Varie, 5 marzo 2002
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Biografia di Amelie Nothomb
NOTHOMB Amélie Kobe (Giappone) 13 agosto 1967. Scrittrice. Belga. «In Francia ha venduto un milione e mezzo di copie dei suoi libri, è ormai apprezzata anche in Italia, dove Voland ha pubblicato otto dei suoi romanzi» (Fabio Gambaro, ”la Repubblica” 4/6/2002). «Esiste in Francia un fenomeno letterario chiamato Amélie Nothomb. Nel giro di qualche anno la giovane scrittrice belga dalla fantasia scatenata e corrosiva si è imposta come uno dei protagonisti indiscussi dell’attuale panorama letterario francese. [...] I suoi libri sono tradotti in ventisette lingue. [...] Un critico francese l’ha definita ”metà Lupo e metà Cappuccetto rosso” [...] Nata in Giappone, dove ha vissuto fino a cinque anni, viaggiando poi al seguito del padre diplomatico in diversi paesi dell’estremo Oriente. L’Europa l’ha scoperta per la prima volta a diciassette anni, quando è giunta a Bruxelles, la città dove ancora oggi risiede: "La conseguenza più importante di tutti questi viaggi e spostamenti", spiega, "è che non ho altre radici al di fuori dei libri. Durante l’infanzia e l’adolescenza ho traslocato ogni tre anni; ogni volta, la casa e gli amici sparivano da un giorno all’altro, mentre i libri della biblioteca di mio padre ci seguivano da un paese all’altro. A poco a poco, sono diventati l’elemento di continuità della mia vita. Nei loro confronti, come nei confronti della lingua, ho sviluppato un attaccamento che ancora oggi è molto forte. In quegli anni ho letto soprattutto i classici, da Diderot (non a caso i miei libri sono spesso fatti di dialoghi) a Stendhal, da Flaubert a Proust, a Radiguet. Ma l’autore che più mi è caro è certamente Nietzsche, perché alla fine dell’adolescenza mi ha letteralmente salvato la vita, facendomi uscire da una fase autodistruttiva molto grave". Cosa le era successo? "L’impatto con l’Europa fu molto negativo. Fino ad allora la vita vagabonda al seguito di mio padre era stata felice; in Europa invece mi sono sentita respinta e isolata, anche perché non avevo nessuna idea di come si comunicasse con i giovani occidentali. I quali per altro non sono assolutamente tolleranti: se non si parla e ci si veste come loro, se non si hanno gli stessi interessi, si è immediatamente emarginati, come è capitato a me. I primi tre anni in Belgio li ho passati in totale solitudine, mi sentivo esclusa, stavo malissimo ed ero diventata anoressica. Fu allora che lessi Nietzsche, la sua lettura mi fece bene e mi spinse a studiare la filologia. Da allora ho una vera e propria passione per il latino e il greco. E in fondo, se oggi scrivo bene in francese, è solo perché conosco molto bene queste due lingue". Fu in quel periodo che cominciò a scrivere? "Sì, ho iniziato a diciassette anni, ma allora non pensavo certo di pubblicare i miei testi. Lo feci solo più tardi, dopo aver tentato di vivere in Giappone, un paese che consideravo come una specie di patria e che invece riscoprii ostile e razzista. L’umiliazione che ho provato in Giappone l’ho raccontata molti anni dopo in Stupeur et tremblements. Tuttavia, da un certo punto di vista, quell’umiliazione fu benefica perché, una volta tornata in Europa, decisi di consacrarmi alla letteratura. All’epoca, avevo già scritto dieci romanzi, che però rimasero nel cassetto. Ne scrissi uno nuovo, L’igiene dell’assassino, che piacque e fu subito pubblicato. Da quel momento è iniziato il mio percorso di scrittrice e la mia vita è cambiata". Perché? "La fine dell’adolescenza, il ritorno in Europa e l’esperienza deludente del Giappone mi avevano molto scosso. Fu un periodo molto difficile; se non fossi diventata scrittrice, non so come sarei finita. Scrivere mi ha fatto bene. Inoltre, il successo dei miei libri è diventato un fattore d’integrazione. Prima, la mia vita era dominata dalla solitudine, oggi invece conosco tanta gente, viaggio, sono integrata nella società". I suoi romanzi però continuano ad essere a tinte fosche, pieni di conflitti, menzogne e passioni distruttive... " vero, la