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 2002  marzo 05 Martedì calendario

MEHTA Zubin Bombay (India) 29 aprile 1936. Direttore d’orchestra. Direttore musicale della Israel Philharmonic dal ’69

MEHTA Zubin Bombay (India) 29 aprile 1936. Direttore d’orchestra. Direttore musicale della Israel Philharmonic dal ’69. Generalmusikdirektor della Opera di Stato bavarese. «Musicista carismatico e molto amato nel mondo» (Leonetta Bentivoglio, ”la Repubblica” 28/3/2004). «Ha diretto a Betlemme sotto le bombe, a Firenze per commemorare le vittime di piazza Tienanmen, in una martoriata Serajevo per contribuire alla ricostruzione. Si è sempre adoperato per la pace e la solidarietà. [...]» (’Il Messaggero” 19/1/2005). «[...] è, a detta di Maurizio Pollini, uno dei pochi artisti che ha saputo coniugare al rigore delle letture la sensibilità per la grande musica moderna. [...] Fino a 18 anni era studente di medicina, non di musica. ”Vorrei finalmente chiarire questa leggenda sugli studi di medicina. Ho frequentato un anno e mezzo di scuola preparatoria per poter sostenere l’esame di ammissione alla facoltà di Medicina, così come avrebbe voluto la mia famiglia, ma non mio padre, che anzi mi ha sempre incoraggiato nel campo della musica. Lei deve considerare che io avevo compiuto tutti i miei studi regolari in un collegio di Gesuiti. In India, nella prima metà del Novecento, le migliori scuole erano appunto di questo tipo, e non erano frequentate solo da cattolici. Anzi, nella mia classe di trenta ragazzi, solo maschile, erano rappresentate sette religioni: oltre ai cattolici, protestanti, induisti, musulmani, sikh, ebrei, e parsi come me. Questa è stata anche una scuola di civiltà e di tolleranza: ecco perché per me è naturale la convivenza e la comprensione fra le diverse convinzioni religiose [...] Mio padre era violinista, inizialmente autodidatta, poi allievo del fiorentino Ottorino Savini, un musicista che si esibiva insieme ad altri due italiani nei grandi alberghi per stranieri, e dal quale anch’io ho preso le prime lezioni di teoria. Fu con un direttore d’orchestra belga, Jules Crein, che si trovava in quegli anni a Bombay, che svilupparono insieme il progetto dell’orchestra sinfonica, riunendo fortunosamente musicisti cristiani di Goa, colti dilettanti parsi, ebrei giunti in India dall’Europa (non quelli già presenti a Bombay, che provenivano dall’Iraq e non conoscevano la musica occidentale) e, per ottoni e strumentini, elementi della banda della Marina militare indiana di stanza nel porto della città” [...]» (Riccardo Lenzi, ”L’Espresso” 21/4/2005). «[...] Campione del podio di vigoroso carisma e di temperamento travolgente, il maestro indiano si è sempre fatto amare per doti di generosità e calore umano. stato direttore stabile di orchestre come la Los Angeles Philharmonic e la New York Philharmonic, e oggi guida uno dei massimi teatri lirici, la Staatsoper di Monaco di Baviera. Inoltre è ”direttore a vita” della Israel Philharmonic, con cui lavora da decenni. A Israele lo lega un rapporto d’intensa affezione e di fervido sostegno politico. Non ha mai rinunciato a dirigervi concerti: nemmeno in guerra, neppure in situazioni estreme, con un coraggio e una passione tipici della sua personalità irruente. Figura, tra le ”sue” orchestre, quella del Maggio Musicale Fiorentino, di cui è direttore principale dall’85. [...] ”[...] Amo l’evoluzione del mio rapporto con le orchestre. Mi piace sentirmi a casa con i musicisti di Firenze, Monaco e Israele. C’è fiducia reciproca, ci si conosce in ogni gesto e fraseggio [...] Quella fiorentina è diventata una grande orchestra europea. più omogenea, e ha un suono più flessibile. Mentre prima si adattava soprattutto al repertorio italiano e aveva un suono più leggero, ora può suonare bene anche Tristano e Isotta. Riguardo a Wagner, a Firenze prima dovevo lavorare molto per creare il giusto peso sonoro: qualità che a Monaco, dove assimilano le opere wagneriane col latte materno, possiedono spontaneamente. Ma provare Les Troyens a Monaco è stato più faticoso che a Firenze, dove l’orchestra aveva già quelle sonorità fresche e leggere richieste dalla partitura di Berlioz [...] Nell´edizione 1986 del Maggio abbiamo toccato un