Varie, 5 marzo 2002
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Navratilova Martina
• Praga (Repubblica Ceca) 18 ottobre 1956. Ex tennista. In carriera ha vinto (singolare) tre Australian Open (1981, 1983, 1985), due Roland Garros (1982, 1984), nove Wimbledon (1978, 1979, 1982, 1983, 1984, 1985, 1986, 1987, 1990), quattro Us Open (1983, 1984, 1986, 1987). «Martina Subertova è nata a Revnice, vicino a Praga, il 18 ottobre del 1956. Si chiamerà Navratilova a dieci anni, quando la mamma, abbandonata due anni avanti, si risposerà. Nella sua infanzia di tennista, è determinante la nonna Agnes, anche lei separata, anche lei giocatrice, che le regala la prima racchetta. E George Parma, l’unico maestro che, nella dirupata Cecoslovacchia comunista, si trovi gestire ben tre campi coperti. Diventa presto un fenomeno, Martina, favorita anche dalle native inclinazioni che la avvicinano ai giochi dei maschietti più che alle bambole. Nel 1973 gioca il primo Wimbledon, raggiunge il terzo turno: quanto a me, incantato dai suoi gesti divini, non ne manco una partita. Lascia drammaticamente la Cecoslovacchia per gli Stati Uniti, senza avvertire nessuno dei suoi, nel 1975, dopo aver vinto una Fed Cup (la Davis femminile). Diviene persona non grata. Come vince, nel ”78, il primo Wimbledon, i media cecoslovacchi censurano il risultato. La sua vita, negli USA, fatica ad assestarsi, soprattutto sentimentalmente. La tanto agognata visita della famiglia, a Fort Worth, dove Martina vive, termina in un dramma. Alfine consapevole della sua omosessualità, il padrigno la insulta, ”meglio una prostituta” e la mamma la informa che il vero padre, Subert, è finito suicida: ”Uno come te, sedotto dal primo sorriso”. Martina passa, intanto, da sodalizi con la golfista Sandra Haynie, la scrittrice Rita Mae West, la cestista Nancy Lieberman, ad un’unione che produce molto rumore con una ex-miss Texas. Judy Nelson abbandona quel macho di un marito, due figli, e va a vivere con la campionessa. Anche questo legame si scioglie in modo burrascoso dopo un pubblico abbraccio sul Centre Court: il nono Wimbledon vittorioso, per Martina, che batte così il record di Helen Wills, del 1938. Ma stiamo giungendo a quella che, per una donna normale, rappresenterebbe la fine della carriera. Tentato invano il decimo successo nella finale di Wimbledon contro Conchita Martinez nel ”94, Martina si ritira, in un concerto di trombe e timpani, mentre sale alla volta del Madison Square Garden il suo gagliardetto, l’unico che non appartenga a un hockeysta o cestista. E qui inizia la fase che attende tutti i pensionati, anche quelli di lusso. Una quantità di medaglie e di partecipazioni a iniziative benefiche. Lunghe sciate invernali sulle montagne di Aspen, nel Colorado, ove tiene casa. Tre libri gialli prodotti in collaborazione con mediocri pennivendoli. Frequenti apparizioni notturne, durante le quali, disse ad Arancia Sanchez, ”rimorchio ancora benissimo”. Insomma, inganni alla noia. Sinché si ritrova su un campo. Gioca. Batte un paio di promettenti juniores. E le prende la voglia di ricominciare. Ad allenarsi, a seguire una dieta, a porsi dei traguardi. Nelle pubbliche dichiarazioni, nel suo ormai perfetto anglo-americano, ci spiegherà che lo fa per divertirsi, che smetterà prestissimo, rivisti gli amici, dopo qualche bel viaggio. Intanto vince, in doppio e doppio misto, e anche in singolare, beninteso sull’erba, strapperà un set a Daniela Hantuchova, sconvolta ”non capivo dove andava la palla, nessuna oggi sceglie più angoli e tocchi simili. Per fortuna, poi, si è un po’ stancata”. Ma, in doppio, Martina è tanto fresca da trovare addirittura modo di prendersela, oh, elegantemente, con se stessa. ”Il doppio è una specialità anomala” - dirà un amico, il dottore in chiropratica Alfio Caronti. ”C’è poco lavoro aerobico, e molta strategia. Come negli scacchi, le mosse sono consequenziali, Martina gioca una palla per averne un’altra già prevista di ritorno. I riflessi si possono allenare, come si allena la memoria. E’ forse più sorprendente Merlene Ottey in pista a quarant’anni che Martina in campo a quarantasette”. Sceglie una compagna giovanissima, di qualità, e tanto poco avvenente da scoraggiare le malelingue, Martina: la russa Vera Zvonareva. In misto, un indiano di ottima tecnica, e molto motivato, Leander Paes. Con Leander vince il suo cinquantottesimo Slam, (seconda alla Smith-Court) e il ventesimo Wimbledon. (Prima, con la King). E, non appena Paes si ammala, di un presunto tumore al cervello, Martina rifiuta di sostituirlo con altri, allo U.S. Open. ”Ci sono molte cose che vengono prima di un