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 2002  marzo 05 Martedì calendario

MISSONI

MISSONI Ottavio Dubrovnik (Croazia) 11 febbraio 1921. Stlilista. Figlio di Teresa Devidovich, contessa di Capocesto e di Ragosniza e dal capitano di mare Vittorio Missoni. Nell’infanzia si trasferisce a Zara, studia a Trieste e Milano. Nello sport emerge nel 1937 a soli 16 anni battendo all’Arena di Milano un primatista mondiale, l’americano Elroy Robinson, recordman delle 880 yard. Vinse la sfida sui 400 piani in 48’’8 contro 48’’9 dell’americano. Due anni dopo sulla stessa pista partecipò a Italia-Germania, match passato alla storia per la sfida tra Rudolf Harbig e Mario Lanzi sugli 800 metri, dalla quale scaturì il mondiale 1’’46’’6. Missoni corse i 400 nella scia di Harbig e Lanzi, primo e secondo entrambi in 46’’7, lui siglò un 47’’8 che equivaleva al nuovo primato europeo juniores. Solo che all’epoca non esisteva ufficialmente questa categoria. Nel ’48 raggiunse la finale olimpica dei 400 ostacoli, sesto. E due anni dopo agli europei di Bruxelles finì quarto. Cominciò come atleta prima della guerra, poi fu prigioniero per quattro anni in Egitto, quindi riprese a fare l’atleta. «Allora fare l’atleta non era certo una professione. Ci davano sette lire al giorno: ci si poteva comprare due pacchetti di sigarette, o portare la ragazza al cinema. Non tutte e due le cose insieme. Ho vinto il campionato mondiale universitario dei quattrocento metri piani a Vienna nel 1939. I giornalisti scrissero che la guerra mi aveva derubato di due medaglie d’oro olimpiche nel 1940 e nel 1944. Nel 1948, invece della medaglia d’oro, a Londra dovetti accontentarmi del sesto posto nella finale dei quattrocento metri ad ostacoli [...] Il clan di mia moglie si fidava poco di me perché loro si alzavano alle sette di mattina per andare a lavorare in fabbrica, mentre io non lavoravo quasi, mi arrangiavo [...] Solo per sopravvivere avevo avviato una magliera a Trieste dopo il matrimonio la portai a Gallarate [...] Un giorno Anna Piaggi, allora caporedattore della rivista di moda ”Arianna”, trovò interessante il nostro lavoro e venne a trovarci. Ci dette così spazio redazionale e fotografie. Da lì andammo al Pitti Moda con il pret-à-porter, però il secondo anno ci hanno cacciato perché avevamo fatto sfilare abiti trasparenti e si vedevano i seni delle modelle. Sei mesi dopo, a Parigi, Yves Saint-Laurent lanciava il nude look [...] Il vero successo lo avemmo a Firenze l’autunno successivo. Abbiamo avuto una standing ovation e, quando siamo tornati in albergo, ci siamo detti per la prima volta ”ce l’abbiamo fatta”. La collezione ebbe successo in tutto il mondo e il ”New York Times” scrisse: ”Missoni è quello che vorrebbe fare Chanel se fosse ancora viva”. Da quel momento in là non abbiamo più avuto il nostro conto in banca in rosso e questo devo dire che è il punto più importante da raggiungere. Quando nel lavoro non hai più una lira di debito, sei un signore. La prima grossa spesa che ricordiamo è stata portare nostra figlia Angela con noi in Giappone per le vacanze di Pasqua» (Alain Elkann, ”Anna” 17/10/1994). «Ho sempre odiato la palestra, preferisco fare le cose in campagna. [...] Io gareggio nei campionati Master, anche se li chiamo Under 85. Nel 2002 sono arrivato quarto nel lancio del peso agli europei di Potsdam, in gara eravamo in 14. E primo a Bergamo agli italiani di nuoto nei 50 dorso. [...] Leggo i necrologi [...] Annoto chi non c’è più, i rivali che scompaiono. E poi mi iscrivo nella gara dove posso andare più avanti. Perché non corro la mia specialità, gli ostacoli? Perché c’è gente che fila come il vento. Gareggio anche nell’alto e nel giavellotto. Ero a Città del Messico nel ’68 dove per la prima volta vidi Fosbury, bravo, ma se non inventavano i materassi quello stile lì se lo sognava. Cadere sulla sabbia, come si faceva ai miei tempi, spezzava la schiena. Da ragazzi il nostro mito era l’americano Osborne, che usava il ventrale. In Messico vidi anche Gentile nel triplo, non ci voleva Pasolini per capire