Varie, 5 marzo 2002
NUCCI
NUCCI Leo Castiglione dei Pepoli (Bologna) 16 aprile 1942. Baritono. Tra i più famosi ed amati • «Ne ha fatta di strada da quando era ”posteggiatore” in un ristorante romano. Anni fa disse: è difficile lavorare in Italia. ”A parte la Scala che fa storia a sé, la situazione non è cambiata, con poche eccezioni. Le celebrazioni verdiane hanno visto una stagione non diversa dagli anni scorsi, e il tentativo di fare un festival verdiano a Parma... meglio non parlarne’. [...] Pensando che nel ”67, quando ho vinto il concorso di Spoleto ma le scritture tardavano e per sbarcare il lunario cantavo nel ristorante ”Meo Patacca”, mi viene da dire: Te pare poco?» (Alfredo Gasponi, ”Il Messaggero 5/12/2001) • «[...] Debuttai a Spoleto con la vittoria nel concorso ”Belli” nel ”67, ma negli anni immediatamente successivi le cose non andarono bene. Le scritture tardavano ad arrivare e così, per sbarcare il lunario, facevo il posteggiatore: cantavo nei locali e nei ristoranti come ”Meo Patacca” a Roma. Ho ricominciato a Padova nel ”75 con un Barbiere di Siviglia per la regia di Beppe De Tomasi che ha avuto molto successo. stata la produzione che mi ha rimesso nel circuito e fatto rinascere a nuova vita [...]» (Alfredo Gasponi, ”Il Messaggero” 19/1/2005) • «Se esistesse una classifica aggiornata dei bis concessi a teatro dai cantanti lirici, il baritono Leo Nucci sarebbe sicuramente al primo posto, e con un largo margine di vantaggio sul secondo. [...] ”[...] alla Scala era proibito. Tante volte avrei voluto ripagare così l’entusiasmo degli spettatori, come del resto ho fatto in tutti i teatri del mondo: a volte anche due bis in una stessa serata. Ma alla Scala non si poteva. Una cosa assurda, perché l’opera non appartiene agli intellettuali e ai filologi, ma deve creare un rapporto di emozione con il pubblico [...] Non c’è niente di più bello che rispondere così all’entusiasmo del pubblico. Non mi sono mai tirato indietro [...]”» (m. bal., ”La Gazzetta dello Sport” 22/2/2007) • «[...] Esordiente allo Sperimentale di Spoleto nel 1967 come Figaro, anche se alle selezioni s’era presentato con Don Pasquale, Nucci ha imparato subito che il segreto per cantare bene e per molti anni era scegliere. Fare i ruoli giusti nel momento giusto è una ricetta d’altri tempi: oggi agenti e rampanti giovanotti nel giro di poche stagioni dissipano ruoli e voce per assecondare l’usurante ritmo dei teatri. Leo Nucci è il più giovane interprete di una generazione di cantanti italiani che sulle proprie qualità hanno investito: senza farsi illusioni né barare. Per questo anche dopo centinaia di volte la cavatina di Figaro si bissa regolarmente [...] con metodo, investendo sul canto, senza dimenticare approfondimento psicologico e veridicità scenica – l’attore-Nucci, scoperto dalle sale cinematografiche col Macbeth di D’Anna, è parte integrante dell’interprete - il cantante creò un ”tipo” baritonale unico. Non ”baritono verdiano”, slogan generico, in contraddizione con le sfumature volute dall’autore per le diverse parti, ma musicista-cantante che mette il timbro baritonale (e l’estensione facile, il naturale mordente ”sulla parola”, la facilità verso l’acuto) al servizio dell’accento. Ereditato da rari colleghi (Carlo Bergonzi, anzitutto; ma anche l’ascolto delle registrazioni delle lezioni newyorkesi di Maria Callas gli sono servite) e corroborato con una sensibilità personale fatta di compartecipazione autentica e profonda ai destini dei grandi ”vinti” verdiani. il più giovane d’una generazione di cantanti all’antica, Nucci. Motivato, rispettoso delle esigenze musicali, delle richieste di registi e direttori, delle necessità tecniche. Praticante di una fede che intende la gioia di cantare come corrispettivo di metodica autocritica artistica e professionale. In ammirazione, non disinteressata e intelligente, dei partner: la sua è una generazione di cantanti cresciuta ”per imitazione”, ascoltando e imparando dai buoni colleghi. Capace di passi indietro, o laterali se necessario – l’evoluzione, non rettilinea del suo Figaro o di Rigoletto insegnano - pur di non tradire un’idea di buonbelcanto che poggia su due dogmi: la scrittura d’autore e il rispetto della voce, intesa come fortunato prolungamento timbrico della persona, e come soggetto dotato di carattere e di requisiti propri; di cui tenere conto. [...]» (Angelo Foletto, ”la Repubblica” 28/9/2007).