varie, 5 marzo 2002
MONICELLI Mario
MONICELLI Mario Viareggio (Lucca) 16 maggio 1915, Roma 29 novembre 2010 (si lasciò cadere dal balcone della sua stanza, al quinto piano dell´ospedale San Giovanni, reparto Urologia 2, dov’era ricoverato due giorni). Regista. Il suo nome, assieme a quello di Dino Risi, è sinonimo di “commedia all’italiana”. Leone d’Oro per “La grande guerra” (1959), inizia come critico di cinema, per poi dirigere i primi cortometraggi e mediometraggi. I primi veri passi sono a cavallo degli anni ’40 e ’50 assieme a Steno e al grande Totò. Di questi anni sono “Guardie e ladri” e “Totò e le donne”. Il primo capolavoro arriva nel 1958 con “I soliti ignoti” interpretato da Vittorio Gassman, Totò, Renato Salvatori e Claudia Cardinale. La consacrazione definitiva, anche per la critica, avviene l’anno dopo con il film che vincerà a Venezia. Seguono negli anni ’60 titoli come “Risate di gioia” e “L’armata Brancaleone”. Del 1975 è invece l’indimenticabile “Amici miei” con Tognazzi e del 1977 “Un borghese piccolo piccolo” con Sordi. Nel corso di 50 anni, la sua attività cinematografica è incessante. Il suo ultimo film di fiction è “Le rose del deserto” del 2006 • «[...] Nato in una famiglia di intellettuali imparentata con i Mondadori, inventore di un genere cinematografico più personale che italiano, grande regista [...] ha girato oltre cinquanta film, ha raccolto vasti successi, ha avuto nei Cinquanta con la censura persino più guai di Luchino Visconti. Il vero massacro fu per Totò e Carolina, che satireggiava la polizia, il clericalismo, ed esaltava in chiave comica le sezioni comuniste: quaranta tagli circa. Quasi quanti Guardie e ladri, diretto con Steno, protagonisti Totò ladruncolo e Aldo Fabrizi ansimante poliziotto: siccome i due fraternizzavano, al Ministero dello Spettacolo considerarono questa fraternizzazione come una bomba posta sotto le istituzioni, una maniera per minare la società italiana. A Monicelli Totò piaceva moltissimo, per lui ideò il “primo film comico neorealista”, Totò cerca casa. Diretto con Steno: proponendo il tema degli alloggi mancanti, degli sfollati, dei senzatetto, fu il primo film comico a trattare un argomrento reale, di attualità, e da allora questa fusione verità-comicità diventò una tendenza. La commedia italiana degli Anni Cinquanta era un’evoluzione della farsa, gradatamente mutatasi in commedia di costume. I Soliti ignoti era già una commedia di costume su ladri inetti e poveri, comprendeva persino il primo morto d’un film del genere. Per il divertentissimo film divenuto proverbiale, rifatto da Louis Malle negli Stati Uniti, portatore di battute indimenticate (“Ma come ti sei vestito?”. E Il vecchio Capannelle, l’attore Carlo Pisacane in pantaloni da equitazione e stivali: “Sportivo!”), le invenzioni di Monicelli furono tante: l’idea di sfruttare le grandi costruzioni di Visconti per Le notti bianche e quella di affidare a Totò un piccolo ruolo di professore di scasso; le alterazioni alla faccia di Vittorio Gassman, cotone nele narici, spessore sotto il labbro, mascheramento della gobba del naso, parrucca; l’assunzione di Claudia Cardinale che veniva dalla Tunisia; il sardo Tiberio Murgia trasformato in siciliano. Per il film che è forse il capolavoro di Mario Monicelli, La grande guerra con Gassman e Sordi, altre gravi difficoltà: produttore e distributore non potevano accettare che i due protagonisti d’un film che doveva essere comico finissero fucilati, né che la coralità del film (una massa di gente, soprattutto di origine contadina, che per quattro anni combatte una guerra assurda) prevalesse a volte sulle star della risata. In più, toccare Caporetto era ancora un tabù e la grande guerra “era avvolta nella retorica più fastidiosa e sciocca”. Ma, insistendo e lottando, il film venne completato, ebbe un successo clamoroso, è rimasto a rappresentare la guerra dei bisnonni, l’improvvisazione dell’esercito, il coraggio e