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 2002  marzo 05 Martedì calendario

PALADINO

PALADINO Mimmo Paduli (Benevento) 18 dicembre 1948. Pittore. «Ha sempre incentrato la sua ricerca sul linguaggio e sulla persistenza di un segno essenziale… ”Da dove arriva questo segno? Perché è proprio un segno e non un’altra cosa? Perché è la cosa più vera, la più antica che ci appartiene prima che si carichi di altri significati, storici, culturali, eccetera. Mi interessa la capacità del segno di essere libero da qualunque condizionamento intellettuale, formale, come in un sonnambulismo grafico. Il segno ai suoi primordi. Indicibile, misterioso per l’impossibilità stessa di riprendere quella prima idea di comunicazione che è del linguaggio infantile. E’ una forma di racconto, di narrazione, di espressività assoluta, di autoespressione che ritrovi in tutte le opere del passato, non di un passato più recente, tuttavia, dove la storia ha avuto il sopravvento, come nelle avanguardie ad esempio. Allora l’artista si è limitato a una ricerca sull’idea, sulla politica, vivendo uno spiazzamento, un rifiuto, la rinuncia ad un segno figurato. Ma neanche tanto poi… ci sono episodi importanti ed eclatanti di ritorno al segno e all’opera dopo lunghi silenzi. Penso a Duchamp, poi a Picasso, Balla… a Malevich che sente la necessità di recuperare di nuovo la figurazione dopo aver dato forma alla costruzione totale con il quadrato nero. Io credo invece di essere figlio di una storia che mi ha permesso di spazzar via tanti possibili elementi di dipendenza, politica, sociale, ideologica. Anche se parto da quella storia lì, dai suoi ultimi sviluppi. Ed è quindi a quel momento, in questa situazione, che avverto quella necessità, che non è mai ritorno, non è mai rifugio, non è mai recupero, quel desiderio di trovare altrove qualcosa di già determinato. Qualcosa che ritrovo proprio nella ripresa del segno […] Anche quando all’inizio usavo il mezzo fotografico non ricercavo un’espressività narrativa, ma nei lunghi e lenti procedimenti tecnici che raggelavano la possibilità di agire isolavo in particolare la qualità del segno. E contemporaneamente continuavo a disegnare. Foto e disegni, due linguaggi parificati e messi insieme, creavano tra loro uno strano corto circuito, sembravano colloquiare in modo curioso ma positivo. Una realtà oggettiva, anche se frammentaria, accostata a qualcosa di immediato, tracciato e rivelato dalla grafite. Combinazione di elementi che mi ha sempre affascinato: allusioni a cose da raccontare attraverso immagini dipinte con i mezzi tradizionali della pittura unite ad astrazioni totali di pura geometria […] Se mi fosse possibile esprimermi con un’astrazione lo farei. La mia cultura visiva nasce da un’idea di stratificazione: immagini figurative e non figurative, decorative, minime. E’ il paesaggio fisico e mentale del mezzogiorno d’Italia, del mio entroterra beneventano, pieno di frammenti più che di immagini definite. Una storia frantumata e ricostruita, una storia di passaggi e di tracce dove un frammento di testa romana si incastra con un blocco di epoca precedente… poi vengono i longobardi che aggiungono altro ancora e allora diventa un collage di elementi astratti e figurativi, oppure irriconoscibilmente figurativi. E se dovessi inventarmi o scoprire una città moderna la vorrei di una modernità anonima attraversata da questi corsi di cultura che interferiscono, che sono appoggiati, che si interpongono. Roma ad esempio è una città che non riesco ad apprezzare totalmente, è una città dove le immagini sono definite, presenti, dove tutto mi sembra troppo categorico, troppo mastodontico… il barocco, l’arte romana, l’arte medievale… E il mio punto di riferimento non cosciente, lo ritrovo proprio nella cultura anonima del meridione, in quelle architetture e in quelle opere fatte di segni necessari e, tuttavia, anonimi. Se si innalzava un muro, allora lo si faceva con ruderi di altre epoche e con frammenti dissotterrati; chi decorava e dipingeva lo faceva senza quell’idea di protagonismo che la storia ha poi voluto imprimere. Qualcosa di vero, di estraneo a una comprensione artistica: il segno dell’uomo trasposto in un’opera funzionale alla spiritualità. Io penso alla forza autentica del segno, a un segno più antico, a un segno che viene da lontano… ed è proprio dalla mia storia visiva che proviene questa inclinazione a un aspetto più grafico che pittorico. Non sono mai stato attratto dal colore per il colore; anche quando dipingo penso sempre a una forma disegnata, ad un disegno colorato. E le sculture in pietra le immagino come disegni scultorei, disegni scavati e inclusi in un segno nero che li racchiude, come in una geometria grafica. Non vi è plasticità se non nella loro stessa essenza volumetrica. E’ un po’ il persistere dell’antica questione tra la pittura fiorentina e la pittura veneta, del primeggiare del disegno sulla pittura di colore. E, non solo per scelta culturale, ma soprattutto per una mia disposizione manuale, io sono più disegnatore che pittore di colore […] Ho una mia cabala personale di strane coincidenze e curiosità. E, pur avendo frequentato Roma agli inizi degli anni Settanta, avevo scelto Milano con l’idea che più lontano fossi andato più probabilità avrei avuto di scoprire cose interessanti. Cadute le barriere di diffidenza culturale e generazionale che vent’anni fa esistevano tra gli artisti, ora, per una serie di coincidenze, appunto, avverto una strana energia positiva nell’atmosfera romana che fa sì che questa città, unica al mondo, possa diventare un polo di attrazione. Per quella presenza di artisti, soprattutto, uniti da una forte volontà, da una assoluta capacità di esistere. Queste forze le abbiamo sempre avvertite in altri paesi, mai in Italia. Magari fosse venuto il momento!”» (Ester Coen, ”la Repubblica” 22/7/2002).