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 2002  marzo 05 Martedì calendario

MILOSEVIC Slobodan Pozarevac (Serbia) 29 agosto del 1941 (per certe fonti il 20), Scheveningen (Olanda) 11 marzo 2006

MILOSEVIC Slobodan Pozarevac (Serbia) 29 agosto del 1941 (per certe fonti il 20), Scheveningen (Olanda) 11 marzo 2006. Politico. Famiglia di origini montenegrine. Padre prete ortodosso, madre insegnante, entrambi morti suicidi. Sposato con Mirjana, due figli. Funzionario di Stato, ha guidato dal ’68 al ’78 l’impresa jugoslava del gas e poi la banca Beobank Dall’84 leader del partito comunista a Belgrado, dall’87 guida il partito in Serbia. Nel ’90 è eletto presidente della Serbia nelle prime elezioni multipartitiche del dopoguerra. Nel ’97 è presidente jugoslavo. Nel ’99 incriminato dal Tribunale dell’Aja. Nel 2000, battuto da Kostunica, riconosce la sconfitta elettorale solo dopo la rivolta popolare. Arrestato il 1° aprile 2001. Tradotto all’Aja il 28 giugno. « Nessun altro capo di Stato era comparso prima di lui davanti alla giustizia internazionale. Né a Norimberga, né a Tokyo, dove a conclusione della Seconda Guerra mondiale furono processati e condannati i responsabili sopravvissuti della Germania nazista e del Giappone imperiale, vi erano infatti imputati di quel rango. Più di mezzo secolo dopo, Slobodan Milosevic ha conquistato all’Aja quel primato, comparendo davanti a un tribunale delle Nazioni Unite, creato ad hoc per i crimini commessi sul territorio dell’ex Jugoslavia, di cui lui, Milosevic, era il presidente, Ma morendo nel carcere di Scheveningen, con il processo ancora aperto, il ”vozd” (duce) serbo ha evitato il verdetto. Se ne è andato ”innocente”, cosi come quando era al potere si dichiarava ”vincitore” ad ogni sconfitta. E di sconfitte ne subì ben quattro nei tredici anni di potere, durante i quali ridusse a brandelli la Federazione jugoslava e alla miseria la Serbia di cui era il ”duce”. I giudici internazionali non hanno avuto il tempo di stabilire il suo grado di responsabilità nei sessantasei crimini elencati nell´atto di accusa, tra i quali il genocidio, in Croazia, in Bosnia e nel Kosovo. Resta cosi in sospeso per sempre, sul piano giuridico, il ruolo esatto da lui svolto nella campagna di pulizia etnica contro i non serbi, durante il collasso della Federazione Jugoslava. Esentati dai vincoli della procedura, molti storici gli hanno comunque, nel frattempo, confermato il titolo di ”macellaio dei Balcani” aggiudicatogli quando i era ancora al potere. Ma l’assenza di una sentenza consentirà ai suoi difensori, che non sono pochi, di sostenere che il tribunale non sarebbe riuscito a trovare le prove per una condanna. I più accaniti tra quei difensori avanzano persino sospetti sulla natura della morte, a loro avviso intervenuta troppo puntuale, come ad evitare la sconfitta della giustizia internazionale. Secondo un avvocato Milosevic temeva di essere avvelenato. [...] Le cause della morte di Slobodan Milosevic resteranno a lungo immerse nel dubbio; su di esse peserà forse per sempre il sospetto; perché le passioni alimentate dalla sua esistenza sopravviveranno a lui, resteranno inchiodate nella storia della Serbia. Subito, appena si è saputo che era stato trovato morto nella cella di Schevening, nella prigione sotto la giurisdizione dell’Onu, si è pensato a un suicidio. In quella stessa prigione tredici giorni prima si era suicidato Milan Babic, il leader serbo croato che con le sue deposizioni aveva contribuito a precisare il ruolo politico e decisionale di Milosevic nei vari massacri. E lo stesso Milosevic aveva con il suicidio una certa familiarità, il padre e la madre essendosi entrambi tolta la vita. Milosevic descriveva se stesso come l’ayatollah Khomeini della Serbia. Non aveva del tutto torto. Egli seppe infatti interpretare le paure viscerali di molti serbi davanti al mondo moderno ed anche le loro