mia visione della realtà è assai negativa e il mio pessimismo è radicale. per questo che i miei romanzi si svolgono sempre in ambienti chiusi e claustrofobici, prigioni dove gli esseri umani vivono e si scontrano. Il tema dei miei libri è sempre lo stesso, vale a dire le relazioni che degenerano in conflitto. Purtroppo non invento niente, visto che nella realtà le cose stanno proprio così. Il che però non esclude dai miei testi una dimensione ironica, perché malgrado tutto sono di natura gioiosa. Il mio umorismo, tuttavia, non è un effetto ricercato, ma una sorta di fatalità narrativa: quando si racconta l’orrore con un minimo di distacco, non si può non finire nell’umorismo. Nell’orrore infatti c’è sempre qualcosa di esilarante, che, se si vuole essere completi, occorre tenere presente. Ciò beninteso non significa sdrammatizzare il negativo del mondo, anche se certo l’umorismo lo rende più accettabile". In Mercurio, lei scrive che i lettori leggono nei libri quello che vogliono. per questo che nei suoi romanzi le descrizioni degli ambienti e dei personaggi sono appena accennate, lasciando largo spazio alla fantasia di chi legge? "Mi piace leggere le descrizioni degli altri romanzieri, ma nei miei romanzi le ritengo superflue, perché ciò che conta sono le relazioni tra i personaggi. La mia più grande ambizione è che il lettore percepisca i luoghi e l’aspetto fisico dei personaggi senza che io li abbia descritti direttamente. Insomma lascio grande liberà ai lettori. In fondo, il successo dei miei libri si spiega anche con il fatto che ogni lettore vi trova ciò che vi cerca o ciò che egli stesso porta nella pagina". Ma qual è allora il contributo specifico dello scrittore? "Lo scrittore dà forma ai conflitti che noi tutti viviamo. La nostra vita infatti è un conflitto continuo con gli altri e con noi stessi, il dramma però è la mancanza di forma e di stile. I miei libri provano a dare forma e stile a questi conflitti, come in una scuola di scherma. Non a caso, i miei romanzi sono fatti dialoghi, di schermaglie verbali, di dispute fatte di parole. anche per questo che spesso mi definisco semplicemente come una "dialoghista"". Nei suoi romanzi c’è spesso un’atmosfera da favola. Come mai questa scelta? "Le favole fanno parte della mia cultura, sia quella dell’Estremo Oriente sia quella della tradizione classica, greca e latina. E poi sono una grande lettrice della Bibbia, e anche questo conta. Le mie favole però non vogliono insegnare una morale, non danno soluzioni, invitano però il lettore a riflettere sul da farsi di fronte ad un problema particolare, ricollegandosi così alla tradizione del racconto filosofico". vero che scrive moltissimo? "In effetti, in questo momento sto scrivendo il mio trentottesimo romanzo, anche se ne ho pubblicati solo nove. In genere ci metto tre mesi a scriverne uno, poi lo lascio riposare per un po’. Quando lo riprendo in mano, decido se pubblicarlo o meno. Il più delle volte però finisce che li tengo nel cassetto. Per me, in fondo, la pubblicazione è quasi un incidente rispetto alla scrittura. Troppi scrittori, invece, soffrono della malattia di pubblicare tutto quello che scrivono. Il che, secondo me, è un grave errore"» (Fabio Gambaro, ”la Repubblica” 13/2/2001). «A fine estate, da dodici anni, celebra il rito del suo nuovo libro. [...] un’icona e insieme un fenomeno letterario e sociale. Il suo primo libro, Hygiène de l’assassin, (Igiene dell’assassino, in italiano nelle edizioni Voland che hanno tradotto tutti gli altri libri di Amélie) è comparso nel 1992 e ha venduto più di mezzo milione di copie; il secondo, Sabotaggio d’amore, 450 mila; Stupeur et tremblements, (Stupori e tremori) nel 1999, ha fatto il pieno: più di un milione di copie e un film (2003) di Alain Corneau interpretato da Sylvie Testud che nelle prime due settimane di programmazione ha avuto 240 mila spettatori. Amélie Nothomb è nata a Kobe, Giappone, nel 1967. Suo padre, erede di una grande e nobile famiglia belga, ambasciatore, l’ha trascinata in giro per il mondo: dopo il Giappone, Cina, Stati Uniti, Laos, Bangladesh. Un’infanzia isolata, racconta lei, a spasso per il mondo eppure letteralmente ”tagliata fuori dal mondo”. Solo a 17 anni Amélie sbarca per la prima volta nella ”sua” città, Bruxelles. Incontra la nonna che la scruta ben bene e poi le dice: ”Spero che tu sia intelligente, perché sei talmente brutta...”