Varie, 5 marzo 2002
MINA
MINA (Anna Maria Mazzini) Busto Arsizio (Varese) 25 marzo 1940. Cantante • «Le voci come quella di Mina si possono sentire soltanto dal vivo. Nessuna incisione può restituire quelle sonorità, quelle sfumature, che fanno la differenza. Renzo Arbore ha detto: ”La sua è la migliore voce bianca al mondo. Altro che Barbra Streisand”. E Sarah Vaughan: ”Se non avessi la mia voce, vorrei avere quella di Mina”. Se la risenti oggi capisci che con Domenico Modugno ha davvero incorniciato un mondo. E forse capisci perché si sia ritirata dalle scene. Se così si può dire: per senso della storia. Perché Mina è una stagione italiana, quella degli anni Sessanta, irripetibile. Ha tutte le stimmate dell’epoca: la nascita e il luogo di nascita; per quanto l’anagrafe dica Busto Arsizio, Anna Mina Mazzini è cremonese. Figlia di Giacomo, piccolo industriale: agiata, senza l’ansia di arrivare al successo a tutti i costi, probabilmente più snob di quanto si immagini. Dunque niente famiglia che agli albori del boom economico spinge la figlia a diventare famosa. Suo padre passò alla storia della canzone per una battuta: ”Mia figlia vuole fare la cantante? Ma se è stonata come una campana!”. Intanto lei da ragazzina faceva vacanze in Versilia, e a tarda notte, quando lo spettacolo degli altri era finito provava a cantare. Baby Gate, questo il nom de plume, che evoca un esotismo padano che allora doveva sembrare chissà che. Poi dal 59 è soltanto Mina. Minigonne per l’epoca vertiginose e un modo di cantare che finisce per cambiare i gusti musicali degli italiani. Una voce sofisticata, per canzoni un po’ altalenanti, anche casuali. Il talento era tale che le si poteva far cantar di tutto. Gino Paoli oggi è ancora scioccato per il suo Cielo in una stanza. Dovette inciderla solo alcuni anni dopo, perché il successo di Mina, era il 60, fu clamoroso. E quando Giorgio Bocca, cronista di punta del Giorno viene mandato nel 61 a intervistare quel piccolo fenomeno, la racconta così: ”Ero andato in un cinema di Torino, il cinema Lutrario, dalle parti di Porta Susa. Me la ricordo benissimo. Un antro oscuro fumoso, soffocante. Orchestra in giacchetta rossa. Lei cantava assediata dal pubblico. Talvolta qualcuno riusciva a toccarle il sedere. C’era la mamma a vegliare, ma ogni tanto era travolta dall’entusiasmo degli ascoltatori. ’Ehi, state attenti a mia madre’. Ma quelli niente”. Orchestra in giacchetta rossa. Lei gli dice, a Bocca: ”Sto pagando i miei peccati di impazienza”. E poi: ”Non ho mai letto un libro”. Attorno a lei c’è quel mondo lì, da peccati di impazienza. Flirt presunti con Umberto Orsini, Maurizio Arena, Gian Maria Volontè. Una storia d’amore con Walter Chiari, e poi naturalmente Corrado Pani. Lo sanno tutti: lui è sposato. Lei rimane incinta. il 63. Il solito scandalo italiano. Ma importa poco. Con Virgilio Crocco, giornalista del Messaggero si sposa a tempo di record. Bernardini ricorda: ”Era una donna dalle grandi passioni”. Certamente era un personaggio fuori da qualunque convenzione, imbrigliata in ruoli via via fintamente banali. Le Canzonissime, gli Studio Uno, le Milleluci, gli arrangiamenti alle sue canzoni: qualche volta anche kitsch. Non subito, perché all’inizio accanto a lei c’è uno come Gorni Kramer (al secolo Kramer Gorni, da Rivarolo Mantovano, luogo dove nel 58 per la prima volta Mina si esibisce con il complesso degli ”Happy Boys”); e le prime canzoni sono formidabili: Tintarella di luna, Una zebra a pois e poi Le mille bolle blu sono dei capolavori, anche di ironia. Qualche anno più tardi è già vittima dell’onesto mestiere di arrangiatori come Gianni Ferrio, ma soprattutto Bruno Canfora. Di sigle per il sabato sera tv alla Vorrei che fosse amore. E basti pensare a E se domani, con quegli archi arrangiati senza troppe idee. Eppure tutti gli arrangiamenti di maniera venivano spazzati via da una voce stupefacente. Anche quei testi, quei ”e sottolineo se”, cose di donne che attendono ”lui”, che saranno lasciate, perché non tornerà, non ci sarà e via dicendo. Amanti abbandonate di un’Italia che con il benessere inaugurava il doppio ménage come