la viltà degli italiani. Così come un altro dei film più belli e popolari di Monicelli, [...] il suo preferito, L’armata Brancaleone» (“Branca, branca, branca/leon, leon, leon”) ha impresso nell’immaginario italiano, colmo di pittura squisita e lussuosa, un Medioevo realistico, popolato da analfabeti, malattie, guerre assurde e tornei grotteschi, squattrinato, straccione, spaccone, impasticciato in un linguaggio incomprensibile. E I compagni con un magnifico Marcello Mastroianni, sulle origini del sindacalismo italiano, sulle prime grandi battaglie operaie alla fine dell’Ottocento, sulla lotta di classe, in un mix di commedia e dramma, rimane l’unico esempio italiano di epica proletaria. Eppure Mario Monicelli non è affatto l’inventore e neppure il capofila della commedia all’italiana. Questa commedia è spesso complice, compiacente, indulgente, accarezza i vizi nazionali mentre ne ride; la durezza severa di Monicelli invece è irriducibile quanto la classicità senza sbavature del suo stile. Monicelli giudica i suoi personaggi, non si limita ad osservarli; ne fa emergere gli errori e i comportamenti disgustosi senza pietà. È cattivo come dev’essere un satirico e mai sentimentale. Sono pochi i suoi film commoventi ma la commozione che suscitano è alta, mai melensa, non ti fa vergognare d’esserti commosso: il mediometraggio Renzo e Luciana in Boccaccio ‘70, scritto anche da Italo Calvino e Giovanni Arpino; il lungometraggio Caro Michele dal romanzo di Natalia Ginzburg; il lungometraggio Un borghese piccolo piccolo con Alberto Sordi, tratto dal libro di Vincenzo Cerami, sulla violenza che serpeggia nelle città e che può trasfornare i cittadini in assassini, sulla possibile ferocia della piccola borghesia quando si tratta dei figli. E Speriamo che sia femmina, omaggio corale ai difetti e alle virtù, ai vizi e alla bontà provvidenziale di quelle donne intelligenti, generose, brave, con le quali è un tale sollievo non dover vivere» (Lietta Tornabuoni, “La Stampa” 1/5/2005). «Nella sua carriera, il sodalizio con Steno fu un miracolo irripetibile. La sua intesa con Totò (sei film) leggendaria. Come sceneggiatore e aiuto regista lo hanno usato i grandi artigiani: Alessandrini, Freda, Soldati, Camerini, Germi e lui, da parte sua, ha lavorato con Suso Cecchi D’Amico, Benvenuti e De Bernardi, Pinelli, Age e Scarpelli, il meglio del meglio come scrittura cinematografica. Insieme con Vittorio De Sica, Monicelli è dunque ‘’uomo-cinema di questo dopoguerra italiano. Paradossalmente più di Rossellini e di Fellini, di Antonioni e di Visconti, considerati (anche da lui) dei miti. Alla fin fine i veri miti, Brancaleone e Ferribotte, Capannelle e i soliti ignoti, i due cialtroni della Grande guerra (Gassman-Busacca e Sordi-Jacovacci), il Totò pataccaro di Guardie e ladri inseguito da un Fabrizi questurino, e tutti gli amici miei, li ha inventati lui. [...]» (Dante Matelli, “L’Espresso” 4/2/1999). «Mi atteggio da freddo, ma lo sono meno di quello che appare. Mi hanno attribuito una fama di cinico e di uomo smitizzante. Non so se sono così, ma mi sono accorto che la cosa pagava. Il personaggio che mi sono messo addosso lo coltivo anche adesso […] Non sono un buon padre e non lo sono mai stato. Sono nato a una scuola familiare in cui i figli devono risolversi le questioni da soli. Dalle questioni più piccole, quando hanno cinque anni, alle più grandi, quando diventano adulti. Il padre e la madre sono, secondo me, solo dei controaltari […] Avrei voluto essere Bunuel. Considero maestri Buster Keaton, René Clair, John Ford, Lubitsch […] Non ci si innamora delle attrici, si perde la libertà, è uno sbaglio clamoroso. L’attore è uno strumento, e non ci si innamora di uno strumento. Il falegname non si innamora di una sedia o il pittore non s’innamora del pennello […] La commedia all’italiana non è stata inventata da noi negli anni Cinquanta! Viene da molto lontano e fa parte della nostra cultura. Gli italiani