ambizioni egemoniche nei confronti degli altri popoli della Federazione Jugoslava: degli sloveni, dei croati, dei macedoni, dei montenegrini, degli albanesi. In pochi mesi, quando prese il potere, si trasformò da grigio tecnocrate, con una lunga esperienza americana, in un condottiero carismatico, celebrato dai poeti come un antico eroe popolare. Si mise alla testa di una coalizione eterogenea (spiega Joze Pirjevec, docente di Storia dei Paesi slavi all’Università di Trieste), costituita da vecchi comunisti, da nazionalisti e dalla Chiesa ortodossa, ansiosa di recuperare l’ascendente perduto durante il comunismo, facendosi portavoce dei valori più sacri della tradizione serba. Ma l’alleato più prezioso di Milosevic fu però l’Armata popolare, messa dal regime di Tito, nato dalla lotta di liberazione, su un piedistallo, e al tempo stesso gratificata con mille privilegi. I militari scoprirono di avere in gran parte gli stessi interessi del nuovo duce della Serbia. Milosevic creò cosi una miscela nazionalista nei Balcani postcomunisti, non più sottoposti alla disciplina del bipolarismo (azzoppato dal crollo dell’Urss). Una miscela che spazzò via l’illusione di una pace perpetua kantiana subentrata in Europa con la fine della guerra fredda. L’esplosione della Jugoslavia infranse quel brevissimo sogno e provocò un nuovo tipo di interventismo internazionale: l´ingerenza umanitaria. Le minacce dell’esercito jugoslavo, guidato politicamente da Milosevic (il quale sosteneva: ”Io sono disposto a calpestare i cadaveri. L’Occidente no”.) spinse l’Alleanza Atlantica, nata con scopi difensivi, a impegnarsi per la prima volta nei suoi cinquant´anni di storia in un’operazione offensiva, attaccando uno Stato sovrano e violando sia la propria costituzione sia la Charta dell’Onu. La guerra umanitaria contro Milosevic non aveva come obiettivo soltanto la stabilità in Europa, ne aveva anche uno etico. I delitti gravi contro l’umanità, come quelli compiuti da Milosevic nel Kosovo (dove masse imponenti di profughi si muovevano sotto gli occhi impietositi dei telespettatori occidentali) ”non potevano restare impuniti”. Le parole decise di Madeleine Albright, allora segretaria di Stato nell´America di Clinton, erano un messaggio preciso: era una dichiarazione di guerra al totalitarismo, per ragioni umanitarie. Anche la Germania, per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale, partecipò a un’azione bellica con gli altri europei. La discussione sulla legittimità o meno di quella guerra fu intensa. E diventò ancora più aspra quando invece di crollare dopo i primi bombardamenti, la Serbia di Milosevic tenne duro. Non era stata presa in giusta considerazione la mentalità del dittatore né quella del popolo serbo, convinto di essere capace di dare il meglio di se stesso nei momenti di pericolo (pensa Joze Pirjevec). con questa stessa mentalità che Milosevic si è difeso al Tribunale internazionale e che non pochi serbi continuano a difenderlo. Al di là, spesso, della ragione. Il vozd (duce) serbo morto nella prigione di Scheningen, sulla spiaggia olandese, presidiata dall Onu, ha dunque provocato due prime mondiali: la giustizia internazionale contro un capo di Stato accusato di crimini e la guerra umanitaria. Due principi in teoria esemplari, ma rimasti nella realtà incerti e ambigui. [...]» (Bernardo Valli, ”la Repubblica” 12/6/2006). «Se n’è andato da grande tattico, l’unica sua qualità. Morendo con buon tempismo, Slobodan Milosevic s’è sottratto all’onta eterna d’una condanna per genocidio ed ha assestato un colpo formidabile al processo dell’Aja [...] Nel mondo gli resterà il marchio dello sterminatore, e così lo ricorderà la storia. Ma in patria [...] una vita che non ebbe mai nulla di epico o di grandioso, e produsse tanto Male non per un progetto definito o per una volontà assoluta, ma per opportunismo, viltà, per il cinismo più mediocre. Milosevic