Varie, 5 marzo 2002
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Nachtwey James
• Syracuse (Stati Uniti) 14 marzo 1948. Fotografo • « considerato il più illustre erede di Robert Capa. Per molti è il migliore fotografo di guerra mai esistito. [...] Nato nel Massachusetts, ha fatto mestieri come il camionista e l’imbianchino. Furono le immagini della guerra in Vietnam a farlo diventare fotoreporter. Ulster, Iraq, Bosnia, Cecenia, Ruanda, Kossovo. Dal 1981 a oggi non ha mancato una guerra. L’unica volta che non si è dovuto mettere in viaggio è stata l’11 settembre. Abita a due isolati dal World Trade Center. Non certo un fanatico. Viene raccontato come un uomo schivo, per nulla cinico, capelli grigi e la pacatezza di un professore. Nel 2001 un documentario dedicato a lui è stato candidato al premio Oscar. Titolo: Reporter di guerra» (M. Ima., ”Corriere della Sera” 12/12/2003). «Negli ultimi venti anni ho documentato molte tra le più grandi tragedie del nostro tempo: guerre, carestie, genocidi. Le mie immagini vorrebbero essere qualcosa di più di una registrazione dei fatti [...] Nelle situazioni che ho fotografato non ho visto l’intervento di Dio. Tutto ciò che abbiamo siamo noi stessi» (’Corriere della Sera” 11/4/2001). «’Per me la forza della fotografia sta nella sua capacità di evocare l’umano. Se la guerra costituisce un tentativo di negare questa umanità, allora la fotografia può essere concepita come l’opposto della guerra e, utilizzata consapevolmente, diventare un antidoto contro la guerra [...] Molti anni fa sentii che ne avevo avuto abbastanza e che non volevo vedere altre tragedie in questo mondo. Ma purtroppo, il mondo continua e la storia continua a produrre tragedie. molto importante che esse siano documentate in modo umano, in maniera convincente... Sento la responsabilità di continuare....”. Parola di James Nachtwey che da decenni percorre il mondo ferito da conflitti e violenza firmando reportage bellissimi - e che hanno ottenuto premi e riconoscimenti come la Robert Capa Golden Medal, il Magazine Photographer of the Year, l’Eugene Smith Memorial Grant in Humanistic Photography - da El Savador, Nicaragua, Guatemala, Libano, Gaza, Indonesia, Thailandia, India. Sri Lanka. Afghanistan, Ruanda, Sud Corea, Somalia, Sudan, Sud Africa, Russia, Bosnia, Cecenia, Kosovo, Romania, Brasile. Con il suo occhio-testimone a consegnarci immagini dure, impietose, spesso al limite della nostra capacità di ”sguardo”, ma che rappresentano un antidoto salutare alla routine abitudinaria dei massacri in diretta tv. [...] Nato a Syracuse (New York) nel 1948 e cresciuto nel Massachussetts, Nachtwey è profondonamente segnato, nella sua scelta di diventare fotografo, dalle immagini della guerra nel Vietnam, in particolare gli storici reportage dal fronte di Donald Mc Cullin e dal Movimento per i diritti civili. Autodidatta, comincia a lavorare nel 1976 come fotografo per i quotidiani nel New Mexico; dal 1980 è a New York dove inizia la sua carriera di fotografo freelance. Il suo primo lavoro è del 1981, quando documento lo sciopero della fame di Bobby Sands e dei suoi compagni militanti dell’Ira e detenuti nel carcere di Maze, nell’Irlanda del Nord. Dal 1984 lavora per ”Time Magazine”, dal 1986 al 2001 fa parte della Magnum, è tra i fondatori dell’Agenzia VII, pubblica per ”Time”, ”National Geographic”, ”Stern” e ”Paris Match”» (’il manifesto” 2/11/2004). «Uno tra i più grandi testimoni contemporanei della sofferenza umana, uno dei più coraggiosi fotogiornalisti del conflitto dove la professionalità e la qualità vanno di pari passo con il rischio. [...] Più volte premiato, più volte ferito, l’ultima volta a Baghdad nel 2003, continua la sua crociata da cavaliere inarrestabile, suscitando lo stupore e l’ammirazione dei più. La sua convinzione di dover rappresentare, sempre e comunque, le efferatezze più insostenibili, libera radicalmente il suo percorso dagli ostacoli dei tentennamenti e dei dubbi, dalla fatica e dalle paure. La qualità del lavoro è all’altezza del coraggio: le sue immagini, controllate dalla ripresa alla stampa con attenzione maniacale, sono perfette; e sono crude, a volte crudissime, ma non eccedono nel compiacimento macabro. Per contro, questo suo strano miscuglio di senso compositivo e di attenzione formale, di rispetto della persona ripresa