Varie, 5 marzo 2002
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MARCOS Imelda Manila (Filippine) 2 luglio 1929. Vedova dell’ex dittatore filippino Ferdinando, deposto da una rivolta popolare nel 1986 per i suoi sfrontati eccessi e le ruberie dopo 20 anni di regime autoritario
MARCOS Imelda Manila (Filippine) 2 luglio 1929. Vedova dell’ex dittatore filippino Ferdinando, deposto da una rivolta popolare nel 1986 per i suoi sfrontati eccessi e le ruberie dopo 20 anni di regime autoritario. Costretta all’esilio, rientrò in patria con i 4 figli nel ”91. In Parlamento dal ”95 al ”98, è famosa la sua collezione di scarpe: pare ne avesse accumulate 3 mila paia. Non da meno la sua collezione di preziosi: 50 valigie straripanti di gioielli furono sequestrate dopo la deposizione del marito. Con Ferdinando al potere, trasformò il palazzo presidenziale in una Camelot grondante di eccessi, incurante della povertà del suo popolo • «[...] la storia l’ha fatta accanto a suo marito, Ferdinand Marcos, presidente delle Filippine dal 1965 che governò da dittatore assoluto fino al 1986, allorché venne costretto all’esilio. Ufficialmente nullatenente, assolta dalla maggior parte dei processi intentati contro di lei negli Stati Uniti e nelle Filippine (’Mi hanno coperto con oltre 900 capi d’accusa”, attacca: ”L’unica condanna che ho subito è stata per aver costruito un ospedale a Manila, mi hanno dato 41 anni di prigione, poi la Corte Suprema ha trovato il coraggio di assolvermi”) [...] Impossibile non cominciare da quel giorno, quando il popolo filippino scoprì, inorridito, la sua leggendaria collezione di scarpe, facendone scempio. ”Appunto. Scempio. E pensare che le avevo collezionate con tanto amore, memore del detto confuciano: ”Sono le scarpe che determinano l’eleganza di una persona’. Ho sempre amato la bellezza. E ho cercato di trasmetterla al popolo, che ha bisogno di sognare, di modelli a cui ispirarsi. Ancora oggi, prima di andare in un quartiere povero, e ce ne sono forse più di allora, passo due ore a truccarmi, a scegliere il vestito e le scarpe giuste. una questione di rispetto, non vi pare?”. A giudicare dall’entusiasmo che provoca ovunque vada, si direbbe che Imelda abbia ragione. In un Paese dove 400 famiglie continuano a possedere l’80 per cento delle risorse, dove regnano il malgoverno e la corruzione e dove povertà e degrado raggiungono i livelli più alti del continente asiatico e forse del mondo, al popolo non resta che sognare. Ma torniamo alle scarpe, madame. Dicono che le ha recuperate quasi tutte, e che oggi ne ha più di prima. ”Sì e no. Di quelle che possedevo all’epoca se ne sono salvate solo 738, catalogate una per una dalla commissione speciale che il governo di Cory Aquino aveva istituito per recuperare il cosiddetto ”bottino dei Marcos’ e che si è dissolta nel nulla dopo aver venduto all’asta per quattro soldi opere di inestimabile valore, come nove tele del Canaletto, che per anni ho inutilmente chiesto che venissero acquisite nei nostri musei. Ci sono riuscita con le scarpe: sono tutte conservate nel museo di Marikina, il distretto calzaturiero alla periferia di Manila. Non avete idea del successo che l’iniziativa ha avuto e della gente che va a visitarlo: oltre 100 mila persone l’anno! I filippini hanno un grande senso estetico e i nostri calzolai passano ore a osservare gli splendidi modelli di Ferragamo, Magli, Beltrami. Quante scarpe posseggo oggi? Forse più di prima: non ci crederete, ma da simbolo della mia stravaganza sono diventate simbolo della mia ricerca del bello. E ogni persona che mi viene a trovare me ne porta sempre un paio [...] Mio marito è stato il primo leader asiatico a essere invitato in Cina dal presidente Mao. Ricordo ancora il suo elegante baciamano e le sue parole di omaggio a Marcos: grazie per non aver mandato le vostre truppe in Vietnam, è stata un decisione saggia, gli disse. Da allora abbiamo mantenuto sempre ottimi rapporti con la Cina, rapporti che spesso curavo personalmente. Mio marito si fidava molto di me e delle mie capacità diplomatiche. Non dimenticatevelo: sono stata io a salvare le Filippine dalla guerra civile, firmando la tregua con gli indipendentisti islamici. E poi ai tempi di Marcos non c’erano attentati e sequestri, e i turisti potevano venire tranquillamente nel nostro Paese, altro che oggi! [...] Ma lo sapete che quando andammo in visita a Cuba, Fidel Castro cacciò l’interprete e