Varie, 5 marzo 2002
PANTANI
PANTANI Marco Cesena 13 gennaio 1970, Rimini 14 febbraio 2004. Ciclista. Nel 1998 vinse Giro d’Italia e Tour de France. Nel 1996 fu terzo ai mondiali • «Si era messo in mostra nel Giro d’Italia dilettanti del ”92. La pedalata nervosa, l’attitudine a dare il meglio di sé quando la strada cominciava a salire e lui gettava alle ortiche il cappellino, come per snebbiarsi le idee e liberare il suo istinto di scalatore da ogni costrizione materiale. Un talento innato, proprio come congeniti dovevano essere i fantasmi che si stavano annidando tra quelle meravigliose e inconfondibili orecchie a sventola. Un copyright, non un’imperfezione fisica. Era il segnale. Marco Pantani, il ciclista italiano più forte dai tempi di Coppi e Bartali, cominciava da quel gesto. Professionista dal 5 agosto ”92, ci aveva messo poco ad emergere: due anni dopo, nel ”94 a Merano, vince la prima tappa al Giro d’Italia, quello vero. In quell’edizione spianerà l’Aprica e arriverà secondo in classifica generale dietro a Berzin, il russo di Broni (Pavia). Al Tour è già un fenomeno: terzo dietro un mostro, Indurain, e un mulo, Ugrumov. Marco non si ferma, continua a spingere sui pedali. Rinuncia al Giro ”95 per una caduta in allenamento, al Tour si mette in tasca l’Alpe d’Huez e la tappa di Guzet Neige. L’8 ottobre conquista il bronzo ai Mondiali in Colombia: davanti non gli arrivano corridori normali, no. Olano e Indurain. forse in quel periodo che qualcuno comincia a mettergli in testa strane idee. Perché lui, Marco Pantani, lo straordinario bipede nato per arrampicarsi su qualsiasi pendenza, il ciclista che anche a pane e salame sarebbe stato un marziano, aveva bisogno solo di se stesso e della sua coscienza per arrivare primo davanti a tutti. E invece, dieci giorni dopo, quando finisce all’ospedale di Torino dopo il frontale con la jeep, gli esami del sangue evidenziano qualcosa che non va: il sangue di Marco è rosso e denso come marmellata di ciliege, intossicato di Epo e chissà cos’altro, la robaccia che in quel momento, giorno dopo giorno, ha cominciato a ucciderlo lentamente, nell’anima prima ancora che nel fisico. Ne parlerà con il procuratore aggiunto di Torino Guariniello, senza ammettere e senza smentire, mentre sotto la Procura mezzo mondo lo aspetta per sentirsi dire che non è vero, che lo stambecco che nel ”97 sbanca altre due tappe al Tour (Alpe d’Huez e Morzine) e che nel ”98 centra la fantastica doppietta Giro-Tour vincendo quattro tappe (Piancavallo e Selva di Val Gardena in Italia, Plateau de Beille e Les Deux Alpes in Francia) è pulito. Nel ”99 sembra destinato a ripetere l’impresa ma alla vigilia della penultima tappa di un Giro che sta dominando, all’alba della mattina che ci tolse il respiro [...] la sospensione di 15 giorni: il suo sangue è di nuovo un frullato di piastrine, globuli rossi e porcherie assortite, l’ematocrito supera il 50 per cento. Due carabinieri lo portano fuori dall’albergo come i brigatisti svegliati all’alba nel loro covo, occhiaie e sguardo pieno di vergogna, due ali di folla che si aprono per accompagnarlo verso la sua nuova vita. Benvenuto, signor Pantani, il corridore dopato. Comincia il giro delle Procure d’Italia, il Pirata è un mostro da sbattere in prima pagina. Ci ha ingannati, presi in giro, traditi. Dagli all’untore. Ma l’untore ha unto se stesso. Si è contaminato da solo. Nessuno lo difende: eppure Marco Pantani non è un serial killer, è solo un ciclista arrotato dalla sua fragilità, che scende a rotta di collo e non riesce più a frenare. Gambe larghe, i pedali che vorticano all’impazzata, come i bambini quando si divertono a fare Pantani in discesa. Da allora pedala pochissimo. impegnato a fare altro: difendersi con argomenti mai del tutto convincenti, assoldare avvocati per respingere gli attacchi, ritrovare le motivazioni sane che gli bruciavano nei polpacci come benzina verde, quella che non inquina, quella che lascia l’aria un po’ più pulita. Ma è troppo tardi: dal buco nero del suo male di vivere non è mai risalito. Ci ha provato, certo, perché fino a quando non ha deciso di spararsi in vena