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 2002  marzo 05 Martedì calendario

Montanelli Indro

• (Cilindro) Fucecchio 22 aprile 1909, Milano 22 luglio 2001. Giornalista. Scrittore. Storico. «Figlio del signor preside Sestilio, è uno studente che si fa mandare a ottobre in tutte le materie. Ma poi rimedia, e sbriga alla svelta l’università. Comincia a scrivere presto, ma combina con altrettanta rapidità molti guai. Non gli danno la tessera dell’Ordine e allora se ne va in giro per il mondo a imparare meglio il mestiere. Un famoso collega americano gli insegna: ”Devi farti leggere anche dal lattaio dell’Ohio”, e Indro la lezione la capisce benissimo: non si dedica alla corte, non è un menestrello del principe, ma si offre alla gente. ”Io col lettore” confessava ”ci vado a letto ogni sera”. E ne ha fatto il suo vero padrone: la sua forza, lo sapeva, veniva tutta da lì. ”Se non hai seguito” sosteneva ”non sarai mai un grande giornalista”. Gli piaceva anche il ruolo del divulgatore; e i suoi libri di storia sono un esempio di chiarezza, di straordinaria capacità di narrare. Non aveva l’orgoglio di certi intellettuali, anche se nel suo mestiere era un maestro. [...] Dicevano: ”è un conservatore”, ma non di beni. Forse di abitudini, di modi di vivere, di comportamenti umani che ormai vanno scomparendo. [...] Montanelli è sempre stato in sintonia col pubblico di cui intuiva le reazioni, e prevedeva gli orientamenti. Era l’istinto che lo guidava, non la piaggeria, perché non cercava di accontentarlo in tutti i modi. Affermava: ”Contano le truppe che si hanno dietro, non i galloni”, ma nell’arruolamento faceva le sue scelte. Diceva perfidamente Longanesi: ”Montanelli è uno che spiega agli altri le cose che non capisce”, e poteva anche darsi ma non inneggiava mai a quelle a cui credeva. Sull’Unità, una volta, Maurizio Ferrara lo definì: ”Un ovvio di genio”, ma Indro si difendeva: ”Chi si rifà al senso comune appare spesso banale, ma in qualche momento un discorso equilibrato diventa quasi coraggioso”. Prendeva sempre le distanze. Stava al ”Corriere”, e diceva: ”Non mi considero un servitore di casa Crespi. I miei rapporti sono regolati da un direttore, non da una famiglia”. Non lo amavano, soprattutto per una ragione: troppo bravo. Appoggiava i repubblicani, ma precisava: ”Gli do il voto, non l’anima”. Combatteva i comunisti, ma diceva: ”Li rispetto, non sono mai volgari come i missini. Mi disapprovano anche duramente, ma mai sul piano personale”. Quando criticavano i suoi atteggiamenti da flagellatore, gli eccessi di ardore, si giustificava: ”Ma che debbo fare? Dire che tutto va bene? Appartengo a un sistema, e ritengo doveroso disapprovare quello che mi sembra sbagliato. Commetto anche errori di valutazione, ma chi l’imbrocca sempre?”. Scrisse che il poeta Auden era considerato stravagante, per essere precisi, era alquanto ”diverso”. Auden, con perfetto stile britannico, lo pregò di accettare un invito a colazione, e gli presentò la moglie. Montanelli spiegò il suo errore e il suo giudizio avventato in un elzeviro. Aveva raccontato alcuni esempi di pavidità di Mario Missiroli, che poi diventò suo direttore: e gli offrì subito le dimissioni. Con Alfio Russo aveva litigato con asprezza, ma quando lo seppe infermo andò a trovarlo, e si abbracciarono. I suoi ravvedimenti, o le folgorazioni, non gli hanno mai fruttato un posto né facilitato la carriera» (Enzo Biagi, ”Corriere della Sera” 12/11/2003). «Lo stile, l’immediatezza che conquistava subito anche chi non l’aveva conosciuto. Quando nell’ottobre 1935 scoppiò la guerra d’Etiopia, chiese di partire volontario come ufficiale delle truppe indigene. Nelle pause del continuo girovagare con il XX Battaglione eritreo scriveva pagine di diario che mandava al padre Sestilio, uomo di grande valore. Questi fece leggere la prosa del figlio all’amico Bontempelli, il quale ne parlò all’editore Mazzocchi. Nacque così il libro XX Battaglione eritreo senza che l’autore ne sapesse niente. Una copia capitò nelle mani di Ugo Ojetti, pontefice massimo delle lettere, che sentenziò sul ”Corriere”: ”Questo Montanelli ha il passo di un Kipling”. Poi venne la guerra