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 2002  marzo 05 Martedì calendario

Martellini Nando

• Roma 7 agosto 1921, Roma 5 maggio 2004. Giornalista. Telecronista. Entrato in Rai (allora Eiar) il 6 luglio 1944 come redattore di politica estera, poi ha prevalso la passione per lo sport. Laureato in scienze politiche, parlava cinque lingue. Ha raccontato undici Mondiali di calcio, tre Olimpiadi, diciotto Giri d’Italia, dodici Tour de France. Celebre soprattutto come telecronista della nazionale, prese il posto di Niccolò Carosio durante i mondiali del 1970, nella storia il suo «Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo» al termine della finale del 1982, vinta dall’Italia 3-1 contro la Germania • «Nella sua celebre telecronaca della vittoria italiana del Mundial ´82, mentre l´entusiasmo travolgeva la nazione, Nando Martellini ebbe un´uscita meno famosa del suo triplice ”Campioni del Mondo” al fischio finale ma che illumina su quale fosse il suo stile. ”Esultiamo con il presidente Pertini” e questa osservazione detta quasi di sfuggita, distrattamente, conteneva la sua capacità di cogliere la misura delle cose, la sensibilità di richiamarsi in quel momento a una figura civile, che rappresentava qualcosa al di là del calcio, e capiva che in mezzo all´urlo di Tardelli e ai gol di Rossi era quel vecchio con le braccia al cielo un protagonista cui riferirsi. [...] La sua popolarità naturalmente è legata all´essere stata la voce ufficiale della nazionale a partire dalla fase finale dei mondiali ’70, dopo che Nicolò Carosio fu cacciato per una frase razzista contro un guardalinee etiope. Diventò giornalista sportivo per caso nel dopoguerra, dopo avere rinunciato a una carriera diplomatica. La sua prima radiocronaca fu un Bari-Napoli del ´46, la sua prima telecronaca un Inghilterra-Urss da Londra. Il suo bilancio è stato di oltre mille telecronache e radiocronache di calcio, di 18 Giri d´Italia, 12 Tour de France, 16 Mondiali di Ciclismo. Commentò i funerali di Luigi Einaudi e Giovanni XXIII. Fu il solo inviato alle Olimpiadi di Melbourne, in Australia. Non fu un inventore di neologismi, né forzava la voce per trasmettere emozioni. Raccontava quello che vedeva con una voce limpida, con una serenità che non veniva infranta dalle sconfitte. Diversamente da Ciotti, che si divertiva a cercare bizantinismi, o di Ameri, che affidava tutto alla sua voce calda, instancabile, Martellini cercava la via più difficile, perché era quella della chiarezza. [...] Anche in un periodo in cui la telecronaca sembrava andasse poco oltre la didascalia, Martellini si documentava con grande scrupolo, andando anche nel ritiro delle squadre per imparare a riconoscere i giocatori. ”Cerco di fissarmi la fisionomia dei giocatori e ci vado con l´album delle figurine. Ma certe volte cambiano profilo: si fanno crescere i capelli, se li tagliano. Quindi è importante vederli al momento, oltre che grazie alle fotografie”. Erano i tempi in cui la copertura tv del calcio era minimale e, al di fuori di un gruppo di giocatori celebrati, il resto era un gregge di sconosciuti. L´ignoranza generale consentiva anche di perdonare qualche errore: il più famoso, forse l´unico, fu il suo tic di chiamare Altobelli come Jacobelli. Era grato allo spettacolo che vedeva. ”Non ringrazieremo mai abbastanza i giocatori italiani per questa meravigliosa partita” disse con assoluta compostezza quando Rivera segnò il 4-3 alla Germania nella semifinale dell´Azteca ´70. Martellini (che fu profondamente cattolico e collaboratore per oltre 30 anni della Radio Vaticana, in