che aveva un volto da tragedia greca. La gente forse non lo sa, ma siamo in tanti a fare i campionati veterani. Vedo più gente da noi che non ragazzi nei campi e nelle palestre. Agli assoluti di nuoto eravamo tremila, 280 iscritti in gara [...] E’ che da noi non c’è mentalità sportiva, né rispetto dell’avversario, si colpisce quando il guardalinee non vede. Ai miei tempi si era duri, ma in maniera più diretta, c’ era un giocatore Sessa, della Triestina, che sui corner andava direttamente sulla testa degli avversari. Dove vuole che imparino oggi i giovani, a scuola? Ma come, se le ore di educazione fisica sono solo due. E più i ragazzi sono scarsi e rachitici, più chiedono l’esonero dalla ginnastica. Una volta la nostra società anche con i circoli, anche con il dopolavoro, riusciva a setacciare talenti, i campioni in qualche modo venivano fuori. Oggi nel basket in C2 ci gioca gente che ha 30 anni, ma i ragazzi dove sono? [...] A Sumirago, dove vivo, c’è una buona squadra di pallavolo femminile. La finanziavo anch’io, un giorno sono venuti a dirmi che dovevano fare la campagna-acquisti, comprare una slava alta 2 metri. Che senso ha? Io volevo che giocassero le ragazze, le adolescenti, le juniores. Mi hanno risposto che bisognava fare spettacolo. Ma se era per quello, ai miei tempi si andava a vedere Wanda Osiris. Lo sport voleva dire la boxe di Cerdan, dell’ingenuo e sprovveduto Carnera, di Locatelli che era figlio di un pasticciere, dei ring che c’erano a Zara, dove il macellaio arrivava ancora con il grembiule. Non è per fare il nostalgico. Io lo sport lo guardo tutto e quando molti anni fa sono venuti i ladri e mi hanno sequestrato, l’unico rimpianto è stato non poter vedere fino alla fine l’incontro di Coppa Davis tra Edberg e Becker. Ma ora alla domenica in tv mi sfiniscono con programmi sul calcio che durano tre ore dove non c’è un ospite qualificato a parlare. Ma perché? L’unica cosa che mi piace vedere è la faccia di Lippi quando perde [...] La guerra mi ha sottratto dei giochi olimpici. Ma non solo a me, a tutta una generazione. Ho fatto anche quattro anni di prigionia. Ero giovane, ero in forma, sarei arrivato sicuramente in finale. Ma non mi lamento, finita la guerra, l’unica cosa che importava era esistere ancora. E quando ho ripreso, da ottobre a marzo andavo in letargo, non c’era preparazione invernale, non c’erano le diete, e nemmeno i pesi. Al massimo correvamo qualche campestre. E non c’era la medicina sportiva di oggi. Felice Borel II, ”farfallino”, che è stato mio testimone di nozze, ha smesso di essere grande dopo due menischi. E’ grazie allo sport che ho conosciuto mia moglie, Rosita. Ai giochi di Londra del 1948. Lei aveva 17 anni, era a Londra in collegio a studiare l’inglese, venne allo stadio, era seduta proprio sopra il tunnel dal quale escono gli atleti. Tutte le sue amiche si voltarono a guardarmi. Ero alto, magro da far spavento, era le prima Olimpiade dopo la guerra, avevo il numero 331. Restò impressionata da quanto sputavo. Credeva fossi più giovane, invece avevo 27 anni. La domenica dopo andammo insieme in gita a Brighton. Quello che ricordo però non è soltanto il mio sesto posto nei 400 ostacoli, ma il fatto che in batteria nella staffetta 4x400 eliminammo gli inglesi a casa loro. Peccato che poi il nostro Rocca, in prima frazione, si strappò e non facemmo la finale [...] Io mi diverto ancora. Come nel ’41 quando nel decathlon ho gareggiato da solo contro il tempo. Ero da record italiano. Come quando a Torino mi allenavo con la Juve di Foni e Rava e a Trieste con la squadra di Rocco. Adesso viaggio con gli amici, la competizione non mi spaventa. E soprattutto non ho il mito di me stesso. Mi iscrivo dove posso vincere, lo stile è quello che permette l’età. La sforbiciata nell’alto, e nel peso avevo lanciato come si fa nelle bocce, con il braccio avanti, ma mi hanno detto che non era valido. Peccato. Farei anche i mondiali, se non fosse che sono organizzati sempre in posti molti lontani, ma caldi, come l’Australia» (Emanuela Audisio, ”la Repubblica” 28/12/2002).