non condusse il suo popolo più di quanto quello non condusse lui. Prese a prestito i castelli di menzogne eretti dall’Accademia delle scienze di Belgrado per ingannare una nazione che voleva ardentemente essere ingannata. La Serbia gli consegnò una missione e per molti anni gli garantì un consenso autentico. Lui cavalcò l’onda perché gli conveniva. [...] nella parabola di Milosevic perfino l’inizio è un tiro di dadi. Siamo nel 1987. La Jugoslavia si sta avvitando in una crisi globale. I nazionalismi sepolti vivi da Tito sono già fuori dalle loro fosse. Milosevic è il capo del partito comunista a Belgrado. un esperto di credito internazionale e nelle sue missioni all’estero si è conquistato la fiducia della diplomazia statunitense, che fiuta in lui un rinnovatore pragmatico e spregiudicato. Gli americani impiegheranno anni per capire dove conduca tanta spregiudicatezza. Ma in quel 1987 Milosevic appare un democratizzatore del sistema, non solo agli americani, ma alla stessa ala ”liberale” della Lega comunista jugoslava. Il vertice lo vezzeggia e se ne fida: un altro errore di calcolo che risulterà fatale. Milosevic incontra in Kosovo il suo destino. Il partito lo manda ad acquietare lo scontro etnico. Si trova davanti una folla serba esasperata dall’aggressività albanese. La prassi prevede che ripeta l’appello rituale all’unità e alla fratellanza, dogma del comunismo jugoslavo. Ma Milosevic intuisce che quella folla non gli perdonerebbe frasi di circostanza. Così pronuncia - a mezza bocca, come per mancanza di convinzione - le parole fatali: ”Mai più un serbo sarà colpito”. Che sia poco convinto, lo conferma il seguito di quel viaggio. Milosevic incontra i minatori del Kosovo, tutti albanesi, e li blandisce con un discorso in puro stile titoista. Riceve una bordata di fischi. Le ovazioni dei serbi, i fischi degli albanesi: quel giorno si decide la traiettoria di un burocrate senza alcuna ideologia che gli eventi, e una sete smodata di potere, trasformeranno prima in capopolo, poi in conducator, quindi in sterminatore. Tornato a Belgrado, Milosevic scopre che le parole pronunciate a Pristina hanno avuto un’eco enorme sulla stampa belgradese. Il vertice è perplesso ma il partito è con lui. In capo ad un anno estromette la vecchia guardia grazie all’appoggio della piazza e alle trame ordite da sua moglie Mira, una docente di sociologia nipote di una segretaria di Tito. Mira sarà decisiva: gli organizzerà la scalata al partito in Serbia, e lo accosterà ad un alleato decisivo, l’Accademia delle Scienze. Quest’ultima è per metà una consorteria di intellettuali prestigiosi, afflitti da un nazionalismo senile e dalla sindrome del bardo: si sono messi in testa che sia loro missione far emergere, interpretare e dirigere le genuine aspirazioni del Popolo. Sono altrettanto fiduciosi di poter usare Milosevic per condurre il Popolo dalla schiavitù sotto il faraone, Tito, alla Terra promessa, la Grande Serbia. La lobby dei bardi fornisce a Milosevic un’ideologia e un Manifesto, il Memorandum dell’Accademia delle scienze, dove si afferma ”il diritto storico e democratico” dei serbi a unificare i loro territori, cioè a ritagliarsi la Grande Serbia. un progetto demenziale e suicida, perché garantisce pretesti formidabili a tutti i nazionalismi ex jugoslavi: ma offre a Milosevic la possibilità di recitare da quel vendicatore della nazione serba che le masse invocano. Un aiuto non meno importante gli arriva dalla diplomazia occidentale, che salvo eccezioni ritiene la sopravvivenza della federazione jugoslava una causa persa. Gli europei salutano con entusiasmo l’inizio del disastro, la secessione slovena, senza capire quale sarà il seguito: la guerra in Croazia e in Bosnia. A molti occidentali sembra un buon affare togliere di mezzo quel vicino ingombrante, imprevedibile e ben armato, la Jugoslavia. Milosevic e il croato Tudjman, tanto amichevoli e