programmi che andavano dalla musica classica, una sua grande passione, al commento del Vangelo durante il Giubileo 2000) è stato in qualche modo il cantore di una ufficialità democristiana, che non voleva dispiacere a nessuno e che capiva e comprendeva tutti. La precisione dei suoi giudizi affogava nel proprio garbo, e non si spingeva alla condanna. Anche Ciotti rifuggiva dal giudizio drastico, ma il suo eloquio fantasioso mascherava la prudenza. In Martellini non c´era mascheramento, c´era una cultura che rifuggiva dalle aggressioni. Era andato sopra le righe una volta sola, quella sera al Bernabeu. ”Ma quell´urlo lo portavo dentro di me da quando ho cominciato”» (Corrado Sannucci, ”la Repubblica” 6/5/2004). «La sua voce, legata com’è a due storiche Italia-Germania (4 a 3 del 1970 e 3 a 1 dell’82), è diventata colonna sonora di un’epoca e questa è la più grande soddisfazione per un telecronista come Nando Martellini. La sua, infatti, era una voce educata, non invadente, quasi distaccata che d’incanto si è trasformata in una traccia, è entrata in film e romanzi, ha saputo dare il timbro a un evento, alla rappresentazione di quell’evento. Quando sentiamo urlare ”gol” per quel piatto di destro di Rivera o ripetere il triplice grido ”campioni del mondo!” un mondo si spalanca davanti ai nostri occhi. [...] un certo modo di raccontare il calcio. Il calcio della radio, verrebbe da dire. Il calcio della parola. Il calcio dell’evidenza. Per anni, quella covata di telecronisti si è preoccupata di rassicurarci che la cosa che stavamo vedendo era proprio una partita di calcio. Delle immagini era bene non fidarsi, valevano poco rispetto alla testimonianza dal vivo. Ci rassicurava innanzitutto con la voce, il buon telecronista: legava, incantava, manteneva vivo il contatto con l’uditorio. Era il Grande Tautologo: descriveva quello che vedeva, che era poi quello che vedevano anche gli spettatori. Soli davanti all’immagine, avremmo potuto essere assaliti da cattivi pensieri: sul gioco, sulla recita del calcio, sui protagonisti. Da questo punto di vista Martellini è stato il più scrupoloso di tutti: il suo racconto era quasi notarile, amava la parafrasi molto più dell’interpretazione. Erano uomini che si trovavano meglio con la radio: la radio sapeva ricreare, attraverso la condivisione della passione sportiva, un’unità di sensazioni e di pensieri così intensa da riservare al cronista il ruolo di officiante, di celebrante. Con la tv invece, lo spettatore si è sentito investito del dono dell’ubiquità (attributo un tempo riservato solo ai santi) e ha cominciato a vivere con fastidio ogni intermediazione. Per questo, per un lungo periodo, il telecronista è stato un uomo solo, al pari del portiere in campo, e nel suo recesso era assalito da angoscianti fantasmi. La paura che lo attanagliava era il silenzio, il terrore di lasciare anche lo spettatore solo con se stesso. Una paura che si è spesso tramutata nella voglia di creare suggestioni con un flusso ininterrotto di parole, con un genere oratorio irrimediabilmente di stampo guerresco. Parlavano troppo i nostri telecronisti, e per timore si parlavano addosso. Non Martellini, in verità, che di tutti era il più essenziale, il più asciutto. Entrato in Rai nel 1945, tre anni dopo ha commentato per la prima volta il Giro d’Italia; nel 1956 è stato nominato titolare della rubrica di ciclismo, e da allora, fino al 1970, ha seguito ogni anno, oltre al Giro, il Tour de France e i Campionati Mondiali. Nel corso della lunga carriera gli è stato affidato anche il racconto di importanti eventi non