Varie, 5 marzo 2002
MORATTI
MORATTI Massimo Boscochiesanuova (Verona) 16 maggio 1945. Padrone e presidente dell’Inter dal 1995 (dal 2004 al 2006 cedette la presidenza a Giacinto Facchetti) l’ha condotta a cinque scudetti (2006, 2007, 2008, 2009, 2010, il primo a tavolino), una Champions League (2010), una Coppa Uefa (1998), tre coppe Italia (2005, 2006, 2010), tre supercoppe italiane (2005, 2006, 2008) • «[...] Con quell’aria da professore di storia e filosofia [...] piace anche agli avversari, forse per le stupende contraddizioni. un petroliere con moglie ambientalista. un italiano ricco e famoso che mantiene il numero sull’elenco del telefono (così la domenica sera lo chiamano da Bari o Bressanone per discutere di un rigore non dato). Soprattutto, è un personaggio diverso dai soliti che popolano il mondo del calcio: quelli che compaiono davanti alle telecamere con gli occhi astuti, roteando dichiarazioni come scimitarre. Moratti, anche quando s’arrabbia, tira di fioretto. abbastanza sorprendente - pensandoci - che non gli abbiamo ancora tagliato la testa. [...] Certe espressioni del Massimo Benefattore allo stadio sono roba da Actors’ Studio. I suoi entusiasmi sono commoventi, che non vuol dire ridicoli [...] Come ogni giocatore d’azzardo è convinto che la supervincita lo ripagherà di tutto, e non vuol mollare. Alla fine degli anni Novanta ha digerito la supremazia della Juventus, sulla quale una sentenza ha gettato qualche sospetto (prontamente rimosso da tutti, juventini e non: disturba le nostre fantasie). Quel pomeriggio di maggio del 2002 avrebbe stordito un bue: ma Moratti, come Ercolino, è tornato in in piedi. Tutti dicono che Moggi è un duro; ma il vero duro - se ci pensate - è l’uomo di via Durini, che s’è dimostrato un fenomenale incassatore. [...] ”Grace under fire”, la chiamano gli inglesi: stile anche quando ti sparano addosso. Nel mondo fintamente macho del pallone questo atteggiamento è un ulteriore motivo di sarcasmo. Ogni protagonista dello zoo calcistico italiano - bufali e iene, faine e serpentelli, vecchi cammelli e giovani puma alla prima stagione da dirigenti - ha la sua storiella preferita su Moratti, e ama raccontarla in giro. Quella dozzina di volte che il presidente ha perdonato Recoba, l’altra volta che non ha preso Kakà, il giorno in cui non ha accettato le condizioni di Capello, la notte che ha lasciato andare Roberto Carlos. [...]» (Beppe Severgnini, ”Corriere della Sera” 15/2/2005) • «Fratello, ma anche cognato. Sì è vero, anche figlio. Figlio di Angelo, mitico e vincente presidente dell’Inter. Sulle orme del padre e con i soldi del fratello e dell’amico Tronchetti Provera (che gli ha comprato Ronaldo e fatto vedere dal vivo Afef) ha acquistato l’Inter di cui è tifosissima la sorella Bedi (ma non la moglie Milly, che tiene per gli odiati cugini rossoneri). Da allora è affetto dalla sindrome di Toto Cotugno. Come l’illustre Toto al Festival di Sanremo, arriva sempre secondo. Secondo con la candidatura di Milano Olimpica (battuto da Francesco Rutelli, e sappiamo come è andata a finire), secondo con la candidatura a sindaco. Sembrava perfetto per fare il primo cittadino di Milano corteggiato com’era a sinistra e poi anche a destra (visto che la cognata Letizia aveva rifiutato). Poi s’è ritirato. L’ultimo secondo posto è quello in campionato con l’Inter, l’anno scorso. Stufo, ha cominciato una battaglia di moralizzazione nel calcio. Riforme arbitrali, dimissioni per doping e terremoti giudiziari. E il simbolo del rinnovamento è lui, Massimo