esempio di vita, ma un dio del calcio, questo sì. Si placava entrando in campo, mettendosi a giocare, divertendosi come un bambino. Quello era il suo modo di sospendere il tempo, lasciare il mondo da parte e mettersi in tasca l’immortalità. Fosse stato per lui non avrebbe mai smesso. Il campo era il suo elemento, là la sua sindrome di onnipotenza aveva un riscontro tangibile. Fuori era tutta un’altra cosa. [...] cresciuto a Villa Fiorito nella misera periferia di Buenos Aires, Diego Armando Maradona ha cominciato a inventare le sue prodezze giocando con palloni improvvisati, fatti di carta pressata, spago e stracci. Solo più avanti, quando è entrato nelle giovanili dell’Argentinos Juniors, ha potuto prendere a calci dei palloni veri. Ed erano così tanti e gli sembravano talmente belli che – allora – pensava di essere arrivato a Disneyworld. Non ha ancora 16 anni quando debutta in prima divisione, con l’Argentinos: quattro mesi dopo è già in nazionale. Nel 1981 il Boca Juniors investe un sacco di soldi sul giovane fenomeno, prima di girarlo al Barça. dalla parentesi di Barcellona (1982/84) che Maradona comincia a buttarsi via diventando schiavo della coca. Prima piano, poi sempre più pesantemente. Ma intanto, nel 1984 comincia l’avventura napoletana. Sono sette anni travolgenti, scanditi da prodezze mondiali. A Napoli, Diego è un re: con lui arrivano due scudetti, una coppa Italia, una coppa Uefa. Se ne andrà nel 1991 solo come un cane, di notte, in fuga senza fine, dopo un controllo positivo all’antidoping ( la solita cocaina). Ma nel frattempo diventa anche l’unico giocatore della storia del calcio a vincere un Mondiale praticamente da solo. Succede nel 1986 in Messico e quell’Argentina campione (tolto Valdano) non è certo una squadra super. La storia sta per ripetersi a Italia ”90, dove Diego gioca con una gamba sola: ma viene sconfitto in finale. Forse davvero Maradona è stato il miglior giocatore del secolo scorso, assieme a Pelé, come stabilito da un referendum della Fifa. Certo è stato il primo numero uno al mondo di uno sport che, conoscendo il punto massimo della sua diffusione mediatica, si trasforma in industria globale. Come dire: ci sono le immagini che lo raccontano a tutti. [...]» (Alessandro de Calò, ”La Gazzetta dello Sport” 26/4/2005). «[...] il massimo dio degli stadi; un eroe adottato da tutto il mondo; un re plebeo incoronato in mille Paesi; uno dei personaggi più conosciuti del Pianeta; uno la cui compagnia era ambita dai potenti e dalle folle; la cui presenza calamitava i mezzi di comunicazione. [...] un ragazzo cresciuto nei più bassi strati sociali argentini. I cui desideri erano però diventati ordini ovunque. [...] quando arrivò a Mosca con la moglie. Era la vigilia della sfilata d’ottobre. Era l’Urss di Breznev. La Piazza Rossa era interdetta a chiunque. Espresse il desiderio di visitarla e fu accontentato, con scorta di automezzi e blindati. Mica facile tenere la testa a posto. [...] ha regalato emozioni e suggestioni artistiche irripetibili. Nulla di simile si è visto prima e dopo di lui. [...]» (Giorgio Tosatti, ”Corriere della Sera” 20/4/2004). «Nato povero, quinto di otto figli, ha vinto un Mondiale da solo e ne ha sfiorato un altro ancora più solo. Ha regalato a Napoli due scudetti e una Coppa Uefa, risultati mai raggiunti prima e dopo. Non ci ha risparmiato nulla, della sua vita e del suo talento. Non una notte, non un dribbling. Maradonna, con due enne. Lo scrivevano così, i giornali italiani, prima di adottarlo. Ancora quindicenne, Omar Sivori lo aveva segnalato a Giampiero Boniperti. Risposta: ”Cosa può avere di così straordinario che alla sua età non avessi io?”