Varie, 5 marzo 2002
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MERCKX Eddy Meensel-Kiezegem (Belgio) 17 giugno 1945. Ex ciclista. Il più grande di tutti i tempi. Vinse, tra l’altro: 5 giri di Francia (1969, 1970, 1971, 1972, 1974) con 34 vittorie di tappa e 96 giorni in maglia gialla; cinque giri d’Italia (1968, 1970, 1972, 1973, 1974); un Giro di Spagna (1973); tre campionati del mondo professionisti (1967, 1971, 1974) più uno dilettanti (1964); sette Milano-Sanremo (1966, 1967, 1969, 1971, 1972, 1975, 1976); tre Parigi-Roubaix (1968, 1970, 1973); due Giri delle Fiandre (1969, 1975); tre Freccia-Vallone (1967, 1970, 1972); cinque Liegi-Bastogne-Liegi (1969, 1971, 1972, 1973, 1975), due Giri di Lombardia (1971, 1972) n• «[
MERCKX Eddy Meensel-Kiezegem (Belgio) 17 giugno 1945. Ex ciclista. Il più grande di tutti i tempi. Vinse, tra l’altro: 5 giri di Francia (1969, 1970, 1971, 1972, 1974) con 34 vittorie di tappa e 96 giorni in maglia gialla; cinque giri d’Italia (1968, 1970, 1972, 1973, 1974); un Giro di Spagna (1973); tre campionati del mondo professionisti (1967, 1971, 1974) più uno dilettanti (1964); sette Milano-Sanremo (1966, 1967, 1969, 1971, 1972, 1975, 1976); tre Parigi-Roubaix (1968, 1970, 1973); due Giri delle Fiandre (1969, 1975); tre Freccia-Vallone (1967, 1970, 1972); cinque Liegi-Bastogne-Liegi (1969, 1971, 1972, 1973, 1975), due Giri di Lombardia (1971, 1972) n• «[...] s’ingozzava di vittorie al punto da essere crudelmente soprannominato ”il Cannibale”. Ha vinto infatti esageratamente: 525 volte su 1800 gare su strada disputate, 445 da corridore professionista (281 senza circuiti). Una percentuale mostruosa. Cinque Giri d’Italia (76 giorni in maglia rosa), cinque Tour de France (111 giorni in maglia gialla), 3 titoli mondiali, 7 Milano-Sanremo, 3 Parigi-Roubaix, 3 Freccia Vallone, 2 Fiandre e altrettanti Giri di Lombardia. Un anno, era il 1971, partecipò a 120 corse: ne vinse 54. La furia agonistica di Eddy era omerica. I numeri e la qualità dei successi giustificano il giudizio unanime: Merckx è ritenuto non solo il ciclista più vittorioso del ciclismo, anche e soprattutto il più grande. Solo Fausto Coppi gli viene affiancato, ma per una grandezza assai diversa, l’essere stato cioè ”fortissimo e fragile al tempo stesso”, come scrisse Orio Vergani. L’impresa straordinaria si alternava alla malasorte, il Campionissimo era l’airone che spiegava le sue ali come il più vulnerabile degli uomini. Merckx, al contrario, pareva disumano tanta era la sua superiorità tecnica ed atletica: correva, quando le forze lo assecondavano - cioè troppo spesso - sempre in testa, sempre davanti a tutti. Attaccava e voleva vincere ovunque, fosse in cima all’infernale Mont Ventoux o in una kermesse da strapaese. Un giorno, al Tour del 1970, sotto i pini, ai bordi della strada, un tifoso diventa protagonista di una delle foto più famose di Merckx. Sorregge un cartello: ”Eddy pitié aux eux”, Eddy, pietà per gli altri... Eddy, invece, non aveva pietà per nessuno. Vinse il prologo, la prova a squadre, altre sette tappe. L’irruzione di Merckx sconvolse il mondo delle due ruote: il suo era un ciclismo aggressivo, correva con una ”determinazione disperata”, ricorda Felice Gimondi che di Merckx è rimasto affettuoso amico dopo esserne stato il più fiero degli avversari. Sgomentava quella sua apparente coazione a vincere. Italo Zilioli, che in quel Tour del 1970 indossò la maglia gialla per cinque giorni, sfilandola al capitano alla seconda tappa e restituendogliela alla sesta, un giorno [...] disse che non avrebbe mai dimenticato la Mulhouse-Divonne les Bains, 241 chilometri di trasferimento, ossia una tappa per seconde schiere. Ebbene, ”molti della nostra squadra non lo videro mai, Eddy era sempre rimasto in testa”, sino all’ultimo feroce sprint quando infilzò sulla linea del traguardo il povero Tosello. Le cronache riportarono la rabbia di Albani, direttore sportivo del belga, che gridò: ”Ma quello è pazzo!”