Varie, 5 marzo 2002
MOREAU Jeanne
MOREAU Jeanne Parigi (Francia) 23 gennaio 1928. Attrice. «“La mia carriera? Io non ho carriera. Il cinema è la mia vita”. […] Jules e Jim rappresenta nella mia vita un momento di felicità, di armonia, di piacere di lavorare e voglia di vivere. La lavorazione sul set fu molto intensa: avevamo pochi soldi per girarlo e io partecipai alla produzione con i miei. Eravamo una troupe agile, solo una ventina di persone, ma ci sentivamo liberi, senza vincoli, vivevamo tutto con leggerezza e al tempo stesso con profondità. Eravamo tutti innamorati e non mancarono i momenti di commozione intensa […] Un giorno dovevamo girare la scena in cui Catherine, il mio personaggio, dice a Jim che non lo ama più. Il tempo era brutto, fuori pioveva e in un primo momento avevamo deciso di rimandare la lavorazione. Poi Truffaut scrisse delle frasi buttate giù su un foglio: me le fece leggere e provai subito una grande l’emozione. Piansi lacrime vere”. Il film, sette anni prima del ‘68, affronta la tematica scabrosa di una donna che ama, riamata, contemporaneamente due uomini: un “privilegio”, fino allora, concesso solo al sesso forte. Lei era consapevole di interpretare un ruolo che rompeva gli schemi, tanto da essere vietato ai minori nei cinema di allora? “Certo, sapevo che il film poteva essere considerato, a quei tempi, moralmente pericoloso. D’altronde, avevo già fatto con Louis Malle Gli amanti, altra pellicola censurata che aveva dato scandalo. Ma ero contenta, perché erano storie che raccontavano la verità. Truffaut, quando ha incontrato il testo di Roché, ha materializzato un’utopia necessaria: raccontare l’amore come l’insieme dei bisogni amorosi e sensuali di una donna […] Nel mio lavoro ho sempre dato tutta me stessa con gener osità, per creare emozioni. Ma poi, le fantasie che possono aver suscitato non le conosco. La mia vita privata è autonoma: ho scritto una canzone, dove dico che, malgrado la gloria, nel proprio letto si è soli» […] La recitazione è concentrazione, intensità, movimento del corpo. Non c’è nulla di premeditato, ma neanche di improvvisato. È un mistero. Faccio l’attrice da 56 anni e ancora non sono ri uscita a trovare una risposta […] Il mio rapporto con Truffaut era ambiguo e difficile da definire. Come tutte le relazioni brevi, fu violento e passionale. Comunque mi sono messa nelle sue mani: lui aveva le idee e io mi proibivo di averne. Di solito non sceglievo mai i film e i personaggi da interpretare: venivo sempre scelta. Ma un giorno ho sentito dire che la maggioranza ha sempre ragione, allora ho deciso di scegliere la minoranza, quindi film marginali […] Adesso coltivo la terra: metto giù i semi, li innaffio e li guardo crescere fino a quando diventano alberi”» (Emilia Costantini, “Corriere della Sera” 30/5/2002). «“Sapevo solo che volevo essere diversa, autre, AUTRE, capito? Non per sfuggire a qualcosa, non per ambizione, nessuna di queste scemenze di oggi. Era che sentivo dentro di me un “drive”, sì, lo dico in inglese, la mia seconda lingua, una forza che mi spingeva, una curiosità insaziabile, una grande lucidità, una disposizione naturale alla marginalità”. E il sogno di fare quello che sua madre non era mai riuscita a fare, sua madre la ballerina frustrata dalla vita di famiglia, che però non si lamentava mai, non discuteva mai con suo padre dei problemi che avevano. Ha imparato a leggere a tre anni, la piccola Jeanne, e non ha smesso mai. Ma “a casa mia leggere era proibito. Non c’erano libri. Ho cominciato con i giornalini per bambine. Poi con qualche libro che mi passava uno zio adorabile che mi trovava speciale e bella. Tutto quello che so sull’amore e sul sesso l’ho imparato sui libri. Ho letto Zola a dieci anni. E quando avevo dieci anni mio zio è morto”. Ha imparato così che “nella vita si è soli, con dei compagni di strada ogni tanto”. L’aiuto le è venuto “da sconosciuti, un amico, un amante”. Quello che è certo è che lei non ha mai conosciuto “il paradiso degli amori infantili”, che ha scoperto presto come “la vita sia un continuo apprendimento difficile e accelerato”. Ha cominciato con fatica, contro l’opposizione paterna, la sua carriera teatrale. La rivelazione è stata una rappresentazione di Antigone di Anouilh in un teatro di Vichy dove vivevano dopo la guerra (“e dove traducevo alle puttane, che erano così carine con me, le lettere dei loro morosi americani”). Poi un avventuroso provino alla Salle Pleyel con una scena di Ifigenia, l’ammissione al Conservatoire con una borsa come uditore, l’incontro con Jean Vilars a Avignone, Gérard Philipe come compagno di scena, gli alberghetti con le cimici, le piccole parti alla Comédie Française, tra cui quella di Joas in Athalie, con il seno (“poco”, precisa) strizzato da una benda per fare di lei un piccolo principe. Poi il cinema. Un po’ di gavetta, quindi il successo con la femme fatale di Ascensore per il patibolo di Louis Malle. “François Truffaut allora era critico cinematografico di Arts. Ci siamo incontrati a Cannes, in un corridoio del vecchio Palais. Mi ha scritto. Lui preparava I quattrocento colpi, e io ci ho fatto una comparsata. Mi ha dato da leggere Jules e Jim, il libro giovanissimo di un vecchio signore, Henry-Pierre Roché. E no, non ho capito subito che io ero Catherine. Leggendo un libro non penso mai che potrei essere io uno dei personaggi, li godo e basta. Semplicemente, mi metto a disposizione, anche adesso, dopo oltre cento film. Chi crede che l’interprete debba assomigliare al personaggio si sbaglia. I personaggi non ti assomigliano. Sei tu attore che vai alla ricerca dello straniero. Gli attori sono speleologi, che si immergono nell’umanità altrui, che si mettono al servizio dell’altro, ed è questa la felicità. Se finisci per assomigliargli, è a posteriori. Si entra in un film come in un continente sconosciuto. E se le cose sono troppo facili vuol dire che non hai avuto abbastanza coraggio di esplorare territori proibiti. Firmare un contratto, fare un film per ritrovare se stessi... che barba”.Con Truffaut, ha scritto Mademoiselle Moreau in un affettuoso pezzo pubblicato quando il regista è morto prematuramente, lei si scambiava dei bellissimi silenzi. “E cioè io parlavo parlavo e lui taceva. Felicemente”. Si rendeva conto che stavate facendo un film che cambiava il modo di guardare il cinema? “So che eravamo felici, che eravamo tutti innamorati, che non avevamo soldi, non avevamo un tecnico del suono e abbiamo dovuto ridoppiare tutto meno la scena della canzone. Così pochi soldi che a un certo punto ho dovuto intervenire io con quelli che avevo messo da parte. Quanto a François no, non mi guidava, ci lasciavamo andare alla spontaneità, alla naturalezza. Improvvisazione? No. Un mistero di concentrazione, dell’intensità che ci dettava la parte. Era una trasposizione perfetta dal romanzo di Roché, ma François era più poetico, Roché più cinico. Il risultato di questo incontro è stato un’utopia necessaria, un inno alla libertà degli slanci emotivi e sensuali che all’epoca ha fatto scandalo”» (Irene Bignardi, “la Repubblica” 30/5/2002).