e di partecipazione emotiva, si traduce in una straordinaria potenza narrativa. Ma lo sguardo è potente perché lui stesso è un personaggio di purezza adamantina. Difficile scalfirlo nelle sue convinzioni, difficile spostarlo dalla sua posizione di un moderno san Giorgio che usa la macchina fotografica come una spada. Un duello con il Male, una sfida contro l’ignoranza. Una volontà ferrea, sempre frustrata e sempre rinnovata, di mostrare la dignità ferita, recidendo la volontà opposta di cancellare le violenze esercitate sulla pelle dell’uomo comune, ridotto a pedina muta sulla scacchiera degli interessi politici ed economici. La sua è una lotta impari contro la morte inferta, contro la censura di chi pensa di scrivere la storia a suo piacimento. Lui lo sa, ma non si ferma. Tutto il suo lavoro, dice, è un archivio a futura memoria della storia con la s minuscola, un controcanto compassionevole alla Storia scritta dai potenti. E sa di dire il vero, perché alcune delle sue immagini rimarranno come icone della sofferenza, sorelle di quella del giovane cristo soldato di Larry Burrows, o dello sguardo muto e perduto della bambina accasciata sui sacchi della fotografia di Robert Capa. E di poche altre. Uomo solitario, Nachtwey [...] ”Per me la forza della fotografia sta nella sua capacità di evocare ciò che è l’umano. Se la guerra costituisce un tentativo di negare quest’umanità, allora la fotografia può essere concepita come il contrario della guerra e, utilizzata consapevolmente, diventare un rimedio assai efficace. [...] Dopo molti anni, non mi sento soddisfatto né ritengo che il mio lavoro sia esaurito. Voglio fotografare il barlume di umanità negli occhi di coloro che sono distrutti e umiliati in ciò che hanno di più intimo e caro. A volte sono le persone stesse che mi chiedono di avvicinarmi e di fotografarli. Certo, in molti casi, è meglio aiutarli davvero che fotografarli. Se mi rendo conto che il mio intervento può evitare una morte cerco di fare il possibile. Se capissi che la mia fotografia può essere usata speculando sull’orrore ripreso, non scatterei e me ne andrei [...] Dai primi lavori quando cercavo di fare una sola immagine simbolica, che riassumesse una situazione, sono passato alla sequenza narrativa. La scelta è un momento delicato: richiede concentrazione e tempo. Ogni sequenza [...] ha una chiave di cui mi rendo conto fin dall’inizio, pur non avendo un criterio prestabilito. l’occhio che sceglie. E, tuttavia, collegare le immagini le une alle altre è un lavoro che può durare giorni e giorni [...] Con ’Time’ ho sempre avuto e mantenuto dei legami stretti, ho stabilito ottimi rapporti con tutto lo staff che ha sempre mostrato integrità e rispetto per il mio lavoro. La nostra collaborazione è sempre all’insegna di una fiducia reciproca, fondata sulla libertà da parte mia di fare e di proporre e da parte loro sulla comprensione del lavoro nell’impaginare la sequenza narrativa. Sono passato nel 1980 a Black Star perché c’era Howard Chapnik che mi ha aiutato sia finanziariamente che moralmente. Chapnik capiva, ed era uno dei pochi, lo spirito del mio reportage. In agenzia poi c’era il sostegno e l’affetto della famiglia. Anche la distribuzione del lavoro è diventata più internazionale, c’era sempre ’Time’ ma c’erano anche le testate di tutto il mondo. Nel 1985 sono entrato in Magnum. La grande tradizione, il mito dell’agenzia, i più grandi fotografi al mondo. Però è diventata troppo grande, troppo diversi i lavori, troppo distanti gli intenti degli uni e degli altri. Infine, alcuni amici cari, con i quali avevo molto in comune, hanno pensato di creare un piccolo gruppo autonomo nel quale il confronto fosse davvero possibile, seduti tutti intorno ad un tavolo solo per parlare di cose che ci interessavano e con lo stesso punto di vista. Così nel 2001 è nata VII, una cooperativa fondata sulla causa comune e sull’amicizia. [...] Il talento è un atteggiamento verso le cose, è un modo di guardare e di sentire, una dote naturale che va sviluppata e accudita. Il fotogiornalista non conosce crisi se ha talento e lo riconosce. La pittura d’altro canto è molto importante, fa capire il potere dell’immagine che apre le porte ai sentimenti e ai pensieri. Gli artisti che preferisco? Goya, Caravaggio, Bruegel” [...]» (Silvana Turzio, ”il manifesto” 24711/2004).