Varie, 5 marzo 2002
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Newton Helmut
• (Helmut Neustaedter) Berlino (Germania) 31 ottobre 1920, Hollywood (Stati Uniti) 24 gennaio 2004. Fotografo • «La prima macchina fotografica se la compra con i suoi risparmi: è una Agfa Box Tengor. il 1932, ha dodici anni, vive a Berlino con la famiglia, si chiama ancora Helmut Neustaedter (il nome lo cambierà in Australia, nel ”46). Ascolta jazz, vorrebbe fare il fotoreporter, e anche se giovanissimo già frequenta i caffè del Kurfuerstendamm. Berlino anni Venti è una città viva, immorale, pericolosa, affascinante. I Neustaedter sono una famiglia ebrea benestante e secolarizzata, abitano in un quartiere residenziale, si sentono al sicuro nonostante la crisi economica e i disordini politici. Il padre Max dirige la fabbrica di fibbie e bottoni di proprietà della moglie Klara, una ricca vedova con un figlio, Hans, avuto dal primo matrimonio. I genitori amano il ballo, escono spesso la sera, passano lunghe vacanze nelle stazioni termali. Helmut vive l’infanzia di un bambino ricco, fra cameriere bambinaie e chauffeur: la mamma lo veste come il Piccolo Lord e lo pettina con un caschetto di capelli a paggio, ma con una frangia alla Louise Brooks. ”Devo ringraziare Hitler” scrive nell’autobiografia (Autobiographie , Bertelsmann; in America uscirà all’inizio del 2003 da Random House) ”se non ci fossero stati i nazisti, io sarei andato a lavorare nella fabbrica di famiglia”. Hitler prende il potere nel ”33, e due anni dopo promulga le leggi di Norimberga sulla discriminazione razziale. I Neustaedter continuano a vivere a Berlino, non credono alle minacce contro gli ebrei. Ma intanto Helmut deve iscriversi alla scuola americana perché il liceo statale non accetta più i Juden; il padre non può più dirigere la sua azienda; il fratellastro Hans, di dieci anni maggiore, emigra in Argentina. Helmut, che pure avverte il pericolo, vive una precoce stagione di amori. Nel ”36 diventa assistente di Else Simon, che con il nome d’arte Yva è la più importante fotografa di moda di Berlino (a lei, uccisa dai nazisti ad Auschwitz, dedicherà un libro-antologia): è allora che il giovane Helmut capisce quello che vuole diventare, cioè un grande fotografo di ”Vogue”. Poi, all’ultimo tuffo, la madre scopre un ufficio della Gestapo dove pagando si ottiene il permesso per l’espatrio. Compra quello per Helmut (destinazione, la Cina) e poi anche quello per lei e il marito (per il Sudamerica). Il 5 dicembre del ”38 Helmut parte in treno per Trieste, da dove s’imbarcherà per l’Estremo Oriente. l’addio a Berlino, è l’inizio di una nuova vita. Sul transatlantico italiano Conte Rosso arriva a Singapore, e qui decide di fermarsi. Prova a lavorare come fotografo, ma in realtà vive mantenuto da una ricca signora. Nel ”40, mentre i nazisti dilagano in Europa e i giapponesi cominciano la loro discesa nel Sudest asiatico, lascia Singapore per l’Australia. All’arrivo finisce in un campo d’internamento per stranieri, da cui uscirà solo due anni dopo, arruolandosi nell’esercito. Nel dopoguerra a Melbourne comincia a lavorare come fotografo, passa da una ragazza all’altra, incontra June Browne, attrice, cattolica: si sposano nel ”48. (E da questo momento, stando almeno all’autobiografia, sarà un marito molto fedele). Finalmente, nel ”56, ”Vogue” Gran Bretagna lo chiama. Accetta subito, e se anche il lavoro a Londra sarà insoddisfacente, quella è la porta per la Francia. E per la celebrità. Oggi è uno dei più famosi e ammirati fotografi. Da circa vent’anni vive a