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 2002  marzo 05 Martedì calendario

Pacino Al

• Manhattan (Stati Uniti) 25 aprile 1940. Attore. Prima di diventare Al Pacino fu traslocatore, commesso, usciere, venditore di giornali. Intanto recitava qua e là nell’off-off Broadway. Nel 1966 entra all’Actor’s Studio e si lancia nella carriera teatrale. Ma è nel 1972 che arriva il successo con la sua straordinaria interpretazione di Michael Corleone nel Padrino di Coppola. Da allora scolpisce ruoli indimenticabili: il poliziotto troppo onesto di Serpico (’73), il frenetico rapinatore di Quel pomeriggio di un giorno da cani (’75), l’indimenticabile gangster cocainomane di Scarface (’83), l’ufficiale cieco di Profumo di donna che gli vale l’Oscar (’93). Fino al superbo tête à tête in Heat (’95) con l’altro mostro sacro: Robert De Niro. Sfida ad alto livello senza vinti né vincitori. «Ci sono gli attori e ci sono le stelle. E poi c’è quella specie molto rara di attori che hanno un carisma e una presenza sullo schermo così forti che da un lato pare di conoscerli come vecchi amici e dall’altro non finiscono mai di stupire. Una specie cui appartiene sicuramente Al Pacino, otto nominations agli Oscar e da trent’anni una delle figure dominanti del cinema americano. stato Micheal Corleone de Il padrino, il poliziotto incorruttibile Frank Serpico, ha vinto un Oscar con la parte di un colonnello cieco che balla il tango in Profumo di donna e poi lo abbiamo visto nella parte del giornalista che scopre le malefatte dei giganti del tabacco in The insider[...] ”Un tempo ero sempre molto nervoso quando lavoravo, adesso sono insicuro solo prima di iniziare e poi, lavorando, passa. Capisco meglio quali domande porre e che cosa è necessario per sviluppare un personaggio [...] Da quando ho sedici anni la mia unica famiglia è stata quella degli attori. Adesso ne ho una vera [...] Non rivedo i miei film. O almeno non di proposito. A volte accendo la televisione e succede, come pochi giorni fa in cui mi sono rivisto in Il padrino II per una quindicina di minuti. Mi ha fatto star bene ma è come se vedessi sullo schermo un’altra persona”» (Lorenzo Soria, ”La Stampa” 14/1/2003). «Sin da quando impersonò Michael Corleone nella serie Il padrino [...] (tratteggiando quella che probabilmente è la più grande rappresentazione cinematografica dell’indurimento di un cuore umano), Pacino ha regalato al pubblico un numero impressionante di interpretazioni. [...] la sua eccezionale capacità di alternare toni sommessi a toni gridati nella recitazione, di saper implodere ed esplodere. Ciò è tanto più vero se si pensa che uno dei suoi film più amati, dai giovani in generale e dai rapper in particolare, è una saga melodrammatica come Scarface, dove l’attore mastica ogni centimetro di scena per tornare affamato 20 minuti dopo. [...] Pacino è cresciuto nel South Bronx. Suo padre Salvatore, scalpellino, aveva 18 anni quando nacque Al e abbandonò la famiglia due anni dopo. L’attore fu allevato dalla madre Rose e dai genitori di lei. [...] Quando era ragazzino, gli adulti in casa sua erano tutti bilingue. Questo però non avrebbe lasciato un segno significativo su di lui. Poi un giorno, alle elementari, gli capitò di partecipare a una recita sul melting pot. ”Guardavo quella bambina dai capelli neri che rimestava nella pentola insieme a me quando, all’improvviso, capii: stavamo impersonando degli italiani”. A casa erano sempre al verde. Sua madre, una donna emotivamente fragile alla quale lui era molto legato, non visse abbastanza da vederlo recitare se non qualche ruolo nella scuola. ”Non fece in tempo a vedere quello che mi sarebbe capitato, e neppure mio nonno. Peccato, finalmente avrebbero potuto disporre di un po’ soldi. Avrei potuto aiutare mia madre a risolvere i suoi problemi. C’è una bellissima storia... Chi l’ha scritta? D.H. Lawrence? Mi sembra che il titolo sia The Rocking-Horse Winner. C’è un ragazzino che monta su un cavallo a dondolo e se galoppa forte riesce a indovinare il vincitore di una corsa ippica. La sua è una famiglia povera. Le pareti continuano a ripetere: ’Abbiamo bisogno di soldi!’