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 2002  marzo 05 Martedì calendario

MATERAZZI Marco

MATERAZZI Marco Lecce 19 agosto 1973. Calciatore. Con l’Inter ha vinto la Champions League 2010, gli scudetti 2006, 2007, 2008, 2009, 2010 (il primo a tavolino), le coppe Italia 2005, 2006, 2010 ecc. Con la nazionale ha vinto i Mondiali del 2006 (segnò il gol del pareggio nella finale con la Francia, fece espellere Zinedine Zidane reo di avergli sferrato una testata al petto, trasformò uno dei rigori decisivi). Un’esperienza in Premier League con l’Everton, fu lanciato dal Perugia • «Sigmund Freud, che non è la mente del centrocampo del Borussia Dortmund, avrebbe grosse difficoltà a spiegare cosa passa per la testa ad un tipetto bizzarro come Marco Bad Boy Materazzi. Uno che prende a calci o pugni gli avversari con la frequenza di uno sciopero degli autoferrotranvieri e che invece di andare in vacanza al mare si chiude in ritiro con un’altra squadra pur di stare vicino ad un collega colpito da un lutto spaccacuore. “Dovrebbe farsi un trapianto del cervello”, gli consigliò un paio di anni fa lo juventino Conte. Bad Boy gli aveva appena suggerito l’ennesimo trapianto di capelli con i soldi guadagnati con la vittoria dello scudetto. Il triste epilogo di una brutta polemica nata nel maggio del 2000, quando sotto la pioggia Materazzi e il Perugia tolsero il tricolore dalle maglie juventine e lo consegnarono alla Lazio. Marco, tifoso biancoceleste fin da bambino, in quell’occasione diede sfogo a tutta la propria gioia, suscitando l’ira del clan bianconero. Con vendetta ghiacciata alla prima occasione utile, datata 5 maggio 2002. Quando, cioè, la sua Inter perse il titolo proprio in casa della Lazio e Materazzi, per non smentirsi, fece a pugni con mezza squadra di Zaccheroni, rea di aver vinto la partita. L’etichetta di violento gli sta rovinando reputazione e carriera. Nessuno, alla lunga, si ricorderà di lui come uno che giocò nell’Italia ai mondiali del Giappone o come il difensore più goleador nella storia del campionato: si parlerà, invece, di quando voleva staccare il collo ad Inzaghi nell’amichevole Trofeo Tim dell’agosto 2003; oppure di quando, sempre in un derby, sistemò prima il suo 45 pianta larga sul petto di Shevchenko lontano dalla porta e dalla palla, e poi a gamba tesa rischiò di colpirlo con i tacchetti in faccia. Dopo quell’esibizione, Bad Boy venne etichettato in diretta tv come ‘macellaio’: Marco telefonò in trasmissione e chiese scusa. ‘Non volevo colpire Shevchenko, sarò pure scoordinato ma mi sono fatto da solo e se sono arrivato sin qui lo devo solo a me stesso”. Il Milan lo accusò ancora per un calcio da terra a Rui Costa nel derby di Champions League. E dopo quel corpo a corpo con Inzaghi, la società rossonera sul sito ufficiale pubblicò un comunicato di protesta contro Materazzi, corredato dal suo fascicolo di scorrettezze dal titolo: fino a quando? “Non può finire le partite comportandosi così, con questo atteggiamento di sfida. È arrivato il momento di dire basta”. Macché. E pensare che per arrivare a certi livelli aveva lasciato gli agi familiari e gli amici del Tor di Quinto per andare a giocare in Sicilia, addirittura tra i dilettanti. Voleva mettersi alla prova e dimostrare al padre, che l’aveva invitato a mollare il calcio per dedicarsi al basket, che s’era sbagliato di brutto. Operazione riuscita con tanti sacrifici e non senza un salto malandrino in Inghilterra dopo una furibonda lite con Luciano Gaucci, suo presidente a Perugia. Basta, qui non torno più, urlò sbattendo la porta del Curi. Invece, a Perugia è tornato, diventando il capitano e il simbolo