volle portarci a fare un giro in macchina per l’Avana? E che dire dell’imperatore del Giappone Hirohito? Venne ad accogliermi di persona all’aeroporto di Tokyo, un onore che non aveva mai riservato a nessuno in precedenza, nemmeno ai presidenti degli Stati Uniti [...] La verità è che mio marito non ha mai fatto eseguire una sola condanna a morte, nemmeno durante gli anni della legge marziale (fu in quel periodo che il presidente attribuì alla moglie vari poteri pubblici: ministro, ambasciatore... ndr)”. E l’assassinio di ”Ninoy”, il marito di Cory Aquino, il giorno del suo rientro in patria dall’esilio? La giustizia filippina ha assolto tutti i vari indagati, ma sono in molti a ritenere che l’ordine di ucciderlo sia venuto dal Palazzo, in particolare da lei. ”Ma quando mai! [...] Io e Ninoy eravamo amici, gli volevo bene e lo rispettavo. Era un uomo onesto, coraggioso. Fui io a convincere mio marito a liberarlo dalla prigione e a permettergli di farsi curare negli Stati Uniti. Questo la signora Aquino lo sa bene. Ricordo ancora quando ci serviva il tè, in occasione delle mie visite a Ninoy!”. Ma allora, chi è stato a ucciderlo? ”Chiedetelo a chi ha tratto vantaggio da quell’assassinio. Certo è che da allora per noi le cose sono precipitate, l’opposizione ha usato quell’episodio per farne un martire del regime. evidente che si trattò di un complotto, e i complotti nel nostro Paese li organizzano i militari”. E racconta che un primo avvertimento l’avevano già avuto da parte di Fidel Ramos e Johnny Enrile, all’epoca rispettivamente capo di Stato maggiore e ministro della Difesa. ”Ebbene”, racconta Imelda, ”Ramos ed Enrile, che nel 1986 si sarebbero ammutinati, consegnando il Paese alla borghesia latifondista e alle multinazionali americane, nel 1979, a Tripoli, alla vigilia dello storico accordo che siglai a nome del mio Paese con 29 Stati islamici per mettere fine alla guerra civile, Ramos ed Enrile mi abbandonarono a Tripoli, presero l’aereo governativo e se ne volarono a Roma. Avevano paura di un sequestro da parte di Gheddafi. Figuriamoci!”. Il colonnello è stato un suo grande ammiratore, come pure l’ex rais iracheno Saddam Hussein... ”Sì. Al punto che entrambi si sono offerti di pagare la cauzione di 5 milioni di dollari, quanto il tribunale di New York mi incriminò per il ”processo del secolo’”. Con Imelda Marcos è impossibile tornare al presente, o strapparle qualche segreto sui suoi tesori. Come la piccola testa di Michelangelo, avuta tramite il famoso antiquario fiorentino Mario Bellini, di recente scomparso, e pagata oltre 3 milioni di dollari. ”Sa che accadde nel febbraio 1986? [...] Marcos vinse le elezioni con oltre un milione di voti di scarto. Ci telefonò il senatore Paul Laxalt, nostro amico di famiglia e tra i più ascoltati consiglieri del presidente Ronald Reagan. Ci disse di prepararci, che saremmo stati trasferiti nella nostra residenza di Ilocos, la roccaforte elettorale di Marcos, perché c’era il pericolo di un’insurrezione comunista. Non ci fecero prendere nulla, tanto era solo per pochi giorni, ci dissero. Invece, arrivati alla base Usa di Subic, ci trasferirono su un aereo militare e di lì fummo portati alle Hawaii”. Marcos, già gravemente ammalato, morì tre anni dopo, nel gennaio 1989. ”Non avevamo vestiti, effetti personali, niente, nemmeno il latte per i nipotini. Io ero furibonda: traditi dai nostri alleati!”» (Pio D’Emilia, ”L’espresso” 1/2/2007) • «[...] Mio marito era un uomo con il senso dello Stato. Aveva una visione. Sapeva che nel mondo una nazione può cambiare tutto, struttura politica, religione, ideologia. Ma non la geografia. Capiva con lucidità che le Filippine, essendo per la metà legate all’Asia ma per metà da secoli legate all’Occidente, hanno un ruolo strategico vitale. E poi questo Paese, sotto Marcos, era governato da 3 milioni di rappresentanti eletti con il voto popolare, il triplo degli Stati Uniti […] Quando di fronte alle pressioni della piazza, siamo stati costretti ad andarcene in esilio, per screditarci definitivamente i nostri nemici ci hanno accusato di essere dei ladri. Ma poi, per quanto abbiano frugato negli armadi alla ricerca di scheletri nascosti, tutto quello che hanno trovato sono state le mie scarpe: 300 paia e non tremila per inciso, molte di fabbricazione nazionale e che io usavo soprattutto all’estero per promuovere la nostra industria» (Renzo Cianfanelli, ”Corriere della Sera” 15/2/2001).