istituzione borghese. Dove al centro dell’’esistenza entravano i sentimenti di donne illuse e disilluse, fragili e pronte a cedere. Tutto il contrario di lei. Fino all’apoteosi di Parole parole, 71, sigla di chiusura di ”Teatro 10”. Dove Alberto Lupo, divo dello sceneggiato a puntate di un’Italia al declino del bianco e nero, si faceva rispondere: ”Le rose e i violini questa sera raccontali a un altro”. Ma in quelle canzoni Mina ha raccontato un’Italia: con passioni che si consumavano proprio in quei locali dove lei andava a cantare. Bernardini che era il suo manager ricorderà una volta: ”Non è mai accaduto che rimanesse un solo biglietto invenduto”. Arredamenti moderni, luci colorate, quel genere Sheraton si sposava alla perfezione con un’immagine, un modo di truccarsi di Mina: mascara in crema che si seccava sulle ciglia dando quell’effetto a ciocchetti, eye liner, sopracciglia depilate. Niente rossetti intensi, e quello sguardo irrisolto, un po’ inconsapevole, quasi annoiato. In una parola distaccato. Mina è stata una donna dai tanti no. Un no a Federico Fellini che la voleva in un film poi mai girato: Il viaggio di Mastorna. Un no a Francis Ford Coppola che la voleva nel Padrino. E un no a Giorgio Strehler che la voleva, al posto di Milva, nell’Opera da tre soldi. Snobismo? O incapacità di scegliere? Forse incapacità di scegliere. Ha detto anche troppi sì Mina. Ad esempio a una decina di film musicali degli anni Sessanta di cui non resterà nulla. Il primo del 1959, Urlatori alla sbarra (con Celentano), passando per I teddy boys della canzone del 60, continuando con Io bacio. tu baci del 61, e via dicendo fino al 63. Poi basta. Certo era meglio Fellini, come era meglio Sinatra. Che la voleva. Ma Mina non prende l’aereo, e non se ne fece nulla. Ma cosa sarebbe accaduto se avesse fatto un film con Fellini, interpretato Il padrino, fosse andata in scena nell’Opera da tre soldi, duettato con Frank Sinatra? Domanda inutile avrebbe detto il suo amico Lucio Battisti. Dalla seconda metà degli anni 70, per lei è tutto un inseguire qualcosa: i classici, le canzoni napoletane, la bossa nova, una Acqua di marzo di Tom Jobim che non fa rimpiangere quella di Elis Regina. Poi il jazz con Renato Sellani, solo voce e pianoforte, in una E se domani e Il cielo in una stanza da antologia. I testi di Paolo Limiti (su tutti Bugiardo e incosciente). E infine i duetti: da Celentano a De Andrè. Fino al 90 Mina ha inciso 738 canzoni per 80 milioni di dischi venduti» (Roberto Cotroneo, ”L’Espresso” 29/3/2001). «A 38 anni, finiva una vita, estenuante nel suo luccicare eccessivo, ne cominciava un’altra, altrettanto creativa e tanto più ricca, più vera, più umana. Con una perseveranza mai scalfita dal dubbio, un mito popolare italiano sceglieva di diventare il suo contrario, una Signora, per di più svizzera. Libera di essere anonima, di ingrassare mangiare fumare amare leggere giocare a carte, impigrire soffrire gioire crescere i figli diventare nonna senza la minaccia di dover rendere conto di sé a un pubblico appassionato e crudele, a una informazione crudele e sciocca. Libera di vivere, di cimentarsi in strade diverse come scrivere, pur continuando a fare il suo amatissimo mestiere, cantare, lontana da ogni curiosità fanatica e aggressiva. Quella notte del 1978 forse non sapeva ancora, o forse sì, ma non lo disse a nessuno, che sarebbe stata l’ultima in cui un pubblico incantato e antropofago l’avrebbe amata, voce, corpo, gesto e fuoco, assimilata, divorata, sentendola di sua proprietà, negandole ancora, per troppa passione, il diritto a non essere che se stessa e di se stessa. Fu un atto di altri tempi, coraggioso anche allora, oggi forse irripetibile. Quale attricetta, velina, comparsa. miss, grandefratella, rinuncerebbe alla ribalta anche miseranda di un finto servizio fotografico con finto fidanzato ballerino o calciatore, essendo quasi tutte senza arte ne parte e vivendo quindi solo di una notorietà fragile e fittizia? Chi di loro avrebbe il coraggio di ritirarsi, in molti casi dal nulla, per poter andare al supermercato senza essere importunata o proteggere un amore che sarebbe