di Spagna, durante la quale Montanelli passò come ”denigratore del regime” e fu espulso dall’albo dei giornalisti per aver scritto sul ”Messaggero” una semplice verità: che la conquista di Santander non era stato il trionfo strategico magnificato dal regime fascista, ma soltanto una ”passeggiata militare” in cui l’unica difficoltà era rappresentata dal caldo. Fu così che Montanelli da inviato divenne ”vigilato speciale”. Ma il tollerante Aldo Borrelli, il direttore del ”Corriere” che amava via Solferino più del regime, gli aveva messo gli occhi addosso e resistendo alle critiche del Minculpop lo fece lavorare. La buona stella portò Montanelli in Finlandia, come addetto culturale dell’ambasciata di Helsinki. Ebbe così la fortuna di raccontare la tragedia di quel popolo aggredito. [...] l’articolo in cui descrisse la capitolazione: ”Curva la testa, con le guance rigate dalle lacrime, questi finnici che non vedemmo piangere il primo giorno di guerra ascoltavano sull’attenti l’inno della Patria mutilata”. Un testo d’antologia, studiato anche nelle scuole di giornalismo d’America. C’è da dire di più del Montanelli inviato? Dei suoi reportage in Ungheria o degli incontri con i protagonisti del Novecento, della sua capacità di essere sempre controcorrente, al ”Corriere”, al ”Giornale”, alla ”Voce” [...] dopo l’otto settembre 1943, fu arrestato e condannato a morte. A nulla valsero le suppliche della madre Maddalena presso la moglie del generale Graziani. Per salvarlo fu necessario l’intervento del commissario Ugo. Poi la fuga in Svizzera dove era guardato con sospetto negli ambienti dell’antifascismo: credevano che fosse una spia e lui ne soffrì moltissimo. Così come soffrì subito dopo la Liberazione durante la direzione di Mario Borsa, un galantuomo ma forse influenzato nel giudizio su Indro da quelle dicerie totalmente false. Per un paio d’anni Montanelli fu costretto in un ruolo marginale, non gli venne affidato nessun servizio di rilievo» (Gaetano Afeltra, ”Corriere della Sera” 22/7/2003). «Bisnonno della Patria. Eroe dell’Africa Orientale italiana. Marito di Faccetta nera. Decano del giornalismo, berlusconiano fino al 1994. Scrittore italiano. [...] Deve parte del suo successo alla formazione longanesiana, avendo ricevuto i primi rudimenti del mestiere per viva voce dal fondatore di ”Omnibus” e del ”Borghese”, Leo Longanesi, da lui superato in altezza. Ha vissuto e oltrepassato da fascista la caduta del fascismo, da antifascista la crisi dell’antifascismo, da conservatore liberale il terrorismo rosso, da anticomunista il crollo del comunismo, da democristiano la fine della Dc, da antidemocristiano la crisi della Prima repubblica, da sinistra la vittoria della destra nel ”94, e da agnostico la vittoria della sinistra nel ”96. Fondatore del ”Giornale” e della ”Voce”, archivio storico vivente, ultimo testimone diretto della versatilità di Berto Ricci, fascista di sinistra, o della freddezza di Fabian von Schlabrendorff, quello che cospirò contro Hitler considerandolo ”un imbianchino democratico”» (Pietrangelo Buttafuoco, ”Dizionario degli illustri e dei meschini”, 24/10/1998). «Sono cresciuto in una fattoria tedesca dove c’era una biblioteca confusa e dove trovai un po’ di tutto. Quando portavo ancora i pantaloni corti, lessi Salgari e poi Verne. Mi appassionavano i romanzi d’avventura […] Quando si attenuò il gusto dell’avventura per lasciare spazio all’avventura intellettuale lessi Balzac, lettura fondamentale […] Tra i giornalisti ero un lettore appassionato di Barzini senior. Poi scoprii la scuola americana. La letteratura e il giornalismo americani mi insegnarono moltissimo. La demarcazione è meno netta che in Italia. Penso ai romanzi americani di Truman Capote, Hemingway, Dos Passos, Steinbeck, come grandi reportages […] Ho imparato la storia d’Italia leggendo storici stranieri. La storia di Roma me l’ha insegnata Mommsen, quella del Medioevo Gregorovius. Anche il Risorgimento lo studiai su testi inglesi. Gli inglesi raccontano in modo diverso da noi. Da noi non si racconta la storia, si cerca una carica universitaria. Gli storici si parlano tra loro» (Alain Elkann, ”Capital” maggio 1997).