. Fino a tre anni di età Amélie non ha detto una parola; poi, l’altra nonna - più compassionevole - le mise in bocca un cioccolatino (bianco) che le ha sciolto la lingua. A scuola, a Tokyo, unica non giapponese, i compagni e le compagne l’hanno spogliata completamente per vedere se ”era bianca dappertutto”. Suo padre, uno dei pochissimi non giapponesi a saper intonare l’antico Canto del No, le imponeva di ascoltarlo: quattro ore nella posizione tradizionale, in ginocchio, appoggiata sui talloni. Dopodiché, tra i tredici e i sedici anni, non ha più mangiato. L’anoressia, un’esperienza speciale: ”Il corpo scompare a poco a poco, trascinandosi dietro l’anima e lo spirito...”. Insomma il vero romanzo di Amélie è la sua vita. Un serbatoio infinito di cicatrici che hanno germogliato nei libri personaggi non comuni, eccessivi, rabbiosi, gravi, voluttuosi, spesso al limite della ragione in cui il corpo e/o la corporeità sono una presenza ossessiva. Corpi che, generalmente, soffrono o [...] si muovono maldestri. Nei libri di Amélie i brutti sono veramente brutti, i grassi troppo grassi, i magri spaventosamente magri: corpi martirizzati, dentro e fuori, che restituiscono le esperienze di questa ex ragazza con la faccia da bambina che ha costruito su questa fenomenologia quasi punk la sua leggenda esistenziale. Per scrivere, racconta, ha bisogno di scuotersi dentro, di innescare una certa tensione: non dormire, non mangiare: ”Più sento la fame e più sento il piacere fisico della scrittura...la scrittura mi ha insegnato a ridare al cibo la sua vera funzione: quella del semplice carburante”. Che cibi? Frutti marci e the, ”nero come l’inferno”. Fu vera letteratura? I critici, naturalmente, sono divisi. Chi dice che si tratta di trash, chi ne parla come di capolavori. L’Académie française ha premiato Stupeur et tremblements. All’origine, come quasi sempre, ci fu un rifiuto. La giovane Amélie aveva inviato il suo primo manoscritto a Gallimard, dove l’editor Philippe Sollers glielo restituì a giro di posta. Alla maison Albin Michel invece l’hanno tenuto e pubblicato dando il via al fenomeno letterario Nothomb. Le Monde le ha dedicato un’inchiesta-ritratto piuttosto accurata. ”Ci sono i cliché - ha scritto la critica Raphaelle Rerolle -, c’è la leggenda, ma non è tutto: Amélie Nothomb è una persona veramente singolare che è riuscita nel prodigio di piacere a un gran numero di persone”. Non è quello che vogliono tutti gli scrittori? I suoi lettori, poi, sono la prosecuzione del fenomeno. A loro lei si dona, anima e corpo, con infinte sedute di chiacchiere e dediche che sembrano ricompense. Li chiamano i fous d’Amélie, i folli di Amélie; o les péplautes, come dice lei dal nome di uno dei forum in cui dialogano su internet, ”péplum”; o ancora, più banalmente, i ”nothombophiles”. Adolescenti? Si’, ma non solo. Figlie, ma anche mamme, liceali ma anche universitari, insegnanti, impiegati. Forse, come le varie Amélie che agiscono nei suoi libri, persone che sono a disagio e si sentono vittime, nella vita o in ufficio, come accade in Stupeur e tremblement in cui Nothomb racconta le umiliazioni subite in un anno di lavoro realmente vissuto in una grande impresa giapponese, dove è stata assunta come interprete ed è finita a lavare i gabinetti. A tutti loro Amélie dice: ”Il boia non è il più forte”. Vanno ai suoi incontri imitandone il look dark: maglioni neri, cappelli neri, scarponcini nere. Le scrivono. Sanno tutto di lei. E quando non sanno, domandano sui forum, come quel Cristophe che voleva giusto sapere il the che beve Amélie. E c’è sempre qualcuno che risponde: ”The nero, come l’inferno”. La scrittura, racconta, l’ha aiutata a sopravvivere. I suoi libri aiutano a loro a vivere» (Cesare Martinetti, ”La Stampa” 6/11/2003).