. Aveva vietato all’umile gregario un pizzico di gloria, perdendo l’occasione d’oro di farselo devoto servitore per il resto della vita. Eddy si scusò. Spiegò il suo comportamento arrogante: ”Il pubblico vuole che io dia tutto quello che ho, il pubblico è il dio, per chi fa il mio mestiere”. L’anno successivo Tosello divenne suo gregario: Eddy era Cannibale, talvolta Gentiluomo. La logica di Merckx aveva motivazioni profonde. Nel 1968, durante il Mondiale di Imola, le ragion di squadra - quelle della Faema, quelle della nazionale belga - gli impedirono di inseguire Adorni e Van Looy. Trionfò Adorni. Lui aveva obbedito. Però pianse davanti al pubblico, fece capire che il suo era stato un sacrificio ingiusto. [...] il peggiore dei suoi ricordi. Primo giugno del 1969, Giro d’Italia, Savona. Al controllo antidoping, Merckx viene trovato positivo. cacciato dal Giro, la maglia rosa passa a Gimondi. Eddy contestò fin da subito il risultato dell´esame: ” una trappola, qualcuno vuole fregarmi, le fiale coi prelievi delle mie urine sono state manipolate”. Le telecamere di Sergio Zavoli colsero quei momenti drammatici, il dolore e la vergogna di Merckx, il suo pianto a dirotto, la sua costernazione. Merckx lavò quell’onta al Tour, un mese dopo. Massacrò gli avversari. Roger Pingeon si classificò secondo, a 17’ e 34’’. Raymond Poulidor, terzo, a 22’13’’. Gimondi a 29’24’’. In quel Tour Merckx aggredì salite, discese, pianure, umiliò il resto del mondo, dette sfogo a tutto il suo sconfinato orgoglio. Cannibale coi pedali e con la testa. [...]» (Leonardo Coen, ”la Repubblica” 17/6/2005). «Un capobranco. Uno schiacciasassi. Una macchina infernale. Uno spietato divoratore di successi e di avversari. Un fuoriclasse straordinario, il più vincente e probabilmente il più grande di un secolo di ciclismo. Un mito, anche per chi, troppo giovane, non lo ha visto macinare rivali e rapportoni mozzafiato, ma ne ha soltanto letto imprese ed efferatezze. Una sorta di Attila in bicicletta, fortissimo su tutti terreni, un predone che saccheggiava qualunque strada, senza lasciare nulla a nessuno. Oppure, più semplicemente, Eddy Merckx: cinque Tour de France e altrettanti Giri d’Italia, sette Milano-Sanremo, tre Parigi-Roubaix, cinque Liegi-Bastogne-Liegi e tre Campionati del Mondo. In tutto 525 vittorie in 1800 corse, un’esagerazione. Le progressioni di Merckx stanno al ciclismo come i dribbling di Maradona al calcio e i jab di Alì al pugilato. [...] ”Da ragazzino sognavo di vincere il Tour, ma mai avrei pensato di conquistarne uno, figuriamoci cinque. Tra coetanei avevamo organizzato un giro di Francia in miniatura: erano piccole tappe nel quartiere dove vivevo, vicino Bruxelles. Assegnavamo pure la maglia gialla e quella verde. Che tempi. Il mio idolo era il belga Ockers, che perdeva spesso da Coppi e Bartali, ma scattava in salita e conquistava belle vittorie. Nell’adolescenza praticai diversi sport: calcio, pallacanestro, tennis. Anche se il ciclismo riscosse sempre in me un fascino particolare, nonostante nessuno in famiglia ne fosse appassionato. Così, a 16 anni, presi la tessera e cominciai a correre: credo sia stato una sorta di predisposizione naturale, paragonabile a quello che ha portato Van Gogh a dipingere e Mozart a suonare. Nell’estate del `61, durante le vacanze estive, disputai le prime corse serie. Vinsi all’undicesima, un circuito, all’ultimo giro staccai tutti e arrivai solo al traguardo. Ero felicissimo, anche perché non mi ero preparato specificamente per quella gara, mi allenavo un po’ alla buona [...] Tre anni dopo conquistai il titolo mondiale dei dilettanti, anche se l’emozione più forte resta il primo Tour, nel `69, quando rifilai mezz’ora al secondo, il francese Pingeon. Venivo da un Giro d’Italia che avevo dominato e dal quale ero stato squalificato per essere stato trovato positivo alle anfetamine nella tappa di Savona. Ma non avevo preso nulla: sarebbe stato stupido farlo, fu una frazione corsa a una media