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 2002  marzo 05 Martedì calendario

MESINA Graziano

MESINA Graziano Orgosolo 4 aprile 1942. Bandito. Graziato nel 2004 da Ciampi • «Negli anni ’60 e ’70 a un ragazzo sardo un po’ turbolento poteva capitare di sentirsi gridare: “Mesina!”. Non era un insulto ma nemmeno un complimento. Si trattava piuttosto di una semplificazione antropologica. Mesina era il testimonial della Sardegna così com’era immaginata da chi non ne conosceva la complessità o da chi non aveva le parole per raccontarla. Un bandito leale, astuto, orgoglioso e generoso, un “balente”, una “Primula rossa”, il “Robin Hood della Barbagia”. Il fatto obiettivo che, come tutti i delinquenti, tenesse per sé il maltolto, scompariva dietro un’aneddotica ogni giorno più ricca che trasformava - di sequestro in sequestro, di evasione in evasione - uno sbandato di paese in un mito regionale e in una star mediatica nazionale. [...] Difficilmente aveva sentito parlare di Robin Hood quando, a quattordici anni, fu arrestato per il furto d’un fucile (se la cavò con il perdono giudiziale) e nemmeno quando, a diciotto, a conclusione della festa dei coscritti della classe di leva 1942, distrusse a fucilate un lampione di Orgosolo, il suo paese. I carabinieri lo presero per la collottola e lo portarono in caserma. Se la sarebbe cavata con poco se non avesse avuto la dissennata idea di darsela a gambe. La “Prima evasione”, nella mitologia mesiniana. Sette mesi di galera, nella realtà della vita del giovane deviante. Il salto definitivo nella grande criminalità ha il più classico dei movimenti. È il 1962 e uno dei dieci fratelli viene assassinato per vendetta. Il ventenne Graziano irrompe in un bar di Orgosolo e spara contro quello che ritiene il responsabile dell’omicidio. Scoppia una rissa. Mesina viene tramortito con un colpo di bottiglia sulla testa. Finisce in ospedale e, non appena si riprende, fugge. Seconda evasione. Alla fine saranno in tutto nove. Quindi i sequestri di persona, le interviste esclusive a viso scoperto, col mitra in mano, e una corte di complici incappucciati attorno. Una sparatoria in campagna, un nuovo arresto. Nel 1968 il mito di Mesina è consolidato. Raggiunge Giangiacomo Feltrinelli che crede di poterne fare il Che Guevara sardo. La trattativa, come era ovvio, non porta a nulla. Ma contribuisce ad alimentare la leggenda e anche la paura quando, nel 1976, Grazianeddu evade dal carcere di Lecce con alcuni terroristi. In realtà della politica non gliene è mai importato niente. Quando, nel 1991, ottiene la libertà vigilata e partecipa alla trattativa per la liberazione del piccolo Farouk Kassam, s’invischia in una partita pericolosa con i servizi segreti. Poco dopo, nella villetta dell´astigiano dove si è stabilito, irrompono i carabinieri e scoprono un piccolo arsenale: un kalashnikov, due pistole automatiche, un revolver, due bombe a mano, cinquemila cartucce. “Una trappola”, accusa. Ma perde nuovamente la libertà. Definitivamente, si disse allora. [...] dopo altri undici anni di carcere, la grazia. Stava per concedergliela Francesco Cossiga, l’aveva sostenuta Indro Montanelli. Il mito di Mesina, infatti, è stato alimentato dalla fama e dal prestigio dei tanti che ci hanno creduto. [...] A Montanelli quel sardo piccolo dagli occhi vivi ricordava gli anni della giovinezza trascorsi a Nuoro, dove il padre era il preside del liceo. Un giorno del 1992 volle incontrarlo. “Mesina, sono qui da lei perché ho passato gli anni migliori della mia infanzia nel cuore della Barbagia. Spesso pranzavamo con qualche bandito, cucinando capretto o porceddu arrosto”. Anche Mesina ebbe un ricordo d´infanzia: “Arrivai fino alla quarta elementare - raccontò - poi presi a pietrate il maestro e mi mandarono a guardare il bestiame”» (Giovanni Maria Bellu, “la Repubblica” 25/11/2004) • «Piccolo, robusto, agilissimo, penultimo di 10 figli, vivace fin troppo, orgoglio smisurato e spiccatissimo senso della famiglia e della giustizia fai da te. Quando un compaesano osò accusare i fratelli di aver partecipato a un rapimento, lui corse in un bar e gli sparò a bruciapelo. “Se avessi voluto lo avrei ammazzato. Ma non volevo: io non ho mai ucciso nessuno”. Prima condanna dura, 16 anni, di una serie infinita e prima tappa di una “carriera” destinata a segnare la storia del banditismo sardo. Rapimenti, evasioni, condanne e ancora fughe dal carcere. “Io non sono nato per rimanere in galera” confidò nel 1962 a un carabiniere della scorta che lo trasferiva dal carcere di Nuoro. E poco dopo: “Posso andare nel bagno?”. Il treno correva, il carabiniere sulla porta della toilette. Ma Grazianeddu si era buttato giù dal vagone. Catturato subito dopo, dicono le cronache. “Mi consegnai spontaneamente. Quel carabiniere mi stava simpatico, non volevo che avesse guai”. Vanitoso, spaccone, forse un po’ primitivo — così hanno scritto — mai banale. “Scommettete che scappo?” si vantava con gli agenti di custodia. Scommessa vinta: a Nuoro, primi anni ’60, intervento chirurgico, ricovero all’ospedale, il giorno dopo andò via in pigiama. Lo cercavano più di 200 poliziotti, lui si era infilato in un tubo e ci era rimasto tre notti. L’evasione “storica” da San Sebastiano, carcere di Sassari. Per due anni Grazianeddu calzava nell’ora d’aria le scarpe da tennis e faceva ginnastica. Quando venne il momento (1966) compì un gran balzo e si issò sul muro di recinzione (7 metri); un altro salto ed era su una strada centralissima. Passava un taxi: “Mi porti a Ozieri”. Il bandito Graziano Mesina è nato in quell’istante e ha già un luogotenente, Miguel Atienza, spagnolo con un passato nella Legione Straniera, evaso con lui. In 18 mesi, rapimenti a catena: Campus, Petretto, Moralis, Canetto, Papandrea, Capelli... Una lista che cresceva proporzionalmente alla sua fama di fuorilegge duro, ma generoso. “Mi ha dato mille lire e detto: ‘Comprati le caramelle e ritorna a casa’ — raccontò Marcellino Petretto, sorpreso con il suo papà e liberato subito — ‘Io non prendo bambini’”. Catturato nel marzo 1968. “Un colpo di fortuna”, annotarono le cronache, era incappato in un blocco casuale della polizia stradale vicino a Orgosolo, ma ci fu il sospetto che si fosse costituito in cambio di 300 milioni, consegnati a madre e fratelli. Da allora ha girato le prigioni di mezza Italia. E Mesina ci tentava: 1973 a Regina Coeli e a Volterra, 1975 a Porto Azzurro. A Lecce, 1976, fuga riuscita con un gruppo di detenuti “politici”. “Meglio un fuorilegge onorato — scherzava Grazianeddu — che un guerrigliero senza idee”. Infatti disse no all’editore Giangiacomo Feltrinelli, amico di Fidel Castro, che voleva fare della Sardegna la Cuba del Mediterraneo, convinto che Mesina — popolarissimo: dopo la cattura era stato applaudito da centinaia di studenti — avesse la stoffa del capopopolo. Chiese ospitalità, invece, a Francis Turatello, boss della mala milanese, e finì a far rapine nelle bische. Si adattò presto al clima di Milano: “Giravo sempre con l’ombrello, dentro c’era il mitra”. Catturato a Trento, da allora niente più evasioni. Un’eccezione nel 1985: “Mi avevano promesso 5 giorni di permesso, me ne diedero due. Gli altri me li sono presi io”. Aveva promesso un week end lungo a Valeria e con lei lo trovarono in una stanzetta a Vigevano. Mesina e le donne, un altro mito. Gli scrivevano in centinaia. [...]» (Alberto Pinna, “Corriere della Sera” 25/11/2004).