ridono alla miseria, alla fame, alla morte, alla vecchiaia. È un tratto che meraviglia moltissimo gli altri paesi. […] Il toscano ha un tipo d’umorismo sarcastico, aggressivo, sa deridere gli altri e sa difendersi sempre con delle battute. È un umorismo sgradevole, quello toscano. I film comici erano tutti siciliani, napoletani, romani e veneti […] Dopo il successo di Amici miei tutto si è svolto in Toscana» (Alain Elkann, “La Stampa” 9/1/2000). «“La marcia su Roma l’ho vista passare lungo via Nazionale dal balcone di casa D’Amico. Loro, i grandi, erano giustamente scandalizzati. Io, bambino, sbagliando avvertivo il fascino di quegli uomini vestiti di nero, con il teschio sulla fronte e la scritta ‘me ne frego’; mi parevano eroi che andavano a fare la rivoluzione contro i borghesi come mio padre e i suoi amici”. Ha visto passare molto altro, Mario Monicelli. È stato, racconta, cialtrone e nobile, inaffidabile e sincero, senza mai perdere l’estro e il genio. Se quella di Sordi era la storia di un italiano, la sua è l’Italia. Ogni frammento, un film. Nato una settimana prima della Grande Guerra, ha visto all’opera guardie e ladri, soliti ignoti, armate Brancaleone, marchesi del grillo e borghesi piccoli piccoli; tutti amici suoi. Ha tre figlie da due donne diverse e vive solo, in un monolocale da studente nel rione Monti, l’antica Suburra. “È una casa che piace alle donne”. Non solo la casa. “L’amore non è per sempre. Mi sono innamorato quattro, cinque volte, ho provato anche l’amore filiale, ma le mie figlie le vedo pochissimo. Ho fatto più di 50 film, uno soltanto sulla famiglia”. Si chiamava Parenti serpenti. Non risparmia critiche neppure al gruppo di cui pure fa parte. Monicelli la chiama la “comunità culturalborghese”. Quella che prende il cinema troppo sul serio. “È un segno dello squallore dei tempi sacralizzare il cinema come fosse la bottega di Caravaggio. Il cinema è la settima arte; cioè l’ultima. Non è niente, è una congerie, un accumulo di teatro, musica, fotografia. Almeno un tempo era un’arte popolare. Ora il cinema italiano ha pretese di alta cultura; ma il borgataro va a vedere gli americani. E il cinema che non passa la prova del borgataro non ha futuro”. “Mio padre era un giornalista molto noto, mia madre una contadina. Tommaso Monicelli era stato direttore dell’ Avanti! prima di Mussolini. Erano amici. Papà si schierò con i nazionalisti, le camicie azzurre, e appoggiò il Duce fino al delitto Matteotti. Poi passò all’opposizione. Non poteva più firmare i giornali ma divenne direttore editoriale della Rizzoli, lavorò anche per Mondadori, che era nostro cugino. A casa venivano giornalisti come Missiroli che scrivevano su quotidiani fascisti ma in privato criticavano il regime, economisti come Maraviglia che ogni volta annunciavano che il fascismo sarebbe caduto in pochi mesi a causa degli errori economici e dell’ignoranza di Mussolini. L’uomo in effetti era un vero italiano, capace di coricarsi sui binari per fermare i treni che portavano i soldati verso la Libia e poi di comandare avventure coloniali”. [...] “Ogni volta dovevo imbarcarmi per l’Africa, e non partivo mai. Prima mi avevano mandato a Pinerolo, alla scuola di cavalleria. Poi, quando si accorsero che la cavalleria era stata sostituita dai carri armati, mi mandarono alla scuola carristi. La guerra continuava, e per noi era un tormento. Volevamo assolutamente perdere. Ci sollevavano le rare, piccole vittorie inglesi, di cui leggevamo sull’“Osservatore Romano”; per il resto arrivavano solo notizie di trionfi tedeschi. Quando i nazisti spazzarono via la Jugoslavia ci mandarono a Zagabria. Truppe d’occupazione. Per fortuna serbi e croati, titini e ustascia si disinteressavano degli italiani per combattersi tra loro, al mattino capitava di trovare un cadavere legato a un albero e ferrato come un cavallo. Poi finii a Napoli, da ufficiale, in attesa dell’imbarco. Ma nel Mediterraneo non si passava