l’ultimo doping, Marco Pantani non ha mai mollato. Nel 2000 pedala un po’ alla Vuelta, poi si presenta a sorpresa al Giro e aiuta Garzelli a conquistare la maglia rosa. Conquista due tappe al Tour (Mont Ventoux e Courchevel) anche se zavorrato nel morale da un rinvio a giudizio per illecito sportivo. Si ritira a Morzine. Va ai Giochi di Sydney: è 69esimo. Non è più lui: ha il sorriso sghembo, mille scuse, gli occhi tristi. Nel 2001 nove ritiri e mille guai giudiziari. Continua ad andare a sbattere con la macchina, come fosse sempre ubriaco. Al Giro 2003 arriva al traguardo e poi si fa ricoverare in una casa di cura di Teolo, sui Colli Euganei. un tentativo di disintossicarsi. Fallito. Fenomenale in bicicletta, normale, più normale degli altri, a piedi. L’uomo solo al comando ci ha lasciati soli. Con il dubbio atroce di non averlo mai capito» (Gaia Piccardi, ”Corriere della Sera” 15/2/2004). «La breve vita agra di Marco Pantani detto il Pirata [...] cittadino di Romagna e ciclista dalle formidabili arrampicate, si è consumata come un assolo di sassofono, quando certe note sono così belle perché folgoranti e ti lasciano senza fiato. Così correva lui, a lampi, a strappi, a scatti che parevano scintille. Fin da subito, però, i suoi mirabolanti successi furono scanditi da altrettante sfortune. Come certi artisti ”maledetti” e sublimi, aveva addosso le stimmate del genio e della sregolatezza. Amava la musica più di ogni altra cosa (e anche ballare). Il paragone del sax è suo, confidato in una notte di malinconia, a Cesenatico: ”Ho sempre sognato la maglia gialla, mi farò una grande casa tutta dipinta di giallo. Ma mi sento più solo che mai, ora che sono diventato famoso, ora che ho vinto il Giro e il Tour nello stesso anno. E quando mi sento solo ho voglia di ascoltare il sax”. Lo aveva atteso, al suo ritorno da Parigi, una folla in delirio. Poi, dopo lo scandalo del doping, dopo i processi, dopo i tentativi di ricucirsi un´immagine che non c´era più, quella folla si dissolse come neve al sole. Lo consolava, allora, sempre e solo la musica e purtroppo, con la musica, la droga. E´ stato un campione grandissimo, anche se il sospetto del doping ha rovinato non solo lui ma il ricordo che di lui noi abbiamo. Dominò Giro e Tour nel 1998, primo italiano dopo Fausto Coppi. Tra il Pirata e il Campionissimo ci riuscirono soltanto Anquetil, Merckx, Hinault, Roche, Indurain: ossia la storia del ciclismo, una galleria di grandissimi fuoriclasse. Forse Marco fu stordito da questo trionfo epocale. Qualcosa in lui cambiò. Se ne accorsero per primi i vecchi amici del garage Renault che avevano fondato il club del ”mitico Pantani”. Cominciò a frequentare "brutte compagnie", usciva la sera e rientrava all´alba. Sfasciava automobili di gran lusso per bravate da bullo di periferia. Mutò pelle e carattere: meno affabile, più immusonito, più superbo. Simpatico a rate. Che cosa lo stava tormentando? Aveva paura di rimanere sepolto dal meccanismo infernale del successo e del divismo? O più semplicemente, era rimasto invischiato in chissà quale losco intrigo? Come ci parve lontanissimo un pomeriggio di appena quattro anni e mezzo prima, sotto una pioggerellina sottile e infida, mentre il plotone dei corridori sfilacciato dai colli dolomitici arrancava in ordine sparso cercando di limitare i danni. Era il 4 giugno del 1994, in fuga stava il meglio del ciclismo azzurro e in questo meglio dominava la figura esile e nervosa di un corridore che pedalava dando alla fatica smorfie antiche. Il grande popolo della bicicletta scoprì Pantani, questo minuto corridore dalle orecchie a sventola e dalla testa pelata che aggrediva le strade in salita e sembrava andar su tra le montagne con la leggerezza di un Bartali moderno, ancora più ispirato e drammatico. Il grande Gino spiegava che non si potevano fare paragoni con la storia, che il suo ciclismo non aveva nulla a che fare con quello dei nostri giorni, e forse questo suo puntualizzare avrebbe dovuto metterci in guardia. Tuttavia, quel giorno, Marco Pantani vinse a Merano una tappa memorabile del Giro d´Italia, davanti a Gianni Bugno e a Claudio