Varie, 5 marzo 2002
MORUCCI
MORUCCI Valerio Roma 22 luglio 1949. Terrorista. Ex capo delle Brigate Rosse. Componente del commando responsabile della strage di via Fani e del rapimento di Aldo Moro (16 marzo 1978). «Durante i cinquantacinque giorni del sequestro di Aldo Moro, Valerio Morucci e la sua compagna Adriana Faranda sono stati i telefonisti delle Br e i postini delle tante lettere scritte dal presidente dc. Sono stati anche gli unici che hanno tentato sino alla fine di far rinviare l’uccisione dello statista loro prigioniero [...] ”il 29 marzo, durante uno dei periodici appuntamenti per le strade di Roma, fissati ogni due o tre giorni, Moretti ci consegnò la prima lettera per Nicola Rana, che ne conteneva anche una per Eleonora Moro. Da quel momento Adriana Faranda e io diventammo postini quasi a tempo pieno [...] Bisognava nascondere la busta in un luogo vicino all’abitazione o allo studio dell’intermediario che la doveva prelevare. Poi bisognava telefonargli, dare l’indicazione esatta. Con la certezza che il telefono era sotto controllo. Le comunicazioni dovevano essere brevi. Al massimo due o tre minuti [...] Il problema fu che molto presto tutti i loro telefoni furono posti sotto controllo. Per cui, il più delle volte, era la polizia ad arrivare per prima a prendere il messaggio: che spesso faceva sparire o rendeva pubblici con gran ritardo. Adriana ed io davamo molta importanza a quei messaggi, sia perché erano del prigioniero alla famiglia, sia perché, a nostro avviso, rappresentavano lo strumento migliore per sbloccare la vicenda. Abbiamo sempre tentato di tutto per farle arrivare ai destinatari. Dopo averle nascoste rimanevamo in zona per vedere chi arrivava a prendere in consegna il plico. Un comportamento un po’ da matti, assai rischioso [...] Una volta ebbi veramente paura: avevamo lasciato un messaggio dietro l’edicola di piazza Esedra, ma non riuscimmo ad entrare in contatto telefonico con nessun intermediario. Dovemmo aspettare fino alle undici di sera per trovare Fortuna. Rientrando a casa eravamo terrorizzati [...] Sarà stato un caso, ma non siamo mai incappati in un controllo o in un posto di blocco. Ci muovevamo solo con i mezzi pubblici. Dal giorno di via Fani avevamo abbandonato le automobili, troppo pericolose. A dire il vero, Roma ci faceva paura solo di notte [...] La comunicazione: ”L’esecutivo ha deciso, bisogna ucciderlo’, mi venne fatta da Moretti il 4 maggio, durante uno dei nostri abituali incontri per la strada. Eravamo a piazza Barberini, alla fontana all’inizio di via Veneto. Con me, come al solito, c’era Adriana. Quando Moretti ci disse che la storia era chiusa, noi reagimmo duramente. D’altra parte il nostro dissenso sulla gestione del sequestro l’avevamo espresso fin dal momento della decisione di diffondere la lettera di Moro a Cossiga. Camminammo su e giù per le strade attorno a piazza Barberini per quasi due ore, discutendo animatamente. In mezzo ai passanti. Poi, andammo anche all’appuntamento prefissato con Bruno Seghetti e Barbara Balzarani a via Sistina. Per cui il dibattito stradale divenne a cinque [...] negli anni successivi, Bonisoli e Azzolini mi dissero che Moretti non riferì a nessuno il nostro dissenso [...] ha portato le Br in un vicolo cieco: quello di convincersi di dover per forza uccidere il prigioniero. Decisione che all’inizio dell’operazione non era affatto scontata [...] bisognava attivare altri canali di trattativa, per esempio con la Caritas internazionale. [...] bisognava valutare il fatto che l’appello di Kurt Waldheim, segretario delle Nazioni Unite, era già un nostro riconoscimento politico. Che non bisognava avere troppa fretta e paura delle parole della Dc. La verità è che la decisione di uccidere Moro la mattina del 9 maggio è stata presa perché Moretti non riteneva che dalla riunione della direzione Dc potesse venir fuori niente di chiaro e temeva che i discorsi fumosi dei leader democristiani avrebbe intrappolato le Br su un sentiero vischioso ed infinito [...] L’otto maggio ci fu una riunione della direzione della colonna romana. Eravamo: Balzarani, Seghetti, Faranda ed io. Moretti ci convocò nell’appartamento di via Chiabrera, nel quartiere San Paolo, dove fino a qualche settimana prima avevo abitato con Adriana. Guardandoci uno per uno ci disse: ”Bisogna chiudere la storia, bisogna ucciderlo’. Faranda ed io insistemmo ancora, almeno per ottenere un rinvio: facendo notare, appunto, che l’indomani ci sarebbe stata la riunione a Piazza del Gesù. Chiedemmo di aspettare ancora un giorno o due. Moretti fu contrario e con lui gli altri [...] Allora Moretti pose il problema di chi avrebbe sparato: ”Chi lo fa?’. Rimanemmo tutti zitti, gli occhi bassi sul tavolo. Un silenzio abissale per quasi un minuto. Poi, con la sua solita espressione, alzando le sopracciglia e abbassando le palpebre, Moretti disse piano: ”Va bene, lo faccio io’. Era determinato, ma anche palesemente distrutto: dall’idea di dover uccidere a freddo un uomo con cui aveva dialogato per 54 giorni; e anche perché avevamo perso [...] Passammo a discutere di come organizzare del trasporto del cadavere. Moretti voleva che nella Simca verde che doveva aprire la strada alla Renault ci fossero Faranda e Seghetti. Adriana apparve sconvolta. Proposi di andare io al posto della mia compagna. Moretti fu contrariato, sbatté ancora le palpebre, e dopo una breve esitazione acconsentì con un secco ”va bene’ [...] si pensò che sarebbe stato d’effetto depositarlo più o meno a metà strada tra Piazza del Gesù e il palazzo del Pci, alle Botteghe Oscure: i due partiti protagonisti della scelta di non trattare. La mattina dopo avevamo appuntamento a piazza di Monte Savello con la Renault rossa che portava il cadavere. E da lì andammo. Alle 9 trovammo un posto per posteggiare lungo il muro di via Caetani [...] Volevamo che la famiglia Moro arrivasse per prima sul posto. Tentai di trovare qualcuno che non avesse il telefono sotto controllo. Ci provai a lungo senza successo. Poi, da una cabina di piazza dei Cinquecento, telefonai a Tritto. Si mise a piangere. Fu un tormento. Riuscii a controllarmi a stento. Naturalmente la polizia arrivò per prima a via Caetani. Così non riuscimmo a realizzare neanche l’ultimo nostro obiettivo”» (Mario Scialoja, ”L’Espresso” 7/5/1998).