più, era diventato un lago inglese. Io poi mi ero reso indispensabile al colonnello perché facevo la carogna, giravo la notte a denunciare le reclute che abbandonavano la caserma per andare a dormire in famiglia, ricevevo lettere anonime: ti spareremo nella schiena. Venne prima l’8 settembre. Un fiume di militari che saliva o scendeva, settentrionali e meridionali tornavano a casa, c’erano divise per cento carnevali, da Napoli a Roma impiegai una settimana, gettandomi nei fossi per evitare gli aerei che scendevano a mitragliare. Però Tutti a casa l’ha fatto Comencini, che quelle cose non le aveva viste”. “Del Duce penso tutto il male possibile, ma di una cosa bisogna dargli atto: è stato l’inventore del cinema italiano. Aveva imparato dai sovietici - Eisenstein, Pudovkin - l’importanza della propaganda per immagini. Però il cinema in cui lavoravo da ragazzo non era votato alla propaganda. Si poteva girare quel che si voleva, a patto di evitare omicidi e adulteri. Così le storie di sesso erano ambientate curiosamente in Ungheria. Ci si convinse non so come che le ungheresi fossero tutte zoccole. La nostra Budapest era il quartiere Coppedé, con quelle case neoromaniche che evocano la Mitteleuropa. I nomi si sceglievano sulla guida del telefono. Ma il più bello in cui mi sia imbattuto era il nome del capo partigiano a cui portavo messaggi e manifesti nella Roma occupata: Comunardo Braccialarghe. Nessun collega ha mai inventato un nome così”. “C’era solo il cinema, nell’Italia analfabeta e poverissima del dopoguerra. Eravamo convinti che Hollywood ci avrebbe massacrato, pensavo di chiedere un posto ai cugini Mondadori; invece il miracolo di Roma città aperta fece del cinema italiano un’industria fiorentissima, con un solo nemico, la censura. Non sono affatto grato a Togliatti per l’amnistia, così come non mi scandalizza che dopo la guerra sia stato tolto di mezzo qualche fascista; la verità è che l’epurazione non ci fu, i funzionari rimasero gli stessi. Si segnalava per zelo un fascista arrivato in barchetta da Malta ad annunciare: ‘Duce, vi porto la mia isola’. Al Duce queste pagliacciate piacevano, così l’aveva fatto capo della censura. Nei film non si poteva parlare male della polizia, e neppure mettere una guardia e un ladro sullo stesso piano. Vedo che la cattiva abitudine della censura ritorna nell’Italia di oggi, e questo non mi piace”. [...] L’America lui non la ama, “le sono grato per aver contribuito a liberarci, ma la sento distante per ragioni di gusto, che sono stupide, sono le peggiori, però ci sono”. Dei colleghi di oggi ha stima, però qualche difettuccio lo trova pure a loro. “Mi piace Ozpetek, ma ogni suo film assomiglia al precedente: alla fine si scopre che sono tutti froci. Giordana ha fatto un buon lavoro sul ‘68, però di superficie, un po’ piatto, come un fumetto. Moretti ha una sua cifra, con un difetto: è troppo antipatico, fisicamente. Il contrario di Benigni, che era naturalmente simpatico prima dell’incontro con il clero, con la moglie, con i miliardi. Anche questa è corruzione. E poi ha commesso un errore fatale: disturbare Pinocchio. Pinocchio ha punito tutti quelli che c’hanno provato, musicisti, scrittori, produttori; con Pinocchio ha fallito persino Disney, non ci si poteva attendere di più da Benigni. Virzì e Muccino erano partiti bene, ma un regista non deve politicizzarsi troppo; se ha una posizione politica salda, ancestrale, fin dalla giovinezza, verrà fuori senza bisogno di forzature, senza film a tesi. Sono solidale con la Guzzanti, però il comico deve badare a far ridere, non deve temere che non si capisca cos’ha dentro. Soprattutto, non deve essere troppo intelligente. Nella Grande Guerra, Gassman è dominato da Sordi. Perché Gassman è l’attore shakespeariano che nell’occasione fa la parte del cialtrone milanese. Sordi non fa una parte, Sordi è il cialtrone romano. Non suscita tenerezza, è repellente, prevaricatore, bugiardo; l’italiano