Varie, 5 marzo 2002
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MARCHESI Gualtiero Milano 19 marzo 1930. Chef • «Nino Bergese incominciò a lavorare tra i fornelli a 13 anni
MARCHESI Gualtiero Milano 19 marzo 1930. Chef • «Nino Bergese incominciò a lavorare tra i fornelli a 13 anni. Lui esordì all’albergo-ristorante ”Mercato” dei genitori quando di anni ne aveva 17. Se il mitico cuoco di Saluzzo - scomparso nel 1977 - ha segnato la storia della ristorazione italiana fino agli anni 70, aprendo poi la strada di Gianluigi Morini del San Domenico, Gualtiero Marchesi per il trentennio successivo ha incarnato, quasi per antonomasia, il ruolo dello ”chef innovativo” dell’alta cucina. [...] su di lui la critica gastronomica si è divisa come su nessun altro. [...] l’inventore del ”raviolo aperto” (correva l’anno 1985, quando il suo locale in via Bonvesin de la Riva prese per la prima volta in Italia le ”tre stelle” dalla Guida Michelin) [...] Lui, quando lo si definisce come l’inventore della nouvelle cuisine, replica: ”Oggi quelle due parole non vogliono più dire niente. come se si dovesse definire Picasso un cubista. La cucina, come la pittura, ha i suoi periodi, ci sono cambiamenti di marcia continua, dal dadaismo all’iper-realismo”. Racconta Marchesi: ”Io imparai nel ristorante dei miei genitori, dove la milanese arrivava in tavola spumeggiante di burro. Poi però al Troisgros di Roanne, vicino a Lione, dove da tre generazioni si fa la grande cucina francese, nel 1965 ci fu qualcuno che incominciò a ”porzionare’ nel piatto invece di presentare in tavola il vassoio di portata...”. E dal 1977, quando Gualtiero si mise da solo, incominciarono a arrivare i grandi piatti: le insalate di spaghetti, il raviolo aperto, il risotto alla milanese con la foglia d’oro, il filetto alla Rossini, le mousse ghiacciate. Tra i gastronomi si dice che Gianfranco Vissani sia un grande cuoco, dalle doti ”naturali”, mentre Marchesi - adesso che Dan Brown ha fatto partire la moda con il suo romanzo su Da Vinci - è un comunicatore nato che può dettare persino un suo ”codice”. [...]» (Gigi Padovani, ”La Stampa” 18/9/2005). « stato il primo, nel 1985, a portare in Italia le prestigiose tre stelle della guida Michelin, riconoscimento concesso con grande parsimonia e riservato a pochi eletti al di fuori della Francia. Dopo i severi critici della Michelin, nel 1990 ha folgorato anche Jack Lang, allora ministro della Cultura, che lo ha nominato Cavaliere dell’Ordine delle arti e delle lettere. [...]» (’L’Espresso” 15/2/2001). «[…] monumento della cucina italiana […] quel lontano maggio del 1977, quando nel suo ristorante milanese di Via Bonvesin della Riva diede l’avvio con i suoi piatti magnifici e geniali alla stagione della nouvelle cuisine italiana. ”A quel tempo, non bisogna dimenticarlo, da noi c’erano le osterie da camionisti, oppure le cucine dei grandi alberghi. Mancava una radicata tradizione della buona tavola fuori dai paletti del repertorio regionale”. Insomma lo scossone ci voleva, ”ma io mi sono anche rapidamente allontanato da quel modo di interpretare l’anima della cucina. Non mi piaceva, ad esempio, questa esasperazione del lavoro sul piatto. Ma come si fa a non capire che certi sapori si esaltano nel servizio di sala, dove la presentazione serve a valorizzare il prodotto? Ci sono cose meravigliose come l’anatra al torchio, ad esempio, che sembra quasi vergognoso proporre in Italia. E invece molti giovani, che sono più bruciapadelle che cuochi - e Dio solo sa quanti ce ne sono con tutta questa televisione che diseduca - non arrivano a comprendere che un gigot d’agnello smontato in cucina, nel piatto diventa solo un pezzo di carne”. […] il punto giusto di cottura è una delle bestie nere dei detestati bruciapadelle ”Stracuociono, perché non sanno la tecnica. Per non parlare di questa abitudine becera di aggiungere un filo di olio a crudo dappertutto”, sogghigna perfido il maestro. ”E vogliamo parlare di questa fissazione di fare gli artisti, invece che sforzarsi di essere bravi artigiani?”. Già, perché l’amore per la musica e le arti figurative sono il versante privato che fa la ricchezza interiore di questo chef, del tutto anomalo rispetto alla categoria. Un uomo sofisticato, perfezionista, curioso, che cita Kant per spiegare un sugo e che è più fiero del talento dei nipotini piuttosto che del suo mitico raviolo aperto, col quale ha sdoganato la pasta ripiena dalle sue semplificazioni becere. ”Mia moglie Antonietta è una pianista di valore, mia figlia Simona è un’arpista e i suoi due figli, Clio e Michelangelo, studiano già musica con grandi risultati. L’altra figlia Paola è una artista molto dotata, lei condivide con me il versante materico, la tattilità. […]”. […]. ”In pratica”, spiega il pittore-chef ”ci sono quattro formati che danno sensazioni diverse: il pacchero che si mastica, lo spaghetto che scivola, il risone che si sgrana in bocca, il tutto con rigore e semplicità. Per questo preferisco un piatto come gli spaghetti cacio e pepe a tante ciance finto-creative. […] Altro che i cuochi alchimisti, tecnici di laboratorio! Semplicità ci vuole nei sapori, senza far vedere la tecnica che c’è dietro, come diceva Chopin ai suoi allievi” […]» (Giacomo A. Dente, ”Il Messaggero” 20/3/2005).