irrisoria. Così arrivai in Francia con una voglia di riscatto tremenda: volevo dimostrare a tutti la mia forza. Mi ripresentai alla Grand Boucle anche nei tre anni successivi e la vinsi sempre. [...] Gimondi fu il mio più grande avversario, era sempre presente, pronto ad approfittare di ogni mio minimo momento di difficoltà. Ocana in salita era straordinario: al Tour del `71 mi mise in crisi nella tappa alpina di Orcières Merlette, dove mi inflisse ben nove minuti. Non avevo mai accusato un simile distacco, ma non mi persi d’animo e già dopo la durissima frazione di Marsiglia avevo recuperato parte dello svantaggio. Poi arrivarono i Pirenei, pioveva, Ocana in salita era insuperabile, così ci provai in discesa. Lui, per seguirmi giù dal Col de Menté, cadde e si ruppe la clavicola. Fu costretto al ritiro, ma io rimasi amareggiato più di Ocana: il giorno dopo non volevo ripartire, avrei preferito perdere piuttosto che vincere in quel modo. E poi sono convinto che avrei potuto batterlo sulla strada, nei giorni successivi. [...] Nel 1973 scelsi di fare Giro e Vuelta di Spagna e le vinsi entrambi. In Francia tirava una brutta aria, mi si rinfacciava di uccidere la corsa, di renderla noiosa. Finirai per dominare cinque Tour di fila - mi dissero - sono troppi. Si preparavano tutti a corrermi contro: non che io avessi paura, ma non mi andava di fare l’ospite indesiderato. Quell’anno vinse proprio Ocana, ne fui felice. Io però tornai nel 1974 e conquistai il mio quinto Giro di Francia, dopo il Giro d’Italia e prima del mondiale: fu un’annata d’oro. [...] Nel 1975 corsi solo contro tutti, da subito. Due giorni prima di quella fatidica tappa, fui colpito da un pugno fortissimo di uno spettatore mentre salivo sul Puy de Domme. Il medico mi diede una medicina sbagliata che pagai cara. Il giorno di Pra Loup ero in maglia gialla, ma attaccai lo stesso, con decisione, nella discesa dell’Allos: un’ammiraglia della Bianchi, per seguirmi, finì in un burrone. Arrivai all’ultima salita con un minuto sul francese Thevenet. Ma in poco tempo, nonostante l’ascesa non fosse particolarmente impegnativa, mi ritrovai senza forze: colpa di quel farmaco balordo. Thevenet mi passò a doppia velocità e mi scalzò in classifica. Due giorni dopo lo staccai sulla Madeleine, ma Moser lo aiutò a rientrare. Poi mi procurai una doppia frattura alla mandibola, ma volli continuare il Tour per cercare, invano, di riconquistare la maglia gialla. Fu un errore: terminai secondo e quella follia mi accorciò la carriera di almeno due anni. Nel 1976, a soli 31 anni, non ero più io: vinsi la mia settima Sanremo, battendo il record di Girardengo e le nuove leve belghe, Roger De Vlaeminck e Freddy Maertens, ma le gambe non giravano più come un tempo [...] Io ho sempre corso per vincere e basta, in qualsiasi corsa. Se mi fossi posto il problema del record, allora avrei potuto vincere almeno sette Tour, se non di più: rinunciai nel `73 per scelta personale e nel `68 perché la mia squadra, l’italiana Faema, puntava al Giro, che in quell’occasione vinsi per la prima volta. In entrambi gli anni non credo avrei avuto problemi ad arrivare in maglia gialla a Parigi. Alla corsa rosa del `68, comunque, è legato uno dei ricordi più belli della mia carriera: la vittoria sulle Tre Cime di Lavaredo, tra panorami mozzafiato rimontai tutti i fuggitivi che all’inizio della salita avevano nove minuti di vantaggio. Quello fu anche l’anno della prima delle mie sette Sanremo. Amo talmente quella corsa che non ne scambierei una con la Parigi-Tours, l’unica classica che manca al mio palmares [...] L’etica sportiva consiste anche nel cercare sempre la vittoria. Non è essere cannibale, come mi hanno sempre soprannominato, ma è rispetto per l’avversario e per chi ha organizzato la competizione. Le corse più importanti non le regalavo perché ci tenevo, quelle più piccole le onoravo fino in fondo per far piacere a chi aveva lavorato un anno per invitarmi”» (Cheo Condina, ”il manifesto” 13/3/2004).