sportivi, come i funerali di Luigi Einaudi e di Giovanni XXIII. Nel 1954, con il passaggio di Nicolò Carosio al video, è stato nominato caposervizio e responsabile delle radiocronache sportive. Nel 1956 è stato l’unico radiocronista italiano alle Olimpiadi di Melbourne. Nel 1958 ha debuttato come telecronista (Inghilterra-URSS a Wembley), imponendosi per il suo stile equilibrato. Ha seguito per la tv gli avvenimenti sportivi di maggiore spicco: le Olimpiadi, i Mondiali di calcio (dal 1966 ha commentato tutte le partite della Nazionale), le grandi gare ciclistiche e, dal 1976, i Campionati europei di baseball. Per il cinema ha curato il commento e la sincronizzazione dei film sulle Olimpiadi di Tokyo (1964), di Città del Messico (1968) e dei Mondiali di calcio di Londra (1966). Nella stagione televisiva 1973-74 ha presentato la rubrica sportiva ”Dribbling” e nel 1976, con la riforma della Rai, è stato nominato capo del pool per i servizi sportivi. Nel 1986 ha lasciato Viale Mazzini ”per raggiunti limiti di età”, ma non ha mai cessato di collaborare con l’emittente pubblica commentando ogni domenica, per Raitre, le partite regionali. Nel 1990, un po’ inaspettatamente, è stato inserito nella squadra dei sei telecronisti che ha seguito i Mondiali di Italia ’90. Nel 1992 è entrato a far parte della scuderia sportiva della Fininvest come telecronista e ospite di programmi calcistici, con l’incarico di ”formare” una nuova scuola di giovani professionisti, se possibile con la sua competenza e la sua signorilità. Era un uomo spiritoso ma non lo dava a intendere. Una volta disse: ”Entra Merlo ed esce Pavone. La situazione ornitologica dell’Inter non cambia”» (Aldo Grasso, ”Corriere della Sera” 6/5/2004). «Sognavo di fare il diplomatico. Cominciai alla radio, presentavo programmi per studenti, suonavo la batteria. Volevo fare l’annunciatore e mi proposi alla tv. Ero laureando in Scienze Politiche, conoscevo cinque lingue. Mi dissero: ”Perché non fa il giornalista?”. Cominciai con la politica estera Mi mandarono a trascorrere il Natale con i nostri prigionieri al canale di Suez. Raccolsi la loro sofferenza, la raccontai, capii che era quella la mia strada. Ma lo sport è sempre stato il mio pallino. Nel 1936 una buona pagella aveva convinto i miei genitori a regalarmi un viaggio a Berlino per vedere l’Olimpiade. In treno, terza classe, panino, Jesse Owens... fu un’esperienza meravigliosa. Così, poi, quando in Rai mi mandavano a intervistare diplomatici e politici io chiedevo di seguire il Giro del Lazio o la marcia a Castelgandolfo. Un giorno, Vittorio Veltroni, padre di Walter e capo dei servizi giornalistici alla Rai, mi prese in disparte e mi disse: ”Se continui a raccontare lo sport e poi racconti la benedizione del papa in piazza San Pietro, la gente s’immagina il Papa con il pallone sottobraccio che esce dal sottopassaggio. Ti devi decidere: o la cronaca o lo sport”. Scelsi lo sport e non mi sono mai pentito [...] Un ricordo intenso? L’oro di Ercole Baldini ai Giochi di Melbourne nel 1956: non c’era l’inno di Mameli, i nostri emigrati cantarono a squarciagola, stonandolo. Quel canto struggente lo sento ancora sulla pelle. La gaffe più clamorosa? Tante. A cominciare da Altobelli che per sette minuti chiamai Jacobelli. La vittoria dei mondiali dell’82 fu un’emozione unica. Io però non partecipai alla festa di Madrid né al tresette con il presidente Pertini nel viaggio di ritorno. Il 12 luglio era l’anniversario di matrimonio, feci una sorpresa a mia moglie piombando a casa alle tre di notte» (’La Gazzetta dello Sport”, 7/8/2001).