b, 5 marzo 2002
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Orton Beth
• East Dereham (Gran Bretagna) il 14 dicembre 1970. Cantante. «Alta un metro e ottanta, nata in Inghilterra e approdata negli States dopo un’adolescenza difficile. Ancora giovanissima Beth perde entrambi i genitori e abbandona la scuola di teatro cui s’era iscritta con entusiasmo. Prova a gestire la grande casa di famiglia insieme ai due fratelli (’Sembravamo la caricatura del Giardino di Cemento il romanzo di McEwan”, racconta) ma il tentativo naufraga subito. Allora lascia l’Inghilterra e vagabonda per il mondo, perseguitata da una rara forma d’infiammazione cronica dell’intestino, e fermandosi prima in Thailandia e poi in un monastero buddista. Rientrata in Occidente, s’avvicina alla ”rave culture”, sperimentando le nuove droghe allucinogene ed entrando nel giro dei musicisti techno. L’incontro decisivo è quello con William Orbit (l’uomo che nel ’97 produrrà Ray of Light di Madonna) che, nel corso di una breve love story, la spinge a imboccare la carriera musicale. Ancora pochi mesi e la Orton si trasferisce in America dove pubblica Trailer Park, album d’atmosfere rarefatte, pieno di storie d’amore e droga, cult per la Generazione-X nel suo momento d’oro. Stabilitasi a Los Angeles, Beth diventa la migliore amica di Beck, l’enfant prodige del pop indipendente americano di cui condivide la visione situazionista del mondo: ”Volete sapere chi davvero io sia?”, ha esclamato durante un [...] incontro stampa: ”Sono un quadro astratto. Un pezzetto di un Pollock!”. [...]» (Stefano Pistolini, ”L’Espresso” 15/4/1999). «Tra una canzone e l’altra Beth racconta barzellette, introducendole peraltro con la stessa tecnica che usava Dapporto: ”Ne ho di quelle...!”. Magra da far venir voglia di regalarle un panino, viene da una minuscola città nel Norfolk. Tre case. Poi un giorno muore mamma e lei si spinge oltre. Facendo bene. Ora la considerano tutti ”la musa folk che ha fatto incontrare la chitarra e i Chemical Brothers”. Il suo terzo disco, Daybreaker, è un piccolo capolavoro. Svolazza fra i generi, senza però ottenere quelle assurde sintesi che vanno tanto di moda. Arriva in scena con contrabbasso, violoncello e violino. Da lei arrivano invenzioni deliziose, ritmi naturali, suoni puliti, come quelli delle foglie del parco che il vento provvede a scuotere ogni venti secondi. [...] Il suo piatto misto è una pietanza prelibata. Ma più per chi ama John Martyn che per i frequentatori dei Chemical Brothers» (Enrico Sisti, ”la Repubblica” 3/8/2002).