. Cambierà idea, Boniperti, ma la marcia su Baires, per affittarlo, si infrangerà sulle trincee della federazione argentina: no, grazie. Non è casto, Diego, e neppure furbo come Pelè. Ha bisogno di avversari, di nemici. Si circonda di procuratori e famigli che lo usano, il clan Maradona diventa argomento di storielle e storiacce, la Camorra lo aspetta al varco, un battesimo qui, un pranzo di nozze là, mai una volta che si neghi. Intanto, però, continua a fuggire: dal protocollo, dalla folla, dal potere dei Blatter e dei Ferlaino. Più lo pagano e meno si sente appagato. [...] è stato un eroe di troppi, ostaggio di uno strappo che non si poteva più ricucire, da una parte l’immensità della carriera, dall’altra lo strapiombo dell’esistenza. Gli hanno dedicato film, piéce teatrali e un museo itinerante; Claudia, la moglie sposata al Luna Park di Buenos Aires con sfarzo hollywoodiano, gli ha dato due figlie, Djalma e Giannina; un figlio, Diego Junior, l’ha avuto da Cristiana Sinagra, frequentata all’epoca dell’avventura napoletana. stato ammanettato in diretta tv con le pupille stuprate dalla coca, ha sparato ai giornalisti che bivaccavano attorno alla sua villa, ha scelto la Cuba di Fidel Castro come tana di un’età che matura, almeno nel suo caso, non è mai stata. Si è ritirato, è tornato, si è ritirato di nuovo: e l’11 novembre del 2001 per sempre. [...] Ha provato a fare l’allenatore: ha mollato subito, perché Maradona si nasce e non si diventa; e nessuno, nemmeno Diego, può insegnare come si fa a diventarlo. I Mondiali del 1986 l’hanno consegnato all’immortalità. Il gol di mano all’Inghilterra e, sempre agli inglesi, il gol più pazzesco e strepitoso che si potesse immaginare, da un’area all’altra, la palla incollata al piede, docile come un barboncino, fatale come un dardo. [...] Non si è mai drogato per migliorarsi: non ne aveva bisogno, era perfetto così. Lo ha fatto, secondo Bilardo, per liberarsi dalle catene con cui la fame e poi la fama gli hanno imprigionato l’anima. No, non è stato un modello: né, mai, ha millantato di esserlo. sempre stato, semplicemente, il più esagerato. Agenti senza scrupoli ne hanno succhiato, avidi, il conto in banca. Non ha mai saputo scegliere, Diego: né fra gli amici, né fra le donne. Usa e getta, getta e usa: sempre, e sempre di più. Goloso, blandito, religioso: anche il peccatore che molti vorrebbero essere. Ha giocato a fare il rivoluzionario, sopportato a Barcellona, venerato a Napoli. Uomo di pulsioni esagerate, capace di leggere nel cuore dei suoi molti popoli. Resta memorabile l’allocuzione che rivolse ai giornalisti alla vigilia della semifinale Italia-Argentina, Mondiali del 1990, in programma al San Paolo: ”Trovo di cattivo gusto chiedere ai napoletani di essere italiani per una sera, dopo che per 364 giorni all’anno li trattate da terroni”. E poi ci fu la finale all’Olimpico, Argentina-Germania, con l’inno argentino fischiato dal pubblico. Diego era il capitano, e il suo labiale di replica alla sacralità violata fece il giro di tutti continenti: ”hijos de puta, hijos de puta”. Il frettoloso sodalizio con il dopatissimo Ben Johnson, le foto con Fidel e con Menem, l’impiego della politica come clava, un po’ profeta e un po’ imbonitore, fedele al suo machismo da strada, 353 gol in tutto, solo 6 con il piede destro. Nel gennaio del 2000, a Punta del Este, la Rimini uruguagia, la prima, squassante, crisi di cuore. Si è ripreso, è venuto più volte in Italia, trofeo ambito dei Biscardi e delle Carrà. Esposto come un Buffalo Bill un po’ andato ma capace, ancora, di sollevare un alito di audience. Un’icona gonfia e tragica. Per esplorare la foresta Maradona, e farsene una ragione, ammesso che sia possibile, non si può non riandare alle sue radici, a un’infanzia tutta istinto e poca scuola; e comunque, parole sue, ”feliz”. Ha tre anni quando scopre quel mappomondo che, per lui, sarà il pallone, ne ha nove quando qualcuno scopre lui: è Francisco ”Francis” Cornejo, lavora in banca e batte i terreni brulli di periferia, ”los potreros”, culle nelle quali, ogni tanto, frigna un campione: basta avere orecchio musicale. Il debutto in prima divisione risale al 20 ottobre 1976. Argentinos Juniors, la sua