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 2002  marzo 05 Martedì calendario

MO

MO Ettore Borgomanero (Novara) 1 aprile 1932. Giornalista. Del ”Corriere della Sera” • «Edgardo Bartoli, un famoso reporter con vezzi signorili, lo chiamava ”lo sherpa piemontese”. Lui, per ischerzo, gli portava le valigie. Ne rideva allora, ne ride oggi. Ettore Mo sa bene di avere qualcosa delle leggendarie guide himalayane. Il volto segnato da tartaruga. La dedizione, il coraggio, la forza insospettata di un Tenzing senza il quale Sir Edmund Hillary, il primo conquistatore dell’Everest, non è nulla. [...] non è figlio di ricchi. Non è un uomo né grande né bello, a parte gli occhi, verdi e buoni. Ma come reporter di guerra [...] ha dato lezioni a tutti. Per il ”Corriere della Sera” ha rischiato la pellaccia ovunque vi fosse un putsch, un campo minato, una pulizia etnica, una guerra santa, dall’Iran alla Cecenia. In via Solferino ha visto alba e tramonto di otto direttori [...] Come divenne giornalista uno steward della P&0 Lines? ”Da studente di Lingue a Ca’ Foscari avevo girato mezza Europa, Jersey, Parigi, Amburgo, Svezia, Inghilterra, mantenendomi come sguattero, barista e cameriere. A Londra ho fatto l’infermiere in un ospedale per incurabili. E intanto scribacchiavo, leggevo il ”Corriere’, Vittorio G. Rossi, i grandi viaggiatori, Hemingway e Conrad. Finché mi sono imbarcato su una nave da crociera della P&O Orient Lines. Southampton, Gibilterra, Napoli, Suez, Bombay, Australia, Fiji, Hong Kong, Yokohama, Honolulu, Vancouver, Panama, Jamaica, Le Havre, Londra. Quattro mesi e mezzo di mare [...] Nei porti scendi, ti ubriachi, ma a un certo momento arriva la sirena, Uuh-uuh, e se la perdi sei fottuto. No, direi una scuola di indipendenza. Si impara a non avere più paura di niente. Sbarcavo nelle Filippine, e mi sembrava di veder sbucare Lord Jim. Anni romantici, per me. E alla vigilia di uno di questi viaggi, a Londra, sono andato a trovare Piero Ottone, corrispondente del ”Corriere’ [...] Pensavo fosse un vecchiaccio, invece aveva pochi anni più di me. Gli lascio due raccontini, e il mio itinerario. Al porto di Yokohama mi arriva una lettera. ”Caro Mo, ho letto le sue cose. Lei è persona atta a fare il giornalista’. E mi invita ad andare a trovare, passando per Napoli, il suo amico Giovanni Ansaldo direttore del ”Mattino’. Ansaldo non lo trovai. Ma dopo un secondo giro del mondo, al mio rientro a Le Havre, ebbi una lettera di Alfredo Pieroni, il nuovo corrispondente da Londra. Segnalato da Ottone, fui preso come numero tre, vice del vice. Cinque anni, una paga da fame, senza firmare mai. Ero il milite ignoto. Arrivavano in missione il direttore Alfio Russo, il barone siciliano, e le grandi firme: Max David, Enzo Bettiza lo stilista perfetto, Alberto Cavallari l’intellettuale. Io avevo il sacro terrore”. Poi cinque anni di galera a Roma. ”Dovevo coprire per il ”Corriere’ le ore notturne di Roma e del Sud. Stavo al ”Messaggero’ e copiavo. Cinque anni di fogna. Pensai di lasciare, di tornare sulle navi. Alla fine divenni redattore. L’unica volta che in serata parlai col direttore, Giovanni Spadolini, fu quando il marchese Casati uccise la moglie, il suo amante e poi se stesso. ”Professore’, avvertii, ”il fatto verrà ripreso da tutti con grande evidenza’. ”Ma sa’, rispose, ”queste cose non interessano’. Dovetti insistere. Lui minimizzava, non coglieva. Di Spadolini non ho un ricordo felice [...] amava i giornalisti-professori. ”Al giornalismo bisognerebbe accedere solo per ceto e per casato’, è una celebre frase che fu udito pronunciare. Gli chiesi di poter rientrare a Milano: avrei potuto rendermi utile con la mia conoscenza dell’inglese, anche solo per le didascalie. Lui mi frenò. Per poi esclamare: ”Ora anche Mo vuole fare il giornalista militante!’