Montecarlo con la moglie. Le sue immagini hanno cambiato definitivamente la fotografia di moda. I suoi servizi per ”Vogue” Francia (dal ”62 alla metà degli anni Ottanta) hanno fatto scuola: il loro contenuto sessuale allarma e inquieta ancora, le scene sado-maso, i nudi, le atmosfere perverse gli procurano la definizione di ”porno-chic”. I suoi libri di fotografia, una trentina, sono dei classici. Certo, scrive, il periodo creativo della fotografia di moda è finito con gli anni Settanta. Prima ”l’art director aveva un potere illimitato. La redazione non aveva niente a che fare con la gente del marketing. Oggi questi signori si chiamano Editori e decidono l’immagine della rivista. I direttori commerciali sono sovrani assoluti. Si tratta solo di far soldi e perciò di far contenti gli inserzionisti. Chi non fa nemmeno una pagina di pubblicità non ha nessuna possibilità di apparire nella parte redazionale. Niente pubblicità, nessun servizio redazionale”. Tra i suoi primissimi ricordi c’è la bambinaia in sottoveste che si trucca allo specchio mentre lui la spia dal suo letto. Ha tre anni o poco più, quella ”è la prima donna che ho visto seminuda davanti allo specchio”. Anche la mamma che gli dà il bacio della buonanotte lo turba non poco per il sottabito di seta color carne, il profumo Chanel, il filo di perle al collo. Ha la sua prima erezione quando una signora lo prende a cavalluccio sul collo e lo fa ballare, ma lo eccita anche una zia in costume da pattinatrice sul ghiaccio. Le immagini erotiche più forti, comunque, le scopre sulle riviste del fratello Hans e che lui si porta di nascosto al gabinetto. Le donne di ”Magazin” erano nude, ”portavano scarpe con i tacchi alti e sottili come si usava allora, avevano calze di seta nera rette solo da lacci di elastico nero, niente giarrettiere, e neppure reggicalze”: è già una profezia delle foto della maturità. Uno zio editore a Lipsia regala al piccolo Helmut volumi illustrati. L’immagine di ”Cleopatra sul Nilo con il serpente” la ricorda ancora. Adagiata sulla sua barca, la regina d’Egitto indossa una gonna trasparente e un corsetto che copre solo in parte il suo ”seno rigoglioso”: ”Mi sembrava assolutamente voluttuosa”. Legge i Grimm, Heinrich Kaestner (Emilio e i detective) e molto presto anche libri da grandi ”come quelli di Arthur Schnitzler e di Stefan Zweig. Erano storie fortemente erotiche ma non pornografiche. Vi si alludeva alle cose in modo che anch’io riuscivo a capire”. Schnitzler e Zweig, dice, hanno influenzato moltissimo il suo modo di costruire immagini. Ma anche Histoire d’O, che legge a Parigi nei primi anni Sessanta: nel ”69 firma su Vogue una serie di servizi di moda con fruste, catene, bende sugli occhi e indumenti di cuoio ”decisamente sado-maso”. Avaro di citazioni per i fotografi (soltanto Brassai, per le sue scene di Parigi di notte), confessa invece molti debiti con il cinema. Ha un debole per Erich von Stroheim e il suo collare rigido (La grande illusione): ”Nel ”78 cominciai una serie di foto di donne con busti ortopedici, collari e ingessature”. Anche Hitchcock lo tenta: negli anni Sessanta realizza una foto con la modella che corre inseguita da un aereo, come James Stewart in Intrigo internazionale. Con gli anni Ottanta ”Vanity Fair” comincia a chiedergli ritratti di personaggi celebri. Dalì nell’86, Kohl nel ”90, la Thatcher nel ”91 (’sembra uno squalo, un ritratto magnifico, lei invece lo trovò orrendo”). Gli capitano anche figure, per lui ebreo, assolutamente detestabili come Kurt Waldheim, presidente austriaco con un passato