Moratti. Ora lo candidano a presidente del Coni. In pratica è come Mariotto Segni» (Pietrangelo Buttafuoco, ”Dizionario dei nuovi italiani illustri e meschini” 24/10/1998) • «Titolo sulla ”Repubblica”: ”Bin Laden ora vale 50 miliardi”. Se lo sa Moratti, compra subito”» (Mattia Feltri, ”Il Foglio” 22/11/2001) •å «Quando decise, estenuato, consunto dalle sconfitte come un eremita dal digiuno, di comprare Ronaldo dal Barcellona alla bella cifra di cinquantuno miliardi (era il 1997), sua moglie Milly fece una faccia strana e gli disse: ”Ma aiutiamo piuttosto chi soffre...”. Lui, prontissimo, rispose: ”E chi soffre più degli interisti?”. Può sembrare solo una battuta, invece l’episodio definisce la grandiosità tragica del presidente dell’Inter, la sua misteriosa abilità nel prendere solenni decisioni quasi tutte sbagliate, la coerenza suicida con cui riuscirebbe a centrare un palo della luce nel deserto. il Willy Coyote del calcio italiano: i suoi miliardi (ne ha spesi novecento in sette anni, acquistando novanta giocatori per vincere appena una Coppa Uefa) gli ricadono in testa come lo sperone di roccia che si stacca dalla montagna e precipita, appunto, sul povero spelacchiato coyote. Lo scudetto è il suo Beep Beep fuggiasco: c’è da credere, a questo punto, che non lo acciufferà mai. Massimo Nestore Moratti di Valle nasce (benissimo) a Boscochiesanuova, Verona, il 16 maggio 1945. Quando torna da scuola e domanda alla madre Erminia, ex operaia in una fabbrica di bretelle ed ex telefonista alla Stipel, ”è vero che siamo ricchi come mi ha detto un mio compagno?”, la moglie del petroliere Angelo Moratti risponde: ”Sì, di capelli”. Ricchi di miliardi, anche, fatti con olio di gomito e olio combustibile per barche: Angelo ne era rappresentante all’epoca delle balere milanesi del Carrobbio, quando si faceva chiamare Samba ed era un mago della danza. Angelo si chiamava anche il bisnonno di Moratti, che ebbe sette figlie femmine e le fece tutte suore, mentre i quattordici figli maschi li mandò all’Università. Uno di loro, Albino, divenne farmacista con negozio in piazza Fontana, nonchè padre dell’altro Angelo, il presidente di Herrera, Suarez e Corso. Il suo motto: ”Mai sedersi nel presente”. Da cotanto genitore, il presidente di Adani e Materazzi ha succhiato la passione, il collezionismo un po’ matto e anarcoide per gli irregolari del prato (Baggio, Recoba) ma non, al momento, la vocazione al successo sportivo. ”Il nostro destino è soffrire” ripete il martire. Come dargli torto? Massimo Willy Coyote Moratti na avrebbe in teoria vinti quasi due, di scudetti. Il primo andò a schiantarsi contro lo stopper juventino Mark Iuliano e contro l’arbitro Ceccarini, quando il primo atterrò Ronaldo in area e il secondo non vide o non volle vedere. L’altro scudetto è scappato con dolore anche più grande, a maggio, stadio Olimpico. Pure stavolta se lo piglia la Juve. Il tragico harakiri interista si consuma in poco più di un’ora col presidente illividito, accartocciato sulla poltroncina della tribuna, quasi imploso in se stesso. ”I ragazzi avrebbero dovuto dare di più” dirà, dopo essersi rianimato. Chiunque altro avrebbe urlato, pianto, smadonnato, gridato al complotto, non l’uomo capace di ingaggiare ventuno terzini sinistri prima di arrivare a Gresko. Troppo umano, imperfetto, dignitoso. Troppo signore. Troppo predistinato alla tragedia. Troppi consiglieri, troppe vecchie glorie. Troppo politicamente corretto: i suoi avversari sono gente del tipo di Galliani e Moggi, Berlusconi e Giraudo, si