Varie, 5 marzo 2002
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Marceau Marcel
• Strasburgo (Francia) 22 marzo 1923, Parigi (Francia) 22 settembre 2007. Mimo. «Nessuno gli ha mai chiesto: perché non parli? [...] Il suo lasciapassare sulla scena è da oltre cinquant’anni il silenzio [...] Per fare il mimo non basta fare dei gesti. Tutte le arti, anche il silenzio, hanno una grammatica. Ma prima bisogna sintonizzarsi sull’anima: con il corpo, con il cuore, con lo sguardo. [...] ”Ero negli Stati Uniti. Tra il pubblico c’erano anche trentacinque religiosi: ebrei e cristiani, cattolici e protestanti, gesuiti e frati. Dopo lo spettacolo vennero in camerino e uno mi chiese: Monsieur Marceau, lei è religioso? Ho risposto: Io non pratico nessuna religione, ma quando mi dedico alla mia arte, quando porto in scena la pantomima della creazione ispirata dal libro della Genesi, Dio entra in me”. E i preti? ”Sono rimasti così” ( e mima una faccia stranita). E, siccome a ottant’anni e con una fama ormai consolidata di maestro sulle spalle può permettersi di essere un poco egocentrico e guardare all’avvenire, lancia la sua prossima sfida: ”Mi piacerebbe rappresentare la Creazione del mondo per il Papa. Certo, bisognerebbe essere credenti. Ma, quando faccio la Passione, la faccio meglio di un prete. Perché non posso interpretarla davanti a Giovanni Paolo II? un Papa tradizionalista che però attira sempre la giovinezza. Questo mi affascina”. Forse perché anche Marcel Marceau ha sempre avuto un forte ascendente sui giovani, sui bambini, fin da quando, nel ”44, iniziò a insegnare mimo. ”Sono nato a Strasburgo, frontiera franco-tedesca. Nel ”39, quando la guerra scoppiò, avevo quindici anni. La città venne evacuata, allora andai nel sud della Francia e siccome ero portato per la pittura frequentai la Scuola di arti decorative di Limoges, dove era stato anche Renoir. Poi entrai nella Resistenza, ero ricercato dalla Gestapo e andai a Parigi. Lì cominciai a insegnare mimo in una scuola per bambini poveri. Lo facevo così, d’istinto, senza mai aver studiato quest’arte. Soltanto dopo mi sono iscritto alla scuola di teatro di Charles Dullin. li che ho conosciuto il mio maestro, Etienne Decroux, Jean- LouisBarrault era il suo primo allievo. Quando Decroux mi vide presentare una pantomima mi disse: Marceau, voi siete un mimo nato. Mi ha insegnato molte cose: per esempio che i più grandi mimi sono gli scultori, Michelangelo e Rodin, i due giganti. Michelangelo era sostenuto dal papato: tutto ciò che faceva veniva immediatamente santificato. Rodin visse in una Repubblica, interpretò l’uomo della propria epoca, i borghesi di Calais”. E Marcel Marceau, come mimo, è più Michelangelo o più Rodin? ”Sono tutti e due, incarno il classico, ma sono anche l’artista che vive il suo tempo. Tra le mie fonti di ispirazione, naturalmente, c’è anche Charlie Chaplin”. C’è chi dice che l’abitudine a parlare con il silenzio, a esprimersi con il corpo, gli sguardi, in lui sia nato proprio negli anni della guerra, quando Marcel, ebreo e membro della Resistenza, rappresenta il primo ruolo della sua vita, quello del clandestino. E subito dopo, quando il frastuono della guerra finisce, il silenzio gli rimane incollato addosso, diventa arte. Nel ”47 nasce il suo personaggio più famoso, Bip, un Pierrot caduto sulla terra che ha le ”Grandi speranze” del personaggio cui si ispira, Pip, il protagonista del romanzo di Charles Dickens. Viso bianco, occhi bistrati, cappello con un fiore in testa, Bip sembra l’incarnazione dell’infanzia rubata al suo inventore. Appena nato è una creatura eterea, quasi senza tempo: ”Subito dopo la guerra Bip insegue le farfalle, è una specie di piccolo Don Chisciotte. Poi acquista sempre più profondità. Nel corso del tempo ha fatto tutti i mestieri, è diventato Faust e don Giovanni, è stato catapultato nel futuro, ha affrontato il pericolo della bomba atomica e dell’automazione dell’uomo. Quando è stato pronto, con la memoria è tornato alla guerra, alla luce e all’ombra della natura umana”. Bip non insegue più le farfalle, diventa, seppure a modo suo, il testimone del suo tempo. Rappresenta, attraverso l’allegoria dell’allevatore di uccelli che uccide nella sua mano l’animale che non vuole accettare la libertà e preferisce restare nella gabbia, il pericolo della dittatura: ”Tutti i dittatori vogliono la felicità della gente attraverso i crimini e la violenza. Guardate Mussolini, guardate Hitler. Eppure sappiamo com’è finita. Mussolini appeso in piazzale Loreto, un’immagine che mi ha scioccato molto perché, bien, Mussolini non era Hitler”. Da sempre Marcel Marceau ama l’Italia: ”Non ho mai imparato l’italiano, e di questo mi vergogno un po’, ma quando recito qui mi sembra che sia la mia madre patria. Mi ricordo una delle prime rappresentazioni, negli anni Cinquanta. La gente in sala faceva ’Shh, shh’, l’orecchio teso per cogliere parole che non c’erano. Adesso torno in Toscana, dove è nato il Rinascimento: lì c’è tutto, Dio solo sa perché. Lì ci sono Leonardo, Michelangelo”. Dell’Italia Marceau ha amato molto anche il cinema: ”Gassman che attore meraviglioso era! Comico, tragico, tutto – sospira – . E poi Fellini, Totò, Anna Magnani. I più grandi sono tutti morti. Giulietta Masina, mi vide in Italia nel ”47, facevo Bip. Mi ha detto che lì ha trovato l’ispirazione per la sua Gelsomina nel film La strada”. Il cinema è stato per lui una vera passione e, qualche volta, una tentazione: ”Soprattutto quando avevo tra i quarantacinque e i cinquant’anni. Nel ”60 ero in tournée in Messico, Buñuel aveva un progetto. Voleva fare un film su una mia pantomima, Il fabbricante di maschere, ma io avevo un calendario troppo fitto, non se n’è fatto nulla. Anche Jean Renoir mi voleva per Le caporal épinglé (in italiano Le strane licenze del caporale Dupont), ma, anche in quel caso, avevo una tournée di sei mesi senza sosta e la produzione non mi ha aspettato. Con Vittorio De Sica è stata un’altra occasione perduta. Alla fine, sul grande schermo, ho fatto soltanto dei passaggi: Paganini di Klaus Kinski, Barbarella di Vadim. E L’ultima follia, di Mel Brooks, dove ho parlato. Ho detto ”No’”. [...] Il tempo, la mancanza di tempo, è stato il suo grande nemico: Marcel Marceau vive per trecento giorni all’anno lontano dalla Francia che, dopo qualche incomprensione, l’ha accolto nell’Académie française. Nello studio della sua casa fuori Parigi, alle spalle della scrivania c’è un planisfero dove segna tutti i luoghi in cui è stato: ”Mi mancano l’Africa nera, la Siberia. E Cuba: mi dispiace molto non essere mai riuscito a portare il mio spettacolo lì, l’avrei fatto anche gratis, ma la troupe bisogna pure pagarla. E a Cuba non c’era nessuna possibilità”. Oltre al mimo è difficile che Marcel Marceau riesca a fare altro, difficile parlare di tempo libero. ”Gioco a scacchi, scrivo, dipingo, espongo le mie opere”. E la vita privata, l’amore, la famiglia? ”Sono stato sposato due volte, ho divorziato ma sono rimasto molto amico delle mie ex. Ho quattro figli: due ragazzi e due ragazze. Uno dei maschi fa il maestro di yoga, una delle femmine fa teatro. La mia seconda moglie era molto più giovane di me, per cui le due ragazze hanno intorno ai trent’anni’. E i nipoti? ”Ne ho tre, peut- être, credo”. Peut-être? Monsieur Marceau, non sa esattamente quanti sono i suoi nipoti? ”Cosa vuole, non sono un bravo nonno io, la verità e che non ho una vita di famiglia. Sono un uomo di teatro, penso alla mia arte quasi sempre. Come dice Amleto alla fine della tragedia? Il resto è silenzio”. Sipario» (Cristina Taglietti, ”Corriere della Sera” 8/12/2003) • «Accanto ai momenti magici delle pantomime di stile (Pierrot de Montmartre, Parigi piange Parigi ride o Don Giovanni) è Bip il suo personaggio più famoso, creatura muta in cui si è ”sdoppiato” dal 1947: viso biaccato, cappellino con fiore, volteggia in scena come una figura di Chagall. Stessa poesia. Stessa voglia di vita, di amore. Per lui, solo in scena, ha ideato avventure, incontri, pensieri che si traducono in un sorriso, un gesto, eloquentissimi per i pubblici più diversi. La sua creatura più recente è invece un omino con bombetta, che sta tra l’impiegato della city londinese e Charlot. ”La prima volta che lo vidi, gli baciai la mano”, racconta il grande Marcel del suo primo incontro con Charlie Chaplin, uno dei suoi idoli come Stan Laurel, Buster Keaton, Harry Langdon, ”famiglia” di malinconici appassionati cui appartiene anche lui. Elegante nelle sue giacche gialle, fisico scattante, fascino del conversatore francese, lui che in scena non parla mai» (Claudia Provvedini, ”Corriere della Sera” 22/3/2003).