Chiappucci, ossia i migliori ciclisti italiani del momento. L´Italia delle due ruote capì che era sbocciato un nuovo campione, devastante in salita, i tifosi cominciarono ad applaudire questo personaggio dello sport che parlava con la bonomia dei romagnoli e senza peli sulla lingua, che amava bardarsi la fronte con una bandana, che sfoggiava anelli e orecchini, come i suoi coetanei da discoteca. Piaceva alla gente perché quando spiegava la sua corsa, usava parole che tutti facevano proprie. Divenne come Tomba: un´icona popolare, un modo di essere. Un campione dal volto di gregario: un ciclista corsaro, critico verso il sistema di uno sport che non sapeva più uscire dal ghetto e dal provincialismo. Per questo divenne il Pirata. Uomo da imboscate ed imprese fulminee, al limite della legalità. Come poi si scoprì. Ma la gente - almeno all´inizio - gli perdonò questo suo sgarrare, in un Paese iceberg dove tutto succede sotto la linea di galleggiamento. Fu un altro giorno di giugno, il 5, a chiudere la parabola del Pirata. E fu sempre al Giro d´Italia che la storia bella e tormentata di Pantani ebbe un improvviso stop. Era il 1999, avrebbe dovuto essere l´anno della definitiva consacrazione di Pantani: lui stesso si comportava in corsa e nel plotone come un piccolo despota del pedale. Non glielo perdonarono, gli invidiosi del gruppo, i rivali annichiliti dai suoi trionfi, coloro che non riuscivano più a sopportarne la prosopopea, magari frutto di timidezza ed eccesso di franchezza, magari figlia di situazioni problematiche: la famiglia, la fidanzata danese con la quale aveva una storia d´amore complessa e contradditoria. Il Giro arrivava a Madonna di Campiglio. Sole quasi estivo, quindici chilometri di salita costante sino ai 1560 di Madonna. Lui, già maglia rosa, a poche tappe dalla conclusione di una corsa ormai vinta. Macché. Invece di lasciare agli altri qualche briciola, Pantani va ad acchiappare chi stava in fuga, lo supera in tromba, lo umilia, vince stracciando la concorrenza. Nel plotone il mugugno è ormai ribellione. In agguato, ci stanno quelli dell´antidoping. C´è chi sa di queste visite a ”sorpresa”. Ma chi sa non lo dice a Pantani. I test rivelano valori d´ematocrito oltre il massimo consentito. Pantani capisce che il suo Giro è finito ignominiosamente. Capisce che questa macchia oscurerà tutto il bello che ha fatto. La rabbia gli fa mollare un tremendo cazzotto ad un vetro della stanza in cui si trova. Lo scandalo travolge tutto e tutti. Pantani paga per tutti. Il 18 ottobre del 1995 durante il finale della Milano-Torino era finito contro una macchina che procedeva in senso opposto a quella della corsa. Rottura della tibia e del perone della gamba sinistra. Ma anche valori eccessivi di ematocrito. L´episodio era rimasto nel limbo, il blitz di Madonna di Campiglio apre il vaso di Pandora che ha carburato gli eploit di Pantani. Che il suo tributo alla jella l´aveva poi pagato anche nel Giro del 1997, ruzzolando malamente nella discesa del Chiunzi. Tribolazioni e sventure giudiziarie gli appannarono la voglia di riscatto: che pure fu forte e orgogliosa. Vinse in totale 8 tappe al Giro e otto al Tour: quella di Courchevel del 2000 fu l´ultima sua zampata di classe. Dopo, solo ricordi. E tristezze. Troppe, per uno come lui che si è sentito tradito da chi lo aveva innalzato a re di uno sport di popolo» (Leonardo Coen, ”la Repubblica” 15/2/2004). «No, un grande campione non può morire in un’anonima stanza di un residence, solo come un cane, in compagnia di tetre ombre che lo hanno spintonato giù dalla bicicletta. [...] i campioni hanno diritto di andarsene invitando per l’ultima volta a raccolta i loro tifosi. Sì, è Marco Pantani quel corpo disteso, privo di vita perché la vita l’aveva già persa da tempo. Forse quel giorno che lo trovarono positivo al Giro d’Italia, o forse quel giorno che gli organizzatori del Tour de France non lo degnarono nemmeno di un invito. Pantani non è stato più lui da quando fu rispedito a casa nel Giro del 1999. Tonale, Gavia, Mortirolo: dovevano essere le vette del trionfo, della leggendaria consacrazione. Su quelle salite, il