gioco”, dirà» (Gianni Clerici, ”la Repubblica” 24/11/2003). «L’ex cicciottella di Praga, la bambina cresciuta tra i meli della casa fuori città (portatale via dai comunisti e ricomprata da miliardaria americana, forse spinta dalla certezza che gli Stati Uniti non potessero mai diventare il suo autentico focolare), aveva appena giocato il suo ultimo match con una strana sensazione addosso: ”Mi sento come l’ultimo dei Mohicani - diceva -. Della vecchia generazione ormai sono rimasta solo io. Era un gruppo meraviglioso: pensavamo al tennis, ma anche a parlare e a divertirci”. Si arrendeva all’età e alla genia delle bambine-meccaniche, le atlete che in dieci anni si sono evolute dalla Lolita con cervello Martina Hingis alle decatlete ipermuscolate Williams. Lasciava perché era stufa e perché pensava che le battaglie per i diritti umani - degli omosessuali, degli ambientalisti, semplicemente delle donne -, potessero riempirle le giornate come i game, i set e i match. Si era addirittura illusa che la lontananza dal tennis funzionasse come una crema antirughe: ”I miei amici, dopo pochi giorni dal ritiro, già potevano vedermi in faccia la differenza”. Sbagliava. Delle amiche, dei cani (Killer e Istinct, come il titolo di uno dei tre romanzi gialli che ha scritto), del tè delle cinque, della meravigliosa casa di Aspen, delle giornate senza tennis si è rotta le scatole in fretta. Nemmeno a costruirsi un corpo da duecentista, lei che appena sbarcata negli Usa aveva messo su dieci chili solo di hamburger e coca-cola, ci aveva messo così poco. Le era venuta voglia di maternità, avrebbe fatto come Jodie Foster: ”Ho meditato a lungo pensando al mio futuro: sono sola, ricorrerò all’inseminazione artificiale”. Era il giugno ”94. Poi, però, ha avuto troppa paura (o intelligenza) nel tentare riprodurre ciò che non avrebbe mai potuto surrogare il tennis, un bambino. Prima ha ceduto alla tentazione del doppio: ”Torno senza nessuna pretesa di vittoria, torno per mantenermi in forma e per divertirmi”. A casa, quindi, era una noia bestiale. Infine, l’annuncio, a quella del singolare. Difficile credere che una tipa che ha una dependance solo per i trofei e una sezione dell’anima intitolata ai record abbia voglia di arrotondare i numeri. Da qualche parte dell’inconscio, lo sapeva, l’ha sempre saputo. ”Un giorno - raccontava a ”The Times’ qualche tempo fa - mi piacerebbe allenare qualcuno che gioca per i motivi giusti, non perché è stressato dai genitori o frustrato dalla vita […] Qualcuno che corre per il gusto di colpire la palla e che non riesce ad aspettare di colpire la successiva”. Parlava di se stessa, è ovvio» (Gaia Piccardi, ”Corriere della Sera” 15/6/2002). «’Gioco ancora perché mi diverto e per il gusto di vincere qualche partita”. Incorreggibile, eterna, giovanissima Martina, capace a 45 anni di sbancare il torneo di doppio di Madrid (al suo fianco, se a qualcuno interessa, c’era la bielorussa Zvereva) e di soffiare a Billie Jean King il primato di anzianità (ultima vittoria a Birmingham, nel 1989, a 39 anni). Non aveva bisogno di questa ennesima sfida con se stessa, lei che era tornata al tennis nel 2000 dopo sei anni di inattività, per dimostrare che a Praga, quel lontano 18 ottobre 1956, l’aria profumava di qualche strana alchimia perché come lei non nascerà mai più nessun’altra. Dice che per mantenersi in forma gioca regolarmente a hockey su ghiaccio e c’è da crederle: per scivolare così agilmente lungo una giovinezza infinita, da qualche parte avrà pure imparato. Non vinceva dal ”94, anno del ritiro provvisorio. La sensazione deve esserle mancata, se a casa, nel ranch di Aspen, si annoiava, non trovava requie, smaniava dalla voglia di prendere un aereo, scaldarsi a bordo campo, maltrattare avversarie e palline in un paradosso caratteriale che l’accompagna da sempre: la campionessa dal cuore tenero è quella che ha vinto più di tutte nella storia. Ogni tanto apriva un cassetto e sbirciava quel ciuffetto d’erba ingiallito che aveva strappato al prato del centrale di Wimbledon, il suo giardino privato, l’unico luogo dove la valchiria tornava donna nell’inchino verso il royal box e nel piantino sulla spalla della duchessa. Non si è mai rilassata, Martina. Perché seduta, con le mani in mano, non è mai riuscita a stare. Ha vinto più battaglie di un guerriero: per i diritti umani, per l’inserimento degli omosessuali nella società americana, per l’ambiente, per se stessa. Serviva una nuova sfida, l’aveva trovata: ”Sono tornata a giocare perché il tennis mi mancava troppo”. Storie. Era lei che mancava troppo al tennis» (Gaia Piccardi, ”Corriere della Sera” 27/5/2002).