perfetto”. Ecco le regole della commedia all’italiana, “le stesse dai tempi di Boccaccio, Ruzante, Machiavelli; le stesse del mio primo vero film, Totò cerca casa; le stesse del più grande di tutti, Pietro Germi, dimenticato anche perché non era di sinistra come noi bensì socialdemocratico, devoto a Tanassi, non ho mai capito perché. L’argomento è drammatico, trattato con umorismo. Il fine non è lieto. Il fondo è sempre amaro, pungente, a volte atroce; la commedia dell’arte nasce dalla fame e dalla morte, costringe ad arrangiarsi e a sopraffarsi; e da lì scaturisce il divertimento, è quella la vera catarsi. Ridere della fame e della morte, e lasciare gli stranieri a chiedersi, come sempre senza risposta: ma come fanno?”» (Aldo Cazzullo, “Corriere della Sera” 24/12/2003). «[...] Nel 1934, a diciannove anni, presentò al Festival di Venezia un film semiamatoriale girato col cugino Alberto Mondadori, che gli fruttò come premio l’ingaggio come aiuto dell’aiuto dell’aiuto in un film vero, quello che il regista boemo Gustav Machaty, trionfatore di quello stesso Festival con Estasi e le nudità di Hedy Kiesler poi Hedy Lamarr, avrebbe girato l’anno dopo a Cinecittà. Su quel set il giovane Mario fu molto colpito dalla personalità di Machaty, un creatore e un despota, che per esempio quando gli mancava l’ispirazione esigeva il buio e il silenzio totale nel teatro di posa: tutti, interpreti e maestranze, dovevano trattenere il respiro anche per molti minuti, finché il Maestro non si riscuoteva e tornava all’azione. Subito dopo quella esperienza Monicelli trovò lavoro in un altro film, questa volta nell’Africa italiana, dove Augusto Genina girava Lo squadrone bianco. Genina era un romano pacioso e conciliante: addirittura con raccapriccio Monicelli notò che non soltanto non impartiva disposizioni precise all’operatore, ma addirittura ne sollecitava i consigli, in base ai quali talvolta modificava le proprie decisioni. Ricordando la sprezzante sicurezza di Machaty, Mario disprezzò Genina per questa mancanza di personalità. Quando però i due film uscirono quasi contemporaneamente ebbe la rivelazione: Ballerine di Machaty era un disastro, e fu addirittura sbeffeggiato dai pochi spettatori; Lo squadrone bianco era, e sarebbe rimasto, uno dei non molti film italiani memorabili tra le guerre. Imparai la lezione, dice Monicelli, che quando diventò regista a sua volta non solo evitò gli atteggiamenti dell’artista dispotico e pieno di sé, ma stabilì sempre un clima cordiale con gli attori e con la troupe, badando non a imporsi ma a convincerli a collaborare. Qui la sua arma fu, come è noto, l’ironia. “La Loren crede al proprio mito, adesso si prende sul serio” [...] scrisse una volta da New York dove girava un film con lei. “Per farle fare certe cose devo dirle che la Vitti, con me, le faceva”. L’ironia è l’arma vincente in molte situazioni, tutti hanno paura del ridicolo, e Monicelli regista la insegnò per primo, per esempio, a Gassman, che fino a una certa data aveva creduto di essere solo un attore tragico e quindi si era dato il tono che riteneva adeguato. Ma l’ironia è ancora di più, anzi, è molto di più: è il grande antidoto contro la retorica, male del secolo passato, ovvero strumento di oscurantismo - di retorica si è ammantato tutto il peggio, Hitler, Mussolini, Stalin, Mao, ne hanno fatto l’uso deleterio che sapete; per perdonare un D’Annunzio è di moda oggi dire che forse non faceva sul serio. Con l’ironia si sono difesi tutti i sommi, Kafka, Joyce, Picasso, Saul Bellow, Achille Campanile, fate voi. E sotto questo segno prezioso, anzi indispensabile, ha attraversato la maggior parte del medesimo secolo, per nostra fortuna sopravvivendogli, anche Mario Monicelli, regista senza frusta e senza stivali, il cui cinema ha sempre celebrato i perdenti, ha sempre messo in discussione i trionfalismi, ha sempre reso le tragedie un pochino più sopportabili» (Masolino D’Amico, “La Stampa” 1/5/2005).