nazista, o Le Pen (il suo ritratto con i dobermann fu paragonato alla foto ufficiale di Hitler con il cane lupo). E Leni Riefenstahl, ritratta nel 2000. ”Avevo detto in una conferenza che Leni era un’artista notevole, ma purtroppo anche una vecchia nazista. Quando mi ricevette, mi prese le mani e mi disse: Helmut, mi devi promettere che non mi chiamerai più vecchia nazista, altrimenti non ti permetto di fotografarmi”. Dà la sua parola. ”Leni portava dei pantaloni. Sapevo che era sempre stata fiera delle sue gambe, diceva che erano meglio di quelle di Marlene Dietrich. Così le chiesi di mettersi una gonna. Un attimo dopo ricomparve in minigonna”. Sul suo passaporto australiano si legge: nato a Berlino. Alla sua origine berlinese non ha mai voluto rinunciare. A quella città deve moltissimo, la sua formazione, il gusto crudele e lo stile. La sua Berlino, certo, è sempre la città degli Anni ”20-’30, di cui, ogni volta che torna, continua a cercare le tracce: così nel ”79 sceglie di alloggiare nella Pensione Dorian, che durante il Terzo Reich era un bordello per i pezzi grossi del partito, come il celebre Salon Kitty. Gli piacciono le atmosfere torbide, le donne ambigue, certi dettagli perversi. Un po’ come il monocolo che portava una ragazza tutta vestita di nero incontrata nell’atelier di Yva (nasce così l’idea del celebre ritratto di Paloma Picasso col monocolo retto dal lungo nastro nero). Il più bel complimento ricevuto, dice, è quello di un giovane fotografo tedesco che riconosce nelle sue immagini ”un influsso molto tedesco, anzi molto berlinese”» (’Corriere della Sera” 10/12/2002). «Sono stato ventisei anni a Parigi, poi mi sentivo invecchiare e mi sono accorto con il mio contabile che trascorrevo solo cinque mesi all’anno a Parigi, il resto altrove, in Costa Azzurra o in California. Pagavo il 75 per cento di quello che guadagnavo in tasse, e così nel 1981 ho deciso di trasferirmi a Montecarlo […] Il clima è bello, la luce straordinaria anche quando il cielo è grigio. Ho dei binocoli per guardare il mare. Mi piace guardare il mare e mi piace anche guardare nelle finestre dei miei vicini di casa, ma l’ho fatto a lungo e ho scoperto che sono troppo noiosi per cui ho lasciato perdere. Quando sono a Montecarlo vado a letto alle dieci meno un quarto, poi leggo e guardo la televisione almeno fino alle dieci e mezzo, poi dormo, mi sveglio alle sette e mezza, alle nove sono in ufficio […] La spiaggia d’estate è il mio secondo ufficio […] A dodici anni in Germania mi sono comperato una piccola macchina come una scatola di marca Agfa e ho cominciato a fotografare […] Ero molto amico di Brassai, che mi influenzò molto nel mio lavoro. Quando vado a New York vedo Irving Penn […] A Los Angeles sono amico di Sigourney Weaver […] Ero anche amico di Andy Warhol e poi ho fatto il ritratto di Margaret Thatcher di cui vado molto orgoglioso. Oggi è appeso alla National Portrait Gallery di Londra e quando uno entra nella galleria vede la regina ritratta da Andy Warhol e Margaret Thatcher fotografata da me. Mi ha molto impressionato anche il cancellier Kohl che è adorabile e gli ho fatto delle fotografie bellissime […] Il ritratto è una seduzione straordinaria: si fotografano anche persone che non si amano. Io odiavo Le Pen, essendo ebreo, però l’ho fotografato ugualmente […] Ho sempre adorato le macchine fin da ragazzo. Ho avuto macchine bellissime Vorrei avere una Humvee, un enorme veicolo militare americano. Devo dire che adoro i camion. Del resto, guidavo camion nell’esercito» (Alain Elkann, ”La Stampa” 30/11/1997).