premurosi in privato quanto ostili in pubblico, ne approfittano per scatenare una guerra feroce dalla quale entrambi usciranno rafforzati. Poi si accordano in segreto per spartirsi la Bosnia. La guerra bosniaca offre a Milosevic l’occasione per puntellare il suo regime personale attraverso un’alleanza organica con l´estrema destra e con l’Accademia delle Scienza, suggellata dall’elezione dello scrittore Dobrica Cosic alla presidenza della mini-Jugoslavia. Ma ancora una volta sono le circostanze a dirigere Milosevic. I tratti ultra-nazionalisti che il regime va assumendo non sono tanto l’esito di una strategia coerente, quanto il prodotto di una sua personale tattica di sopravvivenza. Quando infatti l’intervento della Nato gli toglie dalle mani la Bosnia, Milosevic straccia le mappe della Grande Serbia e si smarca definitivamente dall’ultra-nazionalismo, così come gli chiedono gli americani. convinto di essere tornato nelle grazie di Washington, e questo lo rassicura. Le divisioni dell’opposizione e l’attendismo della diplomazia europea gli permettono di sopravvivere ai moti di piazza del ’96. Ma non sopravviverà al cambio di passo del dipartimento di Stato, che nel ’97 scopre in Milosevic non più un interlocutore necessario alla pace nei Balcani, ma il principale ostacolo. Unito alla volontà americana di rilanciare il ruolo dell’Alleanza atlantica, la nuova dottrina porterà al braccio di ferro sul Kosovo. Milosevic sceglie la guerra, anche perché consapevole di non poter scampare ad una resa a condizioni umilianti. Durante e dopo il conflitto si converte precipitosamente all’internazionalismo terzomondista, e racconta che la Serbia è il grande alleato della Cina nella riscossa contro l’Impero occidentale. Ma la disponibilità del suo popolo a lasciarsi imbrogliare ormai è esaurita. Perse le elezioni, nel 2000 una ”rivoluzione di velluto” sapientemente monitorata da Washington gli strappa le sue Bastiglie al grido di ”adesso o mai più”. Cadono la fabbrica delle ipnosi nazionaliste, la tv; poi il palazzo del Parlamento. I reparti speciali tradiscono Milosevic e solidarizzano con i dimostranti. Subito dopo il tracollo del regime, un uomo del vertice supremo, il drammaturgo Lubisa Ristic [...] racconta di un Milosevic stremato dal proprio gioco d’azzardo. ”In fondo è un banchiere. Ha un formidabile senso pratico ma capisce poco la politica. L’opposto di sua moglie, che capisce la politica ma manca totalmente di senso pratico”. A questa somma di difetti vanno aggiunti un’identificazione totale con il potere, e la disponibilità al crimine che ne consegue. Ma i suoi crimini sono anche quelli della Serbia, e la Serbia non li vuol vedere. Però il governo serbo ha bisogno di finanziamenti: l’inesorabile logica del denaro perderà Milosevic. Viene arrestato mentre cadono i dieci anni dall’inizio della dissoluzione dell´’x Jugoslavia. In cambio Belgrado otterrà il miliardo di dollari, tra prestiti diretti e crediti internazionali, vincolati dal Congresso americano alla consegna di Milosevic. [...] all’Aja nel 2004, ha perso capelli e un po’ di chili. al di là delle vetrate anti-proiettile, in un’aula senza finestre che pare un curioso rettilario azzurrino. E Milosevic è il pitone che tiene nelle fauci il processo. Anzi, lo sta ingoiando. La sua arma è l’ipertensione. Ha la pressione alta e fa poco per curarsi. E se stramazza sul suo scranno il tribunale dell’Aja rischia di chiudere. La probabilità dell’ergastolo, e ancor più la certezza dell’oblio, devono apparire spaventosi ad un uomo che per un decennio fu nella storia da protagonista. Si rivolge al presidente della corte, un nigeriano, con un fare presidenziale brusco e spazientito. Non si abbassa a contestare i 66 capi d’imputazione. La sua difesa spesso è un excursus nei secoli, un viaggio erudito in cui i tortuosi zigzag della storia diventano perfette geometrie, la nitida trama della cospirazione