squadra, contro il Talleres di Cordoba. Entra nella ripresa, con il numero 16. Da quel giorno comincia tutta un’altra storia, la sua. Diego non è mai stato normale: e mai avrebbe potuto esserlo, con quel sinistro lì, una via di mezzo fra il violino e l’arpa, appoggiato con delicatezza a un tronco tozzo, muscoloso: da ”divino scorfano”, come scrisse Gianni Brera. Nel 1980 è già il miglior giocatore del Sudamerica. Passa al Boca Juniors, poi al Barcellona, dove conoscerà il Vietnam di Bilbao: in un’imboscata tesagli dal truce Goicoechea, si frattura la caviglia sinistra. Dalle Ramblas a Napoli, lo presentano al San Paolo il 5 luglio ”84, ”Buona sera napolitani, sono felice di essere con voi”. Viene giù lo stadio, sessantamila olè [...]» (Roberto Beccantini, ”La Stampa” 20/4/2004) • «Diego è stato il più grande, e lo rimarrà per sempre. Non date retta a chi vi parlerà di Pelé, o Cruyff, o Di Stefano; che sono stati fuoriclasse, campioni completi e portatori di un’immagine istituzionale e edificante che li ha fatti essere ottimi PR di se stessi. Diego è stato altro. Immenso nello splendore e nella distruzione, grandioso nella magnificazione e dissipazione personale. Superbo e populista, artista sublime e ”guappo ”e cartone”. Una vita vissuta sempre al massimo, giocando d’azzardo, ma sempre in prima persona. E facendosi sordo alle tirate moralistiche di chi l’accusava d’essere un cattivo maestro, lui che col suo talento avrebbe dovuto essere apologo vivente di virtù. Come se stesse scritto da qualche parte che l’uomo portatore di doti straordinarie debba essere al contempo straordinariamente esemplare quanto a moralità e condotte, approssimandosi alle divinità delle religioni moderne; e non essere, viceversa, ”uomo amplificato” come gli dei della mitologia greca, generosi e iracondi, avidi e propizi esattamente come gli uomini terreni, ma con diversa capacità d’influenzare i destini d’interi popoli. Proprio questo è stato Diego: un uomo amplificato, eccessivo nelle virtù e nei vizi, dispensatore di delizie pallonare ma allergico alle regolatezze che il calcio e la vita avrebbero preteso. Un guerriero dell’arte calcistica, esercitata in modo viscerale. Cialtrone, talvolta; a viso aperto, comunque. Mai ha tenuto a essere d’esempio, Diego. E ha riso in faccia a chi lo pretendeva. Ha saputo anche essere spregevole e sleale. Irridente, persino, come quando rovesciò la sua "mano de Dios" in faccia agli odiati inglesi, quattro anni dopo le Malvinas, e si fece beffa di ogni moviola segnando di "pugno rasoterra" un gol alla Sampdoria. Per ammettere il misfatto soltanto qualche tempo dopo. Era il suo modo di giocare e giocarsi, mescolando al suo talento la furbizia da malandro necessaria a farne il lievito della grandezza. Niente rimorsi, solo una guerra continua a un mondo del pallone che riservava a lui un amore che era l’anticamera della più bieca detestazione. Come i fatti avrebbero dimostrato, dopo la caduta. Ma c’è un motivo, sopra tutti gli altri, che fa di Diego il più grande di sempre. Egli è stato, nel calcio, l’elogio dell’imperfezione. Di tutti i grandi della storia calcistica si narrerà la completezza tecnica, l’armonia atletica, la propensione fisica. Una galleria di splendidi atleti, ambidestri e buoni colpitori di testa, fisicamente prestanti, imbevuti di un fair play di maniera. Diego è stato nulla di tutto ciò. Tarchiato con tendenza alla pinguedine, mai meno che discutibile sul piano atletico, incapace di gestirsi nello stile di vita nonché ostinatamente mancino come tutti i veri artisti. Aveva nulla per sfondare, oltre a un talento immenso. Se lo è fatto bastare, per costruire il più poetico insulto alla logica del calcio e ai suoi rigidi e frigidi canoni estetici. Da eroe di una naiveté pallonara capace di sopravvivere all’omologazione e di scalare le vette del calcio ufficiale, da "uomo amplificato" fra tanti effimeri semidei» (Pippo Russo, ”Il Messaggero” 20/4/2004).