Varie, 5 marzo 2002
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Murolo Roberto
• Napoli 19 gennaio 1912, Napoli 13 marzo 2003. «Uno dei più straordinari interpreti della musica napoletana, un rivoluzionario dai toni dimessi e cortesi che, con un sussurro elegante, ha dimostrato, per la prima volta, che le canzoni napoletane potevano essere cantate senza reboanti espressioni retoriche. Nella sua Napoletana, la summa antologica di dodici dischi considerata il più completo e rigoroso monumento eretto all’arte della canzone partenopea, propone brani in ordine cronologico, a partire dal XIII secolo fino alla modernità, con la stessa sobria semplicità, solo voce e chitarra, valorizzando al massimo la bellezza propria delle melodie dei versi, e creando una suggestione che ha influenzato generazioni di cantanti e cantautori. ”Murolo – dice Arbore – è la memoria storica della canzone italiana da qui all’eternità. Se si vuole capire quale sarà la Bibbia o il Corano della musica partenopea nel 2060 bisogna riferirsi alla sua antologia Napoletana. Ha cantato la Napoli signora, la Napoli capitale” [...] Una volta, quand’era giovane e furoreggiava nei locali di Capri si alzò un signore, invasato, urlandogli ”canterai fino a ottant’anni”. Quel signore non avrebbe mai immaginato che a novant’anni sarebbe stato ancora in grado di incidere un disco [...] Tutto iniziò in modo decisamente imprevedibile. Il suo stile lo affinò lontano dalle radici di casa sua. Era cresciuto nel salotto del padre Ernesto, uno dei maggiori autori della canzone napoletana, partecipando a quell’irripetibile cenacolo di poeti e musicisti. Ma quando si decise a percorrere la via della musica, a metà degli anni Trenta, scelse l’allora proibita ispirazione americana e costituì un quartetto vocale, chiamato Mida dal nome dei quattro protagonisti, ispirato al modello dei Mills Brothers e precedendo di qualche tempo il più celebre Quartetto Cetra. Poi, nel dopoguerra, quando lo stile dei crooner imperava, voltò pagina e applicò quello stesso raffinato understatement ai classici della sua terra. Da allora il successo fu crescente e continuo, interrotto solo da un brutto incidente giudiziario, un’accusa di molestie a un ragazzino, che gli costò una condanna lieve, ma soprattutto il totale e definitivo ostracismo da parte del mondo dello spettacolo, interrotto solo dall’attività discografica e terminato alla fine degli anni Settanta, quando grazie a estimatori come Peppino Di Capri e Renzo Arbore, tornò sulla scene, acclamato come un maestro indiscusso. Gli anni Ottanta sono stati la sua ennesima giovinezza, preludio a una dolce vecchiaia» (Alfredo D’Agnese, ”la Repubblica”, 4/1/2002). «Schivo e timido come la sua musica, era un uomo d’altri tempi, un grande solitario. Pochi solitari, però, sono riusciti a influenzare e a segnare la storia della canzone come lui. Ha vissuto tanto, spesso ricordando, più spesso facendo ricordare, provando nostalgia ma rivestendola di curiosità, freschezza, candore, simpatia. Il gusto di una nostalgia lontana come il pennacchio del Vesuvio che non fuma più. Ecco: Murolo sta alla musica partenopea come il Vesuvio sta al golfo, ma senza retorica, restando a distanza di guardia da ogni folclore. La sua è la Napoli gentile, semplice e cordiale, elegante e affrancata dalla schiavitù colorata della retorica e delle cartoline illustrate. Una voce, una chitarra, niente fronzoli, niente ricamature: naturale e aristocratico, ispirato e colto, semplice e lontano dalle mandolinate ad uso turistico. stato un ricercatore, anzi un attento restauratore dell’antica tradizione napoletana, capace di far rivivere il passato, togliendo la patina del tempo e delle interpretazioni auliche di Caruso e del grande interprete tradizionale della canzone partenopea, Gennaro Pasquariello. Ben lontano, però, dalle degenerazioni scivolose e melodiche