punto molto alto, con I Maestri Cantori di Wagner, la Tosca con regia di Jonathan Miller e i Gurrelieder di Schönberg. Considero un grande risultato anche il Moses und Aron di Schönberg, nel ´94. Ci sono stati inoltre la trilogia Mozart-Da Ponte con regia di Miller, Il flauto magico con la regia di Julie Taymor e la Turandot messa in scena da Zhang Yimou e rappresentata anche nella Città Proibita di Pechino nel ´98. [...] Mi sento ancora profondamente indiano. Sono cresciuto nella cultura, nell´arte e nella gastronomia del mio paese. Ma per quanto riguarda la musica, la mia formazione è stata solo occidentale. Fin da piccolo, in casa, ho sempre ascoltato Mozart e Beethoven. Solo da grande sono diventato un fan della musica indiana, e oggi mi piacciono musicisti come il sitarista Ravi Shankar e i tablisti Ali Akbarkan e Zakir Hussein. Ho fatto anche concerti insieme a Shankar e alla Filarmonica di New York”. Suo padre, il direttore d´orchestra Mehli Mehta, ha influito sulla sua vocazione? ”Al cento per cento. Fu un grande violinista, e fondò la Bombay Symphony Orchestra. A Manchester fu spalla dell´orchestra all´epoca di John Barbirolli, e dagli anni Sessanta visse in America, dirigendo orchestre importanti e facendo molto training per i giovani”. Altri incontri per lei decisivi? ”Swarowsky, il mio maestro. Ma anche da tutti i Wiener Philharmoniker ho imparato moltissimo. Quando arrivai a Vienna, a 18 anni, ebbi la possibilità di seguire prove e concerti con direttori come Böhm, Karajan, Bruno Walter e Kleiber padre. Avevo un orecchio vergine, non esistevano i compact, non avevo termini di confronto. Ed eccomi nella sala d´oro del Musikverein, con la sua acustica insuperabile, tuffato nel sontuoso suono viennese. Fu l´esperienza che mi diede il via. Quello viennese, per me, è rimasto sempre il suono ideale [...] Da giovani si è più esuberanti, e oggi ho il vantaggio di lavorare con orchestre che mi capiscono al volo. Non c´è bisogno di esagerare gestualmente. Ma anche quand´ero giovane tenevo bene a mente la regola del rigore imposta da Swarowsky. Quanto all´interpretazione, il passare degli anni, com´è naturale, ci regala acquisizioni e approfondimenti”» (’la Repubblica” 18/4/2006). «[...] Non mi sono mai sentito influenzato dalla cultura americana. Mi piace vivere a Los Angeles nella mia casa immersa nella natura. Invece non mi sono trovato bene in una città come New York, dall’atmosfera e mentalità aggressive, dove sono stato felice solo con la New York Philharmonic per sette anni. Anche se apprezzo il grande cuore dell’americano. Assomiglia molto a quello dell’indiano Parsi generoso nel sostenere iniziative sociali e culturali. In tutta Europa non c’è tutto questo [...] Vienna ha lasciato un profondo segno nella mia vita musicale. la città in cui mi sento più a casa dopo Bombay, ma amo anche Firenze e Tel Aviv [...] Mi sento e sono rimasto indiano, precisamente Parsi, una piccola comunità di 80 mila persone votata a Zoroastro. Ho una mentalità positiva, estrema fiducia nel mondo. Sono aperto a idee e proposte. Ho la pace dentro di me e non sento minimamente lo stress [...] La mia aspirazione è di portare la musica tra la gente che si odia. Ma non l’ho fatto abbastanza. Devo fare di più per israeliani, palestinesi, devo aiutare l’India, il Kashmir, il Pakistan [...] Senza alcuna giustificazione non ho trattato bene alcuni musicisti. Non avevo ancora trent’anni ed ero mal consigliato a Los Angeles. Ma poi ho sempre chiesto scusa. L’armonia tra le persone è importante [...] Ho cominciato a dirigere a 21 anni. La musica è il filo rosso della mia esistenza. Insieme alla mia famiglia è la cosa più importante. Sento molto la mancanza dei miei genitori. Mio padre, Mehli, che ha creato l’Orchestra Sinfonica di Bombay, mi fece amare la musica e ha seguito insieme con mia madre ogni giorno della mia vita musicale. Erano quasi ossessivi, volevano sapere ogni dettaglio. Mi mancano molto questi colloqui notturni dall’altro capo del mondo [...]» (Laura Dubini, ”Corriere della Sera” 18/4/2006). «Nato a Bombay, cresciuto nella musica a Vienna, cosmopolita da sempre [...] l’ultimo dei grandi direttori rimasto a lavorare con continuità in un teatro d’opera italiano e il Maggio Musicale