pappano scudetti fatti in casa come la pasta (anche perchè è proprio lì, nella pasta, che da sempre hanno le mani), e nel frattempo quel galantuomo di Willy Coyote manda soldi a Gino Strada e alla Comuna Baires, aspetta che guarisca il cuore matto di Kanu, piange stringendo il friabile ginocchio di Ronaldo (’Un figlio, per me”, disse del suo Bruto), inventa ”Inter Campus” per aiutare i bambini che giocano con la palla di pezza in Africa e in Brasile, spedisce in gran segreto un assegno al negozio di via Del Campo, Genova, perchè possa tenersi la storica chitarra di De Andrè messa all’asta su internet, condivide le battaglie ambientaliste della moglie, mica facile per un petroliere, appoggia gli aiuti del fratello Gianmarco a San Patrignano, si schiera con il cardinale Martini a favore degli extracomunitari negli anni del leghismo trionfante, aderisce ad Amnesty International, diventa ”human rights field officer” per le Nazioni Unite in Ruanda e osservatore ”Osce” in Bosnia, vince il premio ”Cuore d’Oro 2000” promosso dall’associazione Forza Bambini (e da Moggi...), è in prima fila nel volontariato milanese. In cambio, solo una coppetta Uefa. Quando decise di ricomprarsi l’Inter il 18 febbraio 1995 (costo, circa settanta miliardi: ne avrebbe spesi di più per Vieri), nessuno in famiglia gli disse bravo. Lui, flemmatico e allampanato, non battè ciglio e si limitò a commentare: ”Dovevo farlo, i Moratti non potevano continuare ad essere lontani dall’Inter. come se il Papa decidesse di non tornare in Vaticano dopo un viaggio all’estero”. Certo non è un pontefice morigerato, semmai un signore seicentesco capace di convocare a palazzo ogni genere d’artista per puro piacere personale. Ma, gratta gratta, è solo un bel sogno, e di quel sogno Massimo Moratti non smette di essere prigioniero. Una decina di allenatori bolliti, compresa l’onta di riuscire a non vincere con Lippi che invece, alla Juve, prima e dopo il passaggio da Moratti ha sfornato scudetti come un distributore automatico di bibite. Moratti è l’album Panini fatto carne, è il collezionista assatanato, l’esteta barocco. Follia visionaria, eroica ostinazione, sfiga assoluta e forse compensatoria delle molte fortune del padre che azzeccò Helenio Herrera, uno dei grandi del Novecento insieme a Kennedy e Papa Giovanni, mentre il figlio si è fidato della sua controfigura argentina, quell’Hector Cuper famoso per arrivare sempre secondo (e, con l’Inter, terzo). Grande amico di Celentano, buon esecutore delle canzoni di Mina, eterno ragazzo degli anni Sessanta che parla sottovoce con ingenua vaghezza, ha un ufficio come una cameretta di tifoso stracolma di foto, coppe, talismani, ricordini. Ragazzi ne ha tanti pure in casa, cinque figli che spesso carica sul ”van” per andare alla pizzeria Santa Lucia e farsi una margherita. ”Sono ricchi, ma sono gente seria e onesta” si dice a Milano dei Moratti, un giudizio non proprio estendibile a tutti i ricchi milanesi nel contempo presidenti di squadre di calcio. E sarà anche vero, come sostiene Roberto Vecchioni, che l’Inter ”è una linea spezzata e un infinito ritorno”, però la coerenza di Moratti nel perseguire il suo crudele destino è quasi sovrannaturale. E lui non può neanche andare da Padre Pio, tifoso nerazzurro, come fece papà Angelo, per sentirsi profetizzare: ”Il Milan vincerà il derby, ma noi lo scudetto”. Questo, il povero Massimo Moratti può al massimo lasciarselo dire da Gigi Di Biagio, ragazzo pio, ma non è proprio la stessa cosa» (Maurizio Crosetti, ”la Repubblica” 9/9/2002).