anti-serba che si dipana dall´Ottocento ad oggi. Ma sta perdendo il processo. E l’eventualità d’una sua condanna spaventa a morte Belgrado, perché in quel caso seguirebbe una sentenza avversa alla Serbia nel giudizio intentato dalla Bosnia presso la Corte europea. Sarajevo chiede un risarcimento per i danni di guerra, valutati in miliardi di dollari. [...]» (Guido Rampoldi, ”la Repubblica” 11/3/2006). «[...] massimo criminale politico europeo dopo la seconda guerra mondiale [...] dal 28 giugno 2001 ha trascorso quasi cinque anni di prigionia. Gravava su di lui la tremenda imputazione di delitti contro l’umanità, crimini di guerra e di genocidio: esattamente la stessa che condusse i sopravvissuti gerarchi nazionalsocialisti al tribunale di Norimberga [...] in Jugoslavia non ci sono state vere ”guerre”, o ”guerre civili”, le quali presuppongono eserciti o popoli in armi da una parte e dall’altra. Presuppongono due schieramenti simmetrici, ambedue pronti allo scontro, animati da una medesima volontà di aggredire e di uccidere. Al principio non c’è stato alcun preparativo di ”guerra” interjugoslava di questo tipo per così dire convenzionale. In Jugoslavia c’è stata all’inizio contro croati e musulmani bosniaci, e alla fine contro albanesi kosovari, un’aggressione teorizzata nelle accademie belgradesi come ”pulizia etnica” e poi realizzata unilateralmente dalle truppe serbe contro popolazioni inermi. Mentre i malati di Vukovar venivano trucidati negli ospedali, Vukovar stessa rasa al suolo, Sarajevo assediata e cecchinata, Dubrovnik bombardata, Srebrenica violentata, Pristina spopolata, non un solo proiettile di fucile colpiva una casa nella Serbia vera e propria. Tantissimi belgradesi, al sicuro nei loro domicili, ipnotizzati dalla propaganda vittimistica di Milosevic che accusava trame cattoliche e islamiste ai danni dei pacifici serbi di Croazia e di Bosnia, pensavano che la ”guerra” fosse soltanto una fandonia orchestrata in funzione antiserba dal Vaticano e dalla Germania. Una parvenza di guerra cominciò solo quando i croati guidati dall’ex generale comunista Tudjman, e i musulmani bosniachi dall’islamico moderato Izetbegovic, decisero di mettere in piedi con l’aiuto americano i loro eserciti per difendersi dall’aggressione unilaterale. Dopodichè ci furono fisiologiche degenerazioni di vendetta e rappresaglia nella tradizione balcanica. Serbi della diaspora, anche innocenti, pagarono per gli atroci delitti commessi dalle soldataglie di Mladic e di Arkan foraggiate da Belgrado; il nuovo esercito croato espulse soldati e popolazioni dell’autoproclamata repubblica serba di Krajina, inventata e presieduta da Babic su suggerimento di Milosevic; ci fu, in Erzegovina, uno sprazzo di guerriglia fratricida tra alleati cattolici e islamici. Ma i serbi di Serbia, il cui leader carismatico era stato il principale promotore del grande caos oltreconfine, continuarono a non sentirsi coinvolti in una guerra che non riuscivano mai a vedere davvicino. Bisognava che passassero circa dieci anni dalle prime incursioni serbe in Slavonia e nel retroterra morlacco della Dalmazia perchè i belgradesi, fino allora risparmiati, provassero sulla loro pelle l’urto di qualche bomba sganciata dai velivoli della Nato. Nel frattempo numerosi esponenti occidentali di destra e di sinistra, specialmente italiani [...] seguitarono a consolare con le loro visite indulgenti l’ultimo ras comunista d’Europa. [...]» (Enzo Bettiza, ”La Stampa” 14/3/2006). «Amava New York, nel tempo libero vedeva film western, parlava perfettamente inglese ed era nato [...] mentre gli aerei nazisti bombardavano la Jugoslavia. Per uno che si porta nella tomba le etichette di ”macellaio dei Balcani” e dittatore ”nazional comunista”, i riferimenti biografici non potrebbero essere più ambigui. [...] contribuì alla morte di una Nazione, ma in tanti cercarono vantaggi dal funerale. Ricostruire la