. Alla fine, muore per lo sforzo e la febbre. In qualche modo mi identifico con quella storia che mi commuove sempre”. [...] Rose Pacino morì di attacco cardiaco quando Al aveva 22 anni. Fra i 30 e i 40, Pacino mise a segno una serie leggendaria con Il padrino I e II, Serpico, Un pomeriggio di un giorno da cani e ... And Justice for All. Ma non era soddisfatto. ”Non mi sentivo in sintonia con quello che mi stava capitando. Non sapevo accettarlo, così cominciai a bere, a drogarmi e a isolarmi. Prendevo una boccata d’aria solo quando lavoravo. Finalmente, il mio caro amico e mentore Lee Strasberg mi disse: ’Mio caro, devi solo adeguarti’. Quelle parole così semplici e così vere mi hanno aiutato moltissimo. Non mi stavo adeguando e ancora oggi non so perché. Forse avevo paura dell’ignoto, di qualcosa che non potevo controllare”. Negli anni Ottanta Pacino girò un film di ambientazione coloniale, Revolution, talmente deludente da farlo ritirare dal set per quattro anni. Oggi ama dire che si prese quattro anni di vacanza [...] Ora, riflettendo su quella pausa dice: ”Sotto vari punti di vista, mi ha dato sollievo. Psicologicamente fu come fuggire da un lavoro opprimente. Ma poi...”. Ride: ”Poi restai al verde”. Al verde? ”Proprio così. Col mio stile di vita... Avrei potuto vendere la casa, ma chi se la sente di fare una cosa simile?”. Pacino riemerse nel 1989 con Seduzione pericolosa: interpretava un poliziotto di mezza età. Da allora ha sempre minacciato di lasciare il mondo del cinema. Nel corso degli anni in Al Pacino gli spigoli si sono addolciti, e non solo perché non beve un goccio da decenni. Questa morbidezza - e una certa sonnolenza - Pacino le ha raggiunte privatamente, non professionalmente. [...]» (Jeff Giles, ”L’Espresso” 13/6/2002). «Non sono un divo. Non voglio esserlo. Voglio che il pubblico mi conosca per i miei personaggi, non per la mia vita privata [...] Ho imparato a spegnere l’interruttore quando finiamo una scena. Non è più come quando ero giovane, che vivevo con il personaggio anche nelle ore di riposo. Era estenuante. Ora riesco a indossarne il carattere con un preavviso di poco. Per questo faccio più film, perché mi costano meno fatica [...] Se potessi cancellerrei la somiglianza con Harrison Ford. Io non credo esista, ma tutti mi scambiano per lui e mi secca. Altro mio difetto? Non amo passare molto tempo sul set e questo irrita i registi». «[...] A volte mi prende la voglia di fare teatro e basta. Il teatro è il mio habitat naturale. Intendiamoci: fare cinema mi piace. Ma fare film non è più divertente come una volta. un’esperienza troppo frammentaria, giri un minuto al giorno, devi sempre aspettare, finisce per essere noioso. Non ho mai capito l’ossessione degli attori nel voler rifare più volte la stessa scena, pensando di poterla migliorare. Ogni tanto casco in quella trappola anch’io e chiedo al regista di farmi rifare più volte un ciak, poi guardo i giornalieri e mi rendo conto che sono sempre più fresco nei primi ciak. Quando fai teatro è tutta un’altra cosa, cammini sul cavo sospeso senza rete sotto. Quando ho fatto il mio film-documentario Looking for Richard parlavo anche di queste cose, della vita di attore, di cosa significa recitare [...] Ho scoperto che tutto fa parte del nostro essere attori: siamo maschere, vogliamo lavorare. Credo di essere stato capace di far combaciare le due carriere, cinema e teatro, e credo di essere stato bravo in entrambe, non potrei chiedere di più. Da giovane facevo passare più tempo fra un film e l’altro, ero sempre molto riluttante prima di decidermi ad accettare un ruolo [...] Una volta ho letto che Peter Sellers diceva di sentirsi sempre come non se avesse fatto abbastanza. Ecco, io non voglio punirmi, ma vorrei sempre avere la chance di fare un´altra cosa! [...]» (Silvia Bizio, ”la Repubblica” 10/2/2005). Vedi anche: Robin Eggar, ”Sette” n. 50/1997.