Varie, 5 marzo 2002
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Naipaul Vidiadhar
• Trinidad 17 agosto 1932. Indiano di lingua inglese. Premio Nobel per la letteratura 2001 • «Convinto fin da bambino (anche se in maniera misteriosa) di voler fare lo scrittore, deve la sua notevole vena al padre, un simpaticone indiano di fede induista e ”giornalista autodidatta” e a un racconto che allo sconvolgente realismo unisce una fantasia narrativa straordinaria: Lazarillo de Tormes, il capolavoro spagnolo che nella metà del Cinquecento diede esplosivo inizio al genere cosiddetto picaresco. […] Nato in un’isola al largo della costa del Venezuela, in una colonia britannica dove la memoria dei suoi abitanti era quasi andata persa, riuscì a crearsi una sua identità. Operazione non facile, perché egli dovette far luce in quello che per lui era un duplice ”mondo di tenebre”, quello della sua infanzia in un angolo del Nuovo Mondo e quello della mitica India delle origini. ”L’isola era piccola, copriva una superficie di circa cinquemila chilometri quadrati, e aveva una popolazione multirazziale di mezzo milione di abitanti, suddivisi in mondi separati fra loro. Quando mio padre trovò un lavoro presso il giornale locale ci trasferimmo in città. Distava soltanto una ventina di chilometri, ma fu come andare in un’altra nazione: ci lasciammo per sempre alle spalle il nostro piccolo mondo rurale indiano, il mondo in disgregazione di un’India viva ormai solo nel ricordo. Non vi feci più ritorno, persi i contatti con la lingua e non vidi mai più il Ramlila» (Matteo Collura, ”Corriere della Sera” 1/5/2002). «[...] il più grande scrittore vivente di lingua inglese, il narratore senza compassione (quasi alla sua altezza, forse, soltanto John Banville; su altri versanti, Jonathan Franzen e, per un omaggio al subcontinente indiano, Jhumpa Lahiri), il polemista rabbioso e scorretto, il viaggiatore profetico nell’universo del fanatismo, l’uomo che ha detto: ”Odiare l’oppressione, ma temere gli oppressi”. [...] ha avuto sempre un unico sogno. Per realizzarlo fu necessario andarsene da solo di notte, lasciare la famiglia e lasciare Trinidad. Naipaul aveva diciotto anni, era il 1950. Tredici ore di volo ”nel buio fino a New York” con in mano un sacchetto pieno di banane: ”Avevo portato carta e penna perché mi ero messo in viaggio per diventare uno scrittore e dovevo pur cominciare. Chiesi alla hostess di fare la punta alla matita”. Poi la partenza in nave, da ”un molo, il cui numero mi parla ancora di umiliazione e incertezza”, la scoperta di Londra, la misera pensione di Earls Court, la Borsa di studio a Oxford, il ritorno nella grande e deludente città, le tante pagine corrette e riscritte in una cantina di Paddington. In una lettera dell’11 gennaio 1951 (pubblicata nel volume di corrispondenze familiari Between Father and Son, Tra padre e figlio) chiede alla sorella Kamla di spedire una scatola di tè alla sua ex affittacamere: sarà meno imbarazzante tornare a fare il bagno da lei, all’università non c’è privacy. Memorie indiane dal sottosuolo. [...] quasi tutti i romanzi di Naipaul sono libri sulla morte, come L’enigma dell’arrivo (nel quale Salman Rushdie si lamenta a torto di non aver trovato la parola ”amore”) o sulla paura, come In uno Stato libero e Guerrillas, la cui epigrafe è, da sola, indimenticabile: ”Quando tutti vogliono combattere, non c’è proprio niente per cui combattere”. In Prologo a una autobiografia, una delle due parti di Finding the Centre (pubblicato in Italia con il titolo del secondo testo, I coccodrilli di Yamoussoukro), Naipaul ricorda di aver ricevuto ”un dono supplementare” dal padre, giornalista e aspirante narratore, l’uomo che teneva accanto al letto, a Port of Spain, una fotografia incorniciata di O. Henry. Il dono è la ”paura di estinguersi” che si può combattere, appunto, solo con la ”pratica della vocazione”. ”E fu il panico al pensiero di non riuscire a essere quello dovevo essere, anziché la semplice ambizione, ad accompagnarmi quando nel 1954 andai da Oxford a Londra per cominciare a scrivere. Mio padre era morto l’anno prima. La nostra famiglia era in lutto; avrei dovuto fare qualcosa per i miei, tornare da loro; ma finché non fossi diventato uno scrittore non potevo tornare. Nel corso del mio undicesimo mese a Londra scrissi il mio libro, ne scrissi un altro; cominciai a tornare”. bello cominciare a tornare. [...]» (’Corriere della Sera” 6/12/2004).