biografia di Slobodan Milosevic significa comprendere il suo tempo, le circostanze che ne determinarono l’ascesa, lo scenario della ex Jugoslavia nel contesto internazionale dopo la caduta del Muro di Berlino, le sfide del mondo di oggi: il nazionalismo, l’intolleranza etnica e religiosa, la ragion di Stato, l’ingerenza umanitaria, le teorie sulla guerra ”giusta”. Sfide alle quali lui seppe dare soltanto risposte negative, per ambizioni di potere e miopia culturale, ma non risolte dalla sua eliminazione politica e dalla morte. Se l’epitaffio resterà quello del ”demonio” venuto da un altro pianeta o del piccolo arrogante capopopolo che si illuse di tener testa alle Grandi Potenze, aggrappandosi al sogno di perpetuare la Jugoslavia di Tito (indossandone panni e rituale), allora Milosevic sarà morto due volte: per la giustizia internazionale e per la coscienza di quanti - dentro e fuori la Jugoslavia - furono complici, interlocutori e sicari della dissoluzione del Paese e dei massacri. Prima di lui, erano morti nel loro letto il leader croatoTudjman (con il quale Milosevic progetto di spartirsi la Bosnia) e il leader bosniaco Izetbegovic (che promosse prima dei serbi il nazionalismo religioso). [...] Milosevic si definisce per negazioni. I comunisti lo ritenevano un vero comunista, i nazionalisti un vero nazionalista, i riformatori un vero riformatore, i militari un vero combattente, gli oppositori un vero dittatore, i religiosi un vero credente, i politici e i diplomatici stranieri tutte queste cose insieme, in tempi diversi, secondo tornaconto e opportunità. Nella tragedia balcanica, Milosevic fu il continuatore e il dissolutore della Jugoslavia, l’artefice fallito della Grande Serbia e l’autocrate di una piccola Serbia stremata dalla corruzione e dall’embargo, il ”costruttore di pace” alla conferenza di Dayton e il ”macellaio” da eliminare in Kosovo, il mandante della pulizia etnica e il difensore di una multietnicità che - paradossalmente - resiste soltanto in una Serbia circondata da Stati etnicamente purificati, prima vessati da Belgrado e poi ansiosi di vendette ed epurazioni ai danni dei serbi. Se la responsabilitàmorale non ha attenuanti, quella politica è più complessa, contrassegnata da un tragico fatalismo che rispecchia l’anima del suo popolo e la personale psicologia. ”Era calmo, irremovibile e fatalista, parlò a lungo, con emozione, della Storia serba”, ricorda l’ambasciatore Richard Holbrooke, quando gli annuncia i bombardamenti della Nato. Il suicidio di entrambi i genitori, l’educazione in bilico fra ideologia comunista e religione ortodossa, l’esperienza come funzionario della Banca jugoslava a New York, l’ammirazione per l’America e il disprezzo per ”gli americani cowboy”, il distacco progressivo dalla realtà interna e internazionale, fino a stupirsi di avere attorno soltanto nemici. La sua colpa politica - che sospende il giudizio sulla sua troppo celebrata astuzia e sui suoi margini di manovra nel contesto - è di essere stato in anticipo o in ritardo sugli avvenimenti: li cavalcò, venendone alla fine travolto. Provò a riformare il partito, quando la burocrazia comunista e l’apparato militare non erano disposti a seguirlo. Sposò nazionalismo e cultura ortodossa, umiliando una società civile che cominciava a sognare l’Europa. Contribuì alla pace in Bosnia, senza tagliare il cordone ombelicale con le componenti fanatiche, le bande paramilitari e i circoli della corruzione mafiosa di cui fu soprattutto ostaggio. Pensò di giocare da pari a pari con l’America e di cominciare a fare affari con l’Occidente, nella presunzione di avere le mani libere sul Kosovo, avendola fatta franca in Bosnia. Credette di appoggiarsi a Mosca e a Pechino, quando ormai anche i muri lo consideravano un personaggio finito. Ritenne di sopravvivere al bombardamento della Nato, celebrando l’eroismo di un popolo e subendo la beffa di una deposizione