della squadra. Ma quella volta che fece gol all’Inter non esultò: capitemi, spiegò a cronisti e tifosi, sarà la mia prossima squadra. Di solito, però, non esultano gli ex. Ma questa è un’altra storia. Meno violenta, per fortuna» (Mimmo Ferretti, “Il Messaggero” 3/2/2004). «L’immagine ormai è quella: Materazzi lo scorretto, il cattivo, l’esagerato, l’inopportuno, lo scomposto, il più odiato dagli avversari, giocatori o tifosi che siano. E lui non ha mai fatto granché per lucidarla, quell’immagine, dunque per non farla diventare scomoda etichetta. Dice, per quello che può servire: “Io non sono scorretto. Un giocatore scorretto non prende una sola ammonizione in tutto un campionato come me l’anno scorso, un giocatore scorretto nella sua carriera viene espulso almeno una volta perché usa le mani per tirare cazzotti o fa dei falli gravi e a me non è mai successo. Io, lo riconosco, sono un giocatore duro che a volte entra anche duro: è una mia caratteristica e credo che abbia a che fare con la mia esperienza nel campionato inglese, dove ho imparato a prenderle e a darle in silenzio, e là ne ho prese davvero tante [...] Certo che mi capita di dire: ’Questo potevo evitare di farlo’. Lo dico fra me e me, come dopo quel calcione a Shevchenko nella semifinale di Champions League. Ma mi pare di aver avuto anche il coraggio di andarlo a dire in tv (successe a Controcampo, ndr), senza vergognarmene, come ho fatto dopo un brutto fallo nel derby di campionato, sempre su Sheva: ci ho messo la faccia e ho detto ’Ho sbagliato’ [...] Certo che mi riprometto di cambiare, per certe cose. Ma non lo faccio perché la gente mi urla e mi canta in tutti gli stadi che sono un figlio di puttana: ho perso mia madre che avevo 15 anni, sono urla che mi entrano da qui e mi escono da qui. Lo faccio per me stesso, perché so di poter migliorare, sotto certi punti di vista, e so anche che sarebbe giusto farlo. Ma questo lo so da solo e lo decido io, non devono dirmelo gli altri: a me basta la stima della mia società, dei miei compagni e dei miei tifosi; a me basta sapere che loro mi conoscono e sanno com’è davvero Materazzi, anzitutto fuori dal campo”» (Andrea Elefante, “La Gazzetta dello Sport” 14/8/2003). «A 22 anni giocavo ancora nell’Interregionale e oggi sono il difensore di una delle squadre più famose del mondo. Ho sempre avuto la passione: a 6 anni mi svegliavo la mattina presto per andare a fare il guardalinee alla Bairon, una società vicina a Bari. Per fare il guardalinee, mica per giocare... Porto la bandiera di quelli che magari hanno più talento ma meno fortuna di me. Io ce l’ho fatta, lottando contro tutti quelli che dicevano che non avrei mai potuto sfondare. [...] Papà non ci ha mai creduto. Voleva che facessi altro. [...] Forse il nostro rapporto conflittuale dipende da questo. Però a papà interessava soprattutto che diventassi un bravo ragazzo. Io credo di averlo accontentato in questo. Ho sposato una ragazza d’oro, sono papà di due splendidi bambini. E so di essere un bravo papà. Anche se per colpa di questo lavoro i miei figli non possono godermi. Uno va alla scuola calcio, ma io evito di andarci per non metterlo in ombra. Fare il calciatore è come andare al luna park, ma dietro alle luci c’è anche altro. [...] Arcoleo. Mi teneva sul campo a Trapani fino alle nove di sera, con una lampadina da 60 watt a fare luce, e mi faceva tirare, tirare e tirare ancora. Fra sei mesi sarai pronto, mi diceva. Dopo sei mesi mi fece giocare davvero. Presi 8 in pagella. Mi vide Novellino e mi prese il Perugia. Lì è cominciato tutto. Uno dei ricordi più belli della mia vita» (Roberto De Ponti, “Corriere della Sera” 24/9/2003).