dei Gigi D’Alessio e compagnia cantante. stata una grande scuola quella di Murolo. Una lezione che ha marcato per sempre il corso della musica napoletana e non solo: gli effetti sono stati evidenti nella storia dei cantautori (quelli italiani, ma anche i francesi), in quella della bossa nova brasiliana, con il suo gusto morbido, solo voce e chitarra (incarnato da Joao Gilberto, il Murolo del Brasile). Per averne conferma, basta riascoltare quel monumento di archeologia sonora che è la antologia Napoletana. Capolavori immortali, cantati con un filo di voce, da crooner caldo e elegante. [...] La Napoletana, centosessantuno canzoni, dalle villanelle a ’O sole mio, a Scalinatella e Munasterio ’e Santa Chiara, fino a Malafemmena e Luna rossa, è una summa dell’arte del cantar accennando con un filo di voce, rispettando testo e note. ”Il mio napoletano lo capiscono a Venezia e Milano” ha sempre detto, con l’orgoglio di poter rivendicare che il napoletano è una lingua, non un dialetto: ”Mio padre Ernesto, grande poeta, mi ha insegnato a cantare così - ha riconosciuto -: pronunciando tutto con chiarezza e soavità perchè, diceva, spesso le parole sono più importanti della musica. Ho sempre seguito il suo consiglio”. Ma c’è di più. Murolo, figlio del poeta Ernesto e di Lia Cavalli, è cresciuto respirando l’aria fresca e colta della Napoli di un secolo fa, una città che viveva ancora antichi splendori, e l’intensità di un ambiente frequentato da intellettuali e personaggi della cultura e dello spettacolo, da Raffaele Viviani a Libero Bovio, a Roberto Rossellini. E, di quel tempo, della Belle Epoque, l’arte di Murolo ha sempre conservato i modi e la grazia. La sua missione è cominciata nel Dopoguerra, quando i vicoli di Napoli risuonavano dei fiati delle orchestre di jazz americane. Una musica a cui era comunque vicino, visto che i primi passi, negli anni Trenta, li aveva fatti cantando swing assieme a tre amici in un quartetto vocale che avevano chiamati i Mida. Guardacaso, quei quattro avevano in mente un modello d’Oltreoceano, i favolosi Mills Brothers. ”Dopo la guerra mi ritrovai da solo a Napoli - ha raccontato una volta -. Un amico mi chiese se volevo andare a cantare delle canzoni napoletane al Tragara di Capri. Fu un trionfo. Tutte le sere c’era gente che faceva a botte per entrare”. E Murolo diventò Murolo, nell’isola dei Faraglioni e di Totò imperatore di Capri. Anzi, con il principe De Curtis strinse una curiosa amicizia: ”Ci incontravamo sulla spiaggia e chiacchieravamo per ore. Si nascondeva sotto un enorme cappellone di paglia e stava sempre con un cane con cui parlava come fosse una persona”. Quando Roberto incise Malafemmena, cercò di fargliela ascoltare, ma non lo incontrò più. Non ha mai saputo se la sua interpretazione gli fosse piaciuta. Dopo Tragara, il successo fu travolgente, era richiestissimo, venne anche assoldato per alcuni film, come Catene (nel ’49 con Nazzari e la Sanson) che fu bissato l’anno dopo da Tormento. Scalinatella è fra i pezzi più venduti del ’51, Anema e core è il best seller del ’52, ’Na voce, ’na chitarra e ’o poco ’e luna del ’55. Sull’onda della popolarità, finì anche a Sanremo con un suo bellissimo pezzo, Sarrà chi sa. Poi, complice una disavventura giudiziaria (e, per di più, il mondo della musica stava cambiando radicalmente), decise di ritirarsi dietro le quinte. Da allora, scelse di restare protetto dal clamore per tutto il resto della sua vita, sia pure senza abbandonare la musica e concedendo ancora alcuni bagliori: i duetti con Amalia Rodriguez, con il chitarrista brasiliano Baden Powell, l’incontro con Renzo Arbore che produce per lui un album, fino all’ultima, recentissima prova, uscita per il novantesimo compleanno, Ho sognato di cantare, segno inequivocabile di vitalità, di forza, di gioia, di desiderio di vivere» (Marco Molendini, ”Il Messaggero” 15/3/2003).