Pirata avrebbe staccato ancora gli avversari, con uno scatto irresistibile, con la sovranità del più forte. E invece fu appiedato senza riguardi a Madonna di Campiglio perché nel suo sangue erano stati trovati valori troppo alti di ematocrito. Un segnale pericoloso, un eufemismo che adombra la farmacia del diavolo. Molti anni prima, nel 1969, anche il grande Eddy Merckx incappò in un infortunio del genere. Le sue lacrime fecero il giro del mondo ma il campione seppe riprendersi. Pantani no: da quel momento una lampadina gli si spense e non si accese più. Sulla vicenda si addensarono segni inquietanti. Marco si sentiva tradito dall’ambiente (in un mondo dove le pratiche del doping erano diffuse perché avevano voluto colpire soltanto lui?), Marco si sentiva solo, nonostante i tifosi fossero pronti ad accorrere a ogni suo accenno di ripresa. Marco si sentiva offeso con il mondo intero e incerto sul suo futuro. Sdegnato e risentito, l’uomo simbolo del ciclismo era costretto in un ruolo che non gli piaceva, quello del capro espiatorio. A ben pensarci, in tutti questi anni ci siamo sempre confrontati con due Pantani: il campione sportivo e il campione della sfortuna, due fantasmi che hanno a lungo pedalato insieme, mescolati nel gruppo, indistinguibili. Nel Giro del 1997, ad esempio, abbiamo visto in volto la sfortuna, dea malefica, sadica e impietosa. L’abbiamo vista che si accaniva contro Pantani per stringerlo a sé nell’imperitura icona della scalogna. Era già successo altre volte che un nume irato si accanisse sull’eroe sventurato, un colpo insensato che schianta il guerriero risorto, il silenzio attonito che scende sul campo di battaglia. Nel Giro e nel Tour dell’anno successivo, invece, abbiamo solo ammirato il grande campione. Un uomo solo al comando e noi con lui. Nolenti o volenti, è come se fossimo stati trascinati nella scia del vincitore, dell’eroe della strada asfaltata, del nuovo idolo mediatico. Con l’accoppiata Giro e Tour, Marco Pantani era entrato nella leggenda del ciclismo e insieme nella mitologia moderna. Non appena la strada si impennava e diventava metafora concreta della durezza della vita, della sofferenza, della fatica bestiale, il ”sangue romagnolo” si alzava sui pedali e ”faceva selezione”, come dicono gli esperti. Con una facilità che impressiona, con una naturalezza che mette i brividi: come sul Galibier, come sulle Deux Alpes. In Pantani c’era l’orgoglio nazionale, c’era l’onomastica che accompagna i grandi guerrieri (Pirata, Fossile); c’erano gli ornamenti della battaglia (orecchino, bandana, cappellino che vola prima dello scontro finale, pizzo belligerante); c’era la solitudine di chi si misura con l’ascesa e con l’ascesi; c’era quel senso di eterno che sigilla il sentimento del riscatto dalla sfortuna. Adesso è facile sostenere che tutto era scritto nel libro del destino, che le cose dovevano andare proprio così perché l’eroe superasse le prove tremende e si ergesse ancora più a eroe. Quella che noi avevamo scambiato per iella cosmica era solo una catena di infortuni, una inevitabile discesa agli inferi. Solo chi cade può risorgere. Ci si consola così nella disperazione più assoluta. Ci si consola, appunto. Il Pirata, invece, ce l’ha fatta ed è riuscito a scalare le Grandi Vette, il paradiso dei ciclisti. O così ci pareva. Tutto questo lo si poteva scrivere fino [...] a quando il suo corpo esamine non è stato ritrovato. Pantani ci aveva abituati agli alti e bassi, alla vittoria e alla sconfitta. Il Pirata era costretto a dare spettacolo perché voleva compiere un passo di là dal necessario: battere se stesso, che è proprio di quelle poche figure che sanno di poter entrare nella leggenda. Non ce l’ha fatta, forse si è accorto troppo tardi che la salita più tremenda era quella che si portava dentro» (Aldo Grasso, ”Corriere della Sera” 15/2/2004). «Sulle salite era l´equivalente dell´acrobata senza rete. Un rituale, con cadenze quasi mistiche. La spoliazione, per esempio: via il berrettino, via la bandana, a un certo punto via anche gli orecchini. Era come un samurai. Ed erano gli altri a saltare per aria. Erano gli altri a non reggere il suo passo, che all´inizio sembrava quello sghembo, di un arrotino, lo zigzagare incerto di un aratro, ma più la salita assumeva pendenza più diventava una condanna, una specie di campana a morto per chi doveva inseguire e non ce la faceva assolutamente a tenere quel ritmo. Un giorno, al Tour, gli avevo chiesto: ”Perché vai così forte in salita?”