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 2002  marzo 05 Martedì calendario

Mehldau Brad

• Jacksonville (Stati Uniti) 23 agosto 1970. Pianista • «L’artista jazz più amato dai giovani» (Giacomo Pellicciotti, “la Repubblica” 16/7/2001) • «Un personaggio di Thomas Mann osserva acutamente nel Doctor Faustus che “quando tutto funziona l’arte appare sempre senza arte”. È questo l’aforisma prediletto da [...] Brad Mehldau. Ce lo consegna fra le parole di molte delle sue interviste come fosse una guida all’ascolto, una chiave per comprendere la sua musica e il suo stile: non solo jazz, non solo classico, ma virtuoso del non virtuosismo, proprio come Miles Davis. [...] è considerato “il nuovo Keith Jarrett” e “l’erede di Bill Evans” per la perizia tecnica, la ricerca timbrica e la straordinaria inventiva. L’iconografia rimanda a quella dei grandi dannati del jazz per l’attrazione, mai risolta, verso l’eroina. Eppure questo esecutore-compositore [...] è riuscito in poco tempo a incantare il pubblico, la critica e il capo della Warner Bros, l’etichetta per la quale ha inciso cinque magnifici dischi. Il primo, Introducing Brad Mehldau pubblicato nel 1995, al termine di una fertile collaborazione nel quartetto del sassofonista Joshua Redman, seguito da quattro perle in cui il pianista-bandleader si misura con la difficile arte del trio (The Art of The Trio 1, 2, 3, 4). Riuscendoci magistralmente: suonando con il contrabassista Larry Grenadier e il batterista Jorge Rossy, Mehldau raggiunge un tale grado di empatia e di interplay che i tre in concerto si lanciano in attacchi, stop improvvisati e variazioni senza mai dover guardarsi negli occhi. Con la stessa destrezza attraversano tutti i continenti, facendo concerti in America e in Europa, in Giappone e in Australia, ricevendo premi dalla critica e una nomination al Grammy Award, mentre Pat Metheny di Mehldau dice entusiasta: “È uno dei pianisti più eccitanti del panorama jazzistico, grande quanto Herbie Hancock”, Michel Petrucciani era d’accordo con lui. Ma nonostante le adulazioni, questo ragazzo [...] figlio di un dentista sensibile all’arte, non si monta la testa. Continua a studiare, senza tregua. Anzi, più che godersi il successo prosegue una ricerca alla quale sembra indissolubilmente legato. È pallido, scavato, tormentato, molto affascinante e la sua dichiarazione d’intenti gli si addice: “Lo so che la mia musica, specialmente quando suono solo, è potente, dilaniante in certi momenti. Ma non cerco di trasmettere il dolore quanto di superarlo. Voglio portarvi con me e cambiare la vostra vita. Forse ci riuscirò, forse no. Voglio vedere se riesco a toccarvi veramente con la mia musica”. Mehldau ci riesce, non ci sono dubbi. E non solo per quello swing e quel tiro naturale che sfoggia in ogni brano, per la polifonia pianistica con la quale sa stratificare una melodia sull’altra, un ritmo sull’altro, pur mantenendo un lirismo sublime. Ci riesce perché, con la stessa naturalezza di Chet Baker, solo o in trio, si offre al pubblico come un libro aperto. “Come Chet”, dice, “che negli ultimi anni suonava fischiettando gli standard, producendo quel suono bizzarro per via della sua dentiera, io non posso fare a meno di cantarmi mentalmente tutte le melodie che suono”. Il giovane Brad rivisita brani di Billie Holiday e Frank Sinatra, passa alle melodie dei Radiohead o dei Beatles: “Scelgo canzoni semplici, sia che si tratti di Gershwin che di un pezzo rock: la semplicità della forma, la melodia e l’armonia ti permettono d’improvvisare e la mia attenzione è concentrata proprio su questo”. L’elemento improvvisativo è forse, con il tocco, la dote principale di Mehldau: “Ho iniziato a suonare il piano a quattro anni, studiavo solo musica classica, ma ogni volta che qualcuno si girava abbandonavo lo spartito e mi mettevo a improvvisare”. La sua è una solida formazione classica, “non sono certo stato cresciuto con lo stride piano”, ricorda ridendo, infatti sia le sue composizioni che le riletture dei brani che ama sono costellate da stilemi di musica colta: “Ho studiato molto il contrappunto della tradizione classica per fuggire a una tecnica banale, associazione di melodie e accordi sulla stessa tonalità. Cerco invece, come fecero Beethoven o Brahms, di esplorare la relazione tra più note che evolvono indipendentemente le une dalle altre”. Così, non è inconsueto scoprire all’interno delle sue interpretazioni un Capriccio di Brahms o un riferimento a Schumann, o ancora una citazione, nel titolo delle sue composizioni, alla letteratura per la quale ha un vero penchant, in particolare rivolto a Goethe che, racconta, “si può comprendere solo nella sua lingua originale”. Numerose a tale proposito sono le dediche a poeti e scrittori [...] da Ginsberg, Burroughs e Rilke che Mehldau sembra voler trasferire in un linguaggio sonoro. Ancora una volta le influenze di McCoy Tyner e Keith Jarrett sono evidenti, ma il paragone sembra turbarlo: “Non credo che la gente mi ascolti per questo, è solo che all’inizio, ascoltando un nuovo musicista, ha bisogno di punti di riferimento per apprezzarlo, cerca un pedigree. Un atteggiamento che immagino passerà con il tempo”» (”L’Espresso” 5/8/1999).