meno esaltante se pubblicizzato? Quella notte d’agosto del 1978 sotto il tendone di Bussoladomani sul lungomare del Lido di Camaiore, la notte di un’estate inquieta dopo eventi politici drammatici e tragici, è diventata, pur nel suo modesto significato, emblematica e non solo per Mina. Chi era presente (gli spettatori erano circa 6000) ormai è vecchio o comunque invecchiato, e magari ricorda poco di quell’eccitazione, di quella passione, di quella strana sensazione di vivere qualcosa di irripetibile, appunto una fine: anche di un modo di essere, di apparire, di passare l’estate, di essere ricchi, di sentirsi privilegiati, nella spiaggia allora ancora di massima moda. Era un pubblico elegantissimo, luccicante di gioielli, già infatuato della magrezza irrealistica e autocondannato ad abbronzature sinistre e foriere di irrimediabili rughe invernali, se non dell’eterna adolescenza come oggi. E passò un brivido di rimorso e sperdimento quando apparve lei, Mina, che da sei anni non aveva più cantato in pubblico e da quattro non si era più vista in televisione: era bellissima, grande, maestosa, splendente nella carnagione di perla intoccata dal sole, il corpo opulento nascosto dentro un lungo e ampio abito nero, e il suo chiarore, la sua carnalità, erano come un rimprovero a quella platea di donne, e di uomini, penalizzati dalle diete e dalla gara a chi era più marrone. In quell’estate in cui, come ogni estate, si accavallavano desideri d’amore eterno e d’avventura balneare, spesso irrealizzati o venuti male, lei cominciò a cantare non l’amore eterno e neppure l’avventura balneare, ma, canzone per canzone, il vibrare della passione, la violenza del piacere, le ferite dell’abbandono, il vuoto della fine. Con L’importante è finire, con Ricominciare, che senso ha, con Io ti chiedo ancora, il tuo corpo ancora, si donava a quel pubblico estasiato e forse immeritevole, con tutto la violenza del corpo, scuotendo i rossi capelli madidi di sudore, furente d’amore e deliquio erotico. Per l’ultima volta. Lo sapeva, non lo sapeva? Dopo lo spettacolo si eclissò in un baleno, senza concedere bis, come se la sua apparizione fosse stata solo un miraggio. Ma certo di quella vita non ne poteva più, e il tempo non aveva cancellato le umiliazioni e le ferite, soprattutto l’accanimento invidioso e immorale, per sorpassato moralismo, dell’informazione che da ragazza l’aveva braccata e continuamente giudicata. Anche quello, un mondo finito, in questo caso per fortuna: nel ’63 l’avevano chiamata ”pubblica peccatrice” perché aveva annunciato felice di aspettare un figlio da Corrado Pani, che era sposato, e la proba televisione democristiana l’aveva cacciata. Si sposava, aveva un altro figlio, una bambina, si separava, aveva altri amori, come tutti: e lei veniva colpevolizzata, schernita, sgridata. C’era sempre un fotografo a inseguirla, a scovarla, lei e i suoi figli, lei e i suoi compagni, lei e il suo corpo che non voleva più penalizzare. Per quella vita, che oggi molte aspiranti star agognano, pagando persino, lei non era fatta. Quell’ultima volta confidò anche un suo incubo ricorrente: ”Ho sempre pensato a questa cosa, che mentre canto qualcuno mi ammazza, è una sensazione schifosa che mi occupa tutta quando sono lì che annaspo nei riflettori, e non vedo niente perché si sa che sono mezza orba...”. Forse, davvero, lo aveva già deciso, ma se lo tenne per sé, primo gesto di non sudditanza e di autonomia» (Natalia Aspesi, ”la Repubblica” 21/8/2003). «Fino al ’78 era una riconosciuta interprete di valore internazionale, ma per gli italiani era soprattutto la spiritosa, eccentrica, amabile conduttrice, la partner da piccolo schermo di tutti i protagonisti dello spettacolo, dopo il ’78 non c’erano più sorrisi, ammiccamenti, concessioni all’audience, dopo il ’78 Mina è stata solo ed esclusivamente una voce. La sua assenza è stata una lezione. Solo dischi, prodotti con geometrica puntualità, non spiegati, senza commenti e didascalie, solo canzoni, per anni vezzosamente divise in un doppio long playing, uno di classici rivisitati e uno di inediti» (Gino Castaldo, ”la Repubblica” 21/8/2003).