. E lui ci aveva pensato un attimo e aveva risposto, questo non riesco a dimenticarlo: ”Per abbreviare la mia agonia”. Ecco, pensando a questa frase ho fatto i calcoli: la sua agonia è durata qualcosa meno di cinque anni. Però è stata un´agonia. Pantani è stato troppo grande in bicicletta per accettare di essere piccolo, peggio di essere rimpicciolito per legge, di essere uno come tanti. Non era questa la vocazione, non era questo il suo destino. La sua vocazione era quella di svegliare le montagne, di essere paragonato a un fossile, Pantadattilo l´avevo battezzato un giorno, perché mi dava l´impressione di un animale preistorico, una specie di Godzilla su due ruote, qualcosa che rompe l´asfalto delle strade nuove, le regole del nuovo ciclismo (che l´hanno portato dove l´hanno portato, per inciso) e riporta ai tempi eroici, a quelli di Binda, o più ancora, più lontano, di Giovanni Gerbi detto il Diavolo Rosso, che somigliava nel fisico, nella pelata a Pantani. E questa pedalata di Pantani era un linguaggio universale, non a caso i francesi, con la loro puzza sotto il naso in fatto di ciclismo e non solo, l´avevano adottato. Saltavano sui tornanti del Galibier o del Plateau de Beille esattamente come i romagnoli, i bergamaschi, i liguri. Pantani era uno spettacolo, e chi l´ha visto, in quegli anni, soprattutto nel magico ”98, l´accoppiata Giro-Tour, non se lo può dimenticare. Era un corridore diverso dagli altri, come uno che vuole essere diverso. Anche questo soprannome di Pirata, che s´era scelto, quel cranio rasato a zero anche quando il sole dei Pirenei avrebbe raccomandato prudenza. Lo scalatore di Cesenatico, si usava dire. Ma i nonni venivano da Sarsina, un paese dell´Appennino romagnolo dove ancora ci sono le processioni per salvare gli indemoniati, e al loro collo si mette il collare di San Vicinio. Il paese di Plauto, anche, ma Pantani non aveva maschere. Aveva solo la sua faccia, normale, gli occhi profondi, un po´ liquidi, le orecchie larghe, a sventola. Da ragazzino, raccontava, andava sempre a scuola col coltello in tasca, ”per difendere i più deboli”. Non ho mai indagato oltre. Ha avuto tanti incidenti, in carriera: si è spaccato le gambe, si è rotto dappertutto, si è sempre rimesso in piedi. A Madonna di Campiglio è stato come tagliato in due, non si è più rimesso in piedi. Ha accusato il mondo di accanimento nei suoi confronti, e forse un po´ aveva ragione. Ma lui era qualcuno di molto grosso, nell´acquario del ciclismo, e il pesce grosso fa più notizia. [...] Da anni si sapeva delle cosidette cattive compagnie, delle droghe non solo ciclistiche, dei privé delle discoteche, i carissimi amici che forse non erano tanto amici, ma chi si può assumere il diritto di andare a consigliare un disperato? Perché, sostanzialmente, questo era Pantani. In cima al mondo con la sua bici, e nessuno senza la sua bici, e poche le possibilità di tornare a essere qualcuno con quella bici. I tentativi li aveva fatti, anche all´ultimo Giro d´Italia, per quanta buona volontà ci avesse messo, aveva finito al quattordicesimo posto. Non era da lui. [...] In un paragone probabilmente esagerato [...] si può dire che Pantani senza bicicletta era come l´albatro di Baudelaire. [...] Morire da soli è triste, comunque, in qualunque notte. E Pantani, negli ultimi anni, era un uomo molto solo, anche se attorno poteva avere tanta gente. Era la solitudine di chi non riesce più ad accettarsi così com´è, e nemmeno la vita che questo comporta. [...] Diventerà un mito, probabilmente. Come quelli che muoiono troppo presto, come quelli che non si sa perché muoiono. Avrei preferito vederlo invecchiare, e bere un bicchiere di Sangiovese con lui, da qualche parte sulle sue colline» (Gianni Mura, ”la Repubblica” 15/2/2004).