decisa dalle urne e dalle piazze. Il grande manipolatore della causa serba era diventato una caricatura per i vignettisti di opposizione: il ”tirannosaurus”, la sfinge, la volpe dei Balcani, il cagnolino della moglie Mira, a sua volta capopartito, in una grottesca gestione del regime in camera da letto. ”Questo è l’Eldorado per i caricaturisti”, diceva l’umorista Korax. Unico capo di Stato estradato dal suo popolo e processato da una giustizia internazionale a geometria variabile, che ha chiuso gli occhi su tanti dittatori e massacri, Milosevic lascia sospeso anche il giudizio sul suo regime. Ritenerlo soltanto spietato e oppressivo giustifica meglio la sua liquidazione agli occhi dell’Occidente che lo ha per tanto tempo tollerato e agli occhi di milioni di serbi che per tanto tempo lo acclamarono. Ma a Belgrado circolavano decine di giornali di opposizione, le piazze furono per anni paralizzate da cortei di protesta, i dissidenti rilasciavano interviste nei caffè, persino la magistratura emise sentenze devastanti sui brogli elettorali. I teorici della democrazia da esportazione potrebbero paradossalmente trovare accettabili gli standard di Milosevic. E i sostenitori dello scontro di civiltà potrebbero condividerne oggi le analisi sull’Occidente cristiano e slavo assediato dalla demografia e dall’espansionismo islamico. ”Fra i terroristi del Kosovo e fra i combattenti bosniaci c’erano volontari islamici legati a Bin Laden”, è uno degli argomenti della sua difesa all’Aja. Dietro le sbarre, in un processo interminabile, mai decollato, lo ascoltavano soltanto gli stenografi. Sotto terra, resterà il ”macellaio”. Con il cuore spezzato dal whisky. Ancora giovane, quasi sempre fuori tempo» (Massimo Nava, ”Corriere della Sera” 12/3/2006). Ai tempi del processo: «Ripete la vecchia storia della cospirazione germanico-americano-papista, a suo dire origine del mattatoio jugoslavo [...] Ma quando stringe sugli anni Novanta, si fa concreto e dice cose vere, o almeno verosimili. Raramente inventa: semmai mente per omissione. Così non ha torto quando argomenta che Germania e Santa Sede ebbero un ruolo nefasto nella dissoluzione dell’ex Jugoslavia. Magari si fatica a seguirlo mentre racconta dell’alleanza germanico-vaticana nata alla fine dell’Ottocento, o al più tardi nel 1914, per togliere di mezzo, con la Serbia, il bastione della cristianità ortodossa. Ma è un fatto che nel 1990 la diplomazia tedesca e la lobby croata in Vaticano ebbero un ruolo determinante nello spingere la Cee a riconoscere l’indipendenza di Slovenia e Croazia, cioè a sancire la morte della Jugoslavia, con tutto ciò che ne seguì. Però questa è solo una parte della verità. [...] Il suo schema prevede che tutto abbia origine da un complotto internazionale, in ultima analisi diretto dal capitalismo americano contro il mondo slavo. Ma alcuni dettagli sono esatti. Milosevic ha ragione quando afferma che la Nato avviò l’attacco alla Serbia sulla base d’un falso. Alla vigilia della guerra la polizia serba sgomberò alcuni villaggi kosovari a ridosso delle vie di comunicazione. Era una mossa difensiva e preventiva. La Nato la spacciò per ”pulizia etnica” (l’operazione ”Ferro di cavallo”) e ne fece pretesto per lanciare l’aviazione. [...] L’ex presidente serbo vuole dimostrare che tutto quanto avvenne nell’ex Jugoslavia fu travisato e manipolato intenzionalmente dagli occidentali. In parte ha ragione. Ma la manipolazione occidentale, ove avvenne, spesso servì a negare le responsabilità di Belgrado. Per esempio già nel ’92 i governi Nato sapevano perfettamente quale ruolo giocava la polizia segreta serba nella guerra bosniaca, ma lo celarono perché altrimenti sarebbe crollata quella rappresentazione di comodo (il conflitto ”spontaneo” tra tribù etniche) con cui motivavano la loro inazione. [...]» (Guido Rampoldi, ”la Repubblica” 1/9/2004). Vedi anche: Edoardo Vigna, ”Sette” n. 16/1999.