Fiorentino [...] Indiano di religione parsi - non sanno cosa sia la violenza, non li sfiora l’idea della conversione altrui, il loro corpo finirà esposto nudo al sole, spolpato dagli uccelli, le loro ossa torneranno al mare - Mehta è il direttore principale dell’orchestra fiorentina dal 1985 e la relazione amorosa non sembra ancora incrinarsi. Si conoscono dal 1962: in quella stagione il maestro debuttava a Salisburgo, era appena diventato ”direttore associato” della Filarmonica di Los Angeles e ”direttore artistico” a Montréal. ”Dopo la II Guerra Mondiale era venuta a mancare una generazione di direttori e così dai grandi vecchi si è passati ai giovani” dice oggi, come cercando una giustificazione per degli esordi così folgoranti, indiscutibili. I suoi principali amori musicali sono tre: con Firenze, i Münchner Philharmoniker e la Israel Philharmonic Orchestra. Monaco e Tel Aviv: solo la musica può unire due città che la storia del 900 ha tanto allontanato. Non conosce le ripicche, le polemiche, non è geloso dei colleghi: ”Cerco sempre, per le mie orchestre, altri grandi direttori: tengono alto il livello così, quando ritorno io, non devo faticare”. E il Comunale è diventato il solo teatro italiano dove dirigono l’amico Claudio Abbado e Riccardo Muti, Daniele Gatti e Semyon Bychkov. Se gli capita di leggere una critica perplessa non si arrabbia, non protesta, non pensa a un complotto - in questo è decisamente non italiano - ma si dispiace per non essere riuscito a farsi capire. Ha relazioni internazionali tali da poter chiudere una tournée, una sponsorizzazione, un’incisione discografica: l’attività di direttore principale non si esercita solo dal podio, la funzione richiede altre energie. Abita la musica senza angoscia e dunque non la trasmette. Oltre che al cioccolato e al peperoncino - ne è un consumatore professionista, riconosce di entrambi varietà, provenienza, virtù - è indifeso anche di fronte alle amicizie. Non darebbe mai un dispiacere a Sofia Loren, e così Carlo Ponti jr. può oggi scrivere nel curriculum di aver diretto anche lui l’orchestra fiorentina. La civiltà di Firenze gli ha dato molto: ”La bellezza assoluta, il modo di parlare, l’ottima cucina, l’affetto con cui mi accoglie, la sapienza degli artigiani, la storia che vive in ogni suo palazzo, gli amici, i colleghi del Teatro”; qui ha la sua casa, scelta in un luogo dove la natura rispettata e la cultura, il fare dell’uomo, hanno trovato un punto altissimo di equilibrio. Da anni, chiede un nuovo teatro: ”Se i soldi pubblici non bastano a costruirlo, possibile che nella città del Campanile di Giotto, della Cupola del Brunelleschi, del David, non ci sia chi voglia legare per sempre il suo nome al nuovo Teatro di Firenze? [...] L’approccio di Toscanini era più dimostrativo: se sulla partitura il crescendo iniziava in una determinata misura, doveva cominciare proprio lì, e non mezza misura prima o dopo. Furtwaengler invece iniziava magari mezza misura prima, ma ciò che faceva sembrava ancora più logico e lasciava più spazio agli strumentisti”: in questa dichiarazione d’amore per l’eredità artistica di Wilhelm Furtwaengler ritroviamo un’altra caratteristica del suo modo di lavorare. La musica si fa con chi ti sta davanti, la necessaria e impossibile fedeltà al testo scritto si misura con l’umanità di un mestiere che richiede la competenza dell’artigiano, la genialità dell’artista, la duttilità di chi sa di creare musica in quel preciso istante. Le orchestre lavorano bene con Mehta perché lui ricorda sempre che sono formate da uomini e donne che chiedono a un direttore di condurre il loro talento verso il miglior risultato possibile. Non solo un dato tecnico, una convinzione culturale. Si tramandano aneddoti leggendari: l’impermeabilità a qualsiasi disturbo da fuso orario, così che può sbarcare da un aereo dopo un volo intercontinentale e di lavorare subito in teatro sei ore; la capacità di dormire a comando: c’è chi giura di averlo visto assopito anche durante una coda al check-in. ”Non so far altro che lavorare”, dice di sé. La musica non ha solo da chiedere, come sembra volerci far credere certa opinione corrente; ha molto da dare e Mehta lo dimostra» (Sandro Cappelletto, ”La Stampa” 18/4/2006).