. Finii cronista agli spettacoli a Milano [...] Ho aspettato il 1979. A 46 anni. Si accorse di me Franco Di Bella. Fu il migliore dei miei direttori, e lo dico da uomo di sinistra. Perché era un ex cronista, conosceva il mestiere a fondo. Io privilegio la cronaca all’opinionismo che dilaga oggi. Narrare con gli occhi è nel mio Dna [...] non contavo niente, non sapevo neanche chi fosse Bruno Tassan Din. La vicenda P2 mi passò sopra la testa. La mia è stata la carriera giornalistica più lenta del dopoguerra [...] Non ricordo neanche perché Di Bella chiamò me: ”Vai in Iran. L’inglese lo parli, no?’. Sono andato a Istanbul, poi in treno a Erzurum, Anatolia, e 400 chilometri di taxi fino al confine iraniano. Avevo una paura matta, era zona di banditismo, tenevo i soldi nelle calze. Impiegai due settimane per arrivare a Tabriz. Il primo pezzo lo feci raccontando la marcia di avvicinamento. Descrissi un ragazzino della polizia segreta portato via in mezzo alla strada, tra bastonate, sputi, urla. E i suoi occhi, gli occhi di chi sta per essere ammazzato. Il giorno dopo da Milano arrivò una menzione laudativa.. E nacque Ettore Mo ”war reporter’ [...] Mi agganciai al carro di ”Newsweek’. Seguii Tony Clifton, un reporter di origine australiana. Mi diede tutte le dritte. E fu sempre lui, mesi dopo a Roma, a segnalarmi l’Afghanistan. Avevano appena ucciso l’ambasciatore americano a Kabul. Tony stava partendo. Gli andai dietro. Gli americani ti aiutavano volentieri. Se non eri americano. Perché la concorrenza tra ”Time’ e ”Newsweek’ era feroce [...] Fui il primo italiano a entrare. Da Peshawar, in Pakistan. Dove Tony Clifton mi lasciò un foglio con molti consigli. Ma di andare coi mujaheddin in montagna, mi disse, scordatelo. Invece ci riuscii. Stetti due settimane coi guerriglieri. Poi lo rifeci. Si entrava clandestinamente, sempre a piedi. Per dettare i pezzi ritornavo a Peshawar. In tutto in Afghanistan avrò fatto 15 viaggi. Nell’84, per intervistare Massud, il grande avversario dei talebani, che si diceva fosse stato ferito o ucciso nella valle del Panshir, comprai un cavallo. Facemmo 350 chilometri in 40 giorni. Quando lo raggiunsi stava segnando una carta militare con acini di uva secca e noci. Mi disse: ”Vous êtes le bienvenu’. ”Merci, mon commandant’ [...] A Grozny ho avuto paura di morire, nel gennaio 1995. I russi avevano invaso due mesi prima. Per raggiungere il presidente Dudayev con i ribelli asserragliati nel palazzo ho percorso 300 metri in macchina sotto il fuoco incrociato. [...] A Baghdad, nel 1991, ho capito. La guerra del Golfo è stata la prova generale delle ”Star Wars’. C’era un’unica fonte d’informazione. Non ho visto un solo morto americano. Chiamavo Milano e loro: ”L’ha già dato la Cnn. Trova qualcos’altro’. A Baghdad qualcosa è finito [...]”» (Enrico Arosio, ”L’Espresso” 10/2/1999).