Varie, 5 marzo 2002
NOVE
NOVE Aldo (Antonio Centanin) Viggiù (Varese) 12 luglio 1967. Scrittore. Il suo primo libro è Woobinda (Castelvecchi) del 1996; sempre nel’ 96, pubblica il racconto Il mondo dell’amore nell’antologia Gioventù Cannibale (Stile Libero Einaudi). Tra i suoi libri: Puerto Plata Market (Einaudi); Superwoobinda (Einaudi); Nelle galassie oggi come oggi. Covers (Einaudi); Fuoco su Babilonia. Poesie 1984-1996 (Einaudi). «L’incipit del suo primo libro di narrativa fece scalpore: ”Ho ammazzato i miei genitori perché usavano un bagno schiuma assurdo, Pure & Vegetal”. Era il 1996, il libro si chiamava Woobinda (editore Castelvecchi), l’autore si firmava Aldo Nove, uno pseudonimo preso dal messaggio che preparò l’insurrezione di Milano nel ”45 ( ”Aldo dice 26x1”, Nove è la somma di 2, 6 e 1). Prima di allora aveva pubblicato delle poesie firmandosi Antonello Satta Centanin, riunendo i cognomi della madre e del padre. Il vero nome, comunque, è Antonio Centanin. [...] Laureato in filosofia, poeta e traduttore di poesia, scrittore, sempre nel ”96 Nove pubblicava un racconto in Gioventù cannibale, l’antologia Einaudi Stile Libero che creò un movimento destinato a riempire le pagine culturali dei giornali. Due anni dopo, con SuperWoobinda, Nove si trovò proprio sul Corriere al centro di una rovente discussione che, seppure nella diversa logica degli schieramenti, sanciva la fine della stagione dei Cannibali. ”Mi fece uno strano effetto quella polemica, avevo l’impressione che la maggior parte dei critici non avesse letto i miei libri. Che io fossi solo un pretesto” ricorda Nove. ”Quanto ai Cannibali, dico che furono una cosa bellissima, la letteratura che si sposava con l’attualità, io, Scarpa, Ammaniti, Isabella Santacroce eravamo come dei compagni di viaggio e scrivevamo le cose che ci stavano succedendo. Dopo non c’è stato niente di simile, non c’è più stata una tendenza comune, siamo tornati indietro. E il livello della discussione degli (e sugli) intellettuali oggi lo dichiara ampiamente. Per esempio, il dibattito iniziato sull’Unità da Romano Luperini: non ci sono più figure come Pasolini e Fortini. Una tristezza siderale. Certo, è vero che non ci sono più gli intellettuali di una volta, ma non c’è nemmeno più il sistema di una volta. Se oggi un ”sovversivo’ come Biagi non trova spazio in tv, dove potrebbe trovarlo uno come Pasolini? Oggi il nuovo sistema non permette di interessarsi ai turbamenti degli intellettuali. Che, come dice Berlusconi, sono comunisti e vogliono solo aumentarsi i giorni di ferie. Berlusconi ormai mi sta diventando simpatico, solo che non è più lui, sembra Luttazzi”. [...] Il ritorno all’infanzia è un motivo ricorrente ( anche stilistico) della scrittura di Aldo Nove. Fino dai tempi di Woobinda, omaggio a uno sceneggiato tv visto da ragazzino. Anche il protagonista di Puerto Plata Market era un trentenne rimasto bambino. Ma nel nuovo libro c’è pure il paese in cui lo scrittore ha speso la sua infanzia e prima adolescenza, Viggiù, provincia di Varese, a due passi dalla Svizzera. Un luogo virato nei colori di un’immaginazione che mescola figurine dei calciatori, cantanti, trasmissioni tv; così come il bambino che ci vive scambia la realtà con le avventure dei personaggi di Carosello, i fatti di cronaca vera con Diabolik e le leggende degli Ufo. Ma insomma, com’era veramente Aldo Nove da piccolo, e che posto era la sua Viggiù? ”Sono nato a Varese, ma i miei stavano a Viggiù e lì non c’era l’ospedale. Mio padre, Mario Centanin, era di origini venete; mia madre, Gianna Satta, veniva dalla Sardegna. Lui faceva il ragioniere all’Aermacchi di Varese, lei l’infermiera in Svizzera. Dopo sposati avevano aperto un’edicola a Viggiù: un’edicola di paese, un po’ libreria, profumeria, emporio di giocattoli. Io stavo a casa con la nonna paterna, veneta, che chiamava mia madre ”la terona”. Non volevo andare all’asilo perché ero timidissimo, provavo disgusto per gli altri bambini che, siccome ero un biondino con gli occhi azzurri, mi dicevano che ero una femmina. A casa guardavo la tv e cominciavo a leggere. Verne e Salgari: a otto anni avevo già letto 50 libri”. E Viggiù? ”Subito dopo la guerra era chiamata la perla del Varesotto. Luogo di villeggiatura con undici alberghi (oggi sono tutti chiusi) e le ville dei milanesi che arrivavano per il weekend. I milanesi avevano l’erre moscia e il campo da tennis in giardino. Poi sono spariti anche loro. La mia Viggiù, invece, quella della fine anni ”60-metà anni ”70 era una cittadina dormitorio per immigrati. C’erano i siciliani, i veneti, i sardi, i napoletani: clan forti, un po’ chiusi. Di indigeni ce n’erano pochi, avevano un po’ di diffidenza ma non c’era l’odio che poi sarebbe arrivato con la Lega. La realtà vera di Viggiù era la povertà, il malessere di quelli che non ce l’avevano fatta. Qualcuno dava fuori di testa, altri diventavano criminali. La televisione fu molto importante, non solo insegnò una lingua per comunicare ma anche dava gli argomenti. stato il primo nostro patrimonio comune”. Poi venne la scuola. ”Sì, ho fatto le elementari e le medie a Viggiù. Ero sempre timidissimo. Mi piacevano le bambine, però mi facevano paura. Scrivevo bene, la maestra a volte leggeva in classe i miei pensierini. Come quello del ”Gatto orrendo’ che, riscritto, ora si trova in quest’ultimo libro. Anche il preside mi elogiò; quel giorno decisi che avrei fatto lo scrittore. Avevo otto anni. Alle medie ho fatto due incontri fondamentali: la poesia contemporanea e i giornalini porno. Mi sono formato con il Gruppo 63 e la pornografia. Era un modo per conoscere il mondo, per imparare le cose della vita. Ora, quando leggo il libro di Melissa P., Cento colpi di spazzola, e trovo che per parlare della sua cosa lì dice ”il mistero’ mi arrabbio moltissimo. E che è, Fatima? Quando si trattò di scegliere le superiori, io tenni duro: il classico, perché volevo diventare uno scrittore. Così andai al Liceo Cairoli di Varese. Il primo anno fui bocciato, poi mi ripresi. Intanto però, fra i 16 e i 17 anni, prima mio padre e poi mia madre morirono. Io cominciavo per conto mio a tradurre poeti greci e latini. All’università, alla Statale di Milano, mi iscrissi a Filosofia; mentre c’erano quelli che si facevano di droga, io mi facevo di Hegel. Lavoravo come badante per dei vecchi soli, abitavo al patronato cattolico. Il giorno della laurea, mi ricordo, c’era il concerto al Palaforum che riuniva i Velvet Underground. Io ci andai. Era il ”93, pochi anni dopo sarei diventato Cannibale”» (Ranieri Polese, ”Corriere della Sera” 14/4/2004).