Varie, 5 marzo 2002
PAOLI
PAOLI Gino Monfalcone (Gorizia) 23 settembre 1934. Cantante. Autore • «Fratello sfortunato di Luigi Tenco, non come lui caro agli dei che fortunatamente deviarono di un paio di millimetri la pallottola che nel 1963 si tirò dritto nel cuore, per noia, perché a trentun’anni aveva già avuto tutte le donne del mondo, svuotato tutti i bicchieri della vita, corso su tutte le auto dei desideri. Si fosse spenta allora, la sua voce sarebbe rimasta Senza fine nelle nostre anime, e ancora oggi ci avrebbe aiutato a succhiare il Sapore del sale dei nostri amori perduti. E lui oggi non sarebbe l’ex di Ornella Vanoni che invece è l’ex di Strehler, non sarebbe l’ex di Stefania Sandrelli che non sarà mai l’ex nessuno, non sarebbe l’ex sultano che nel suo harem seminava amore e figli e sembra che oggi raccolga solo Sassi, non sarebbe l’ex deputato naturalmente Pci, naturalmente indipendente, che la politica ha divorato e poi sputato senza neppure dirgli grazie. Si fosse spenta allora e non fosse sopravvissuta nelle tristi cantilene di questi ultimi vent’anni, il suo cielo sarebbe rimasto per sempre nelle nostre stanze e noi avremmo rimpianto il nostro piccolo Rimbaud» (Pietrangelo Buttafuoco, ”Dizionario dei nuovi italiani illustri e meschini” 31/10/1998) • «[...] 1963, l’estate italiana si consumava pigra al suono di Sapore di sale. Gino Paoli aveva 29 anni, era ancora un ragazzo ma già la sua storia aveva una gran bouffe di successi, da La Gatta a Senza Fine, da Sassi al Cielo in una stanza; occhiali scuri e quadrati, capelli corti pettinati avaramente all’indietro, nessuna condiscendenza mai verso il pubblico, nessun sorriso, nessuna moina, come gl’imponeva quel suo stile asciutto, tirato via da certe reminescenze dell’esistenzialismo di Sartre [...] Sapore di sale fu all’improvviso la sua canzone più venduta, la più cantata, la più popolare in assoluto: come se niente fino ad allora avesse rappresentato con tanta dolorosa dolcezza il tema delle vacanze. [...] ”Io non ho mai rincorso il successo del grande pubblico, non ho mai pensato di averlo. Questo, piuttosto, è un vizio contemporaneo. Anzi, io ero la pena dei miei editori per quest’attitudine schiva, anche se si dovettero ricredere quando, in tempo di rock’n’roll, un valzer come Senza fine ebbe quell’esito. Sapore di sale dunque mi è scappata di mano. Era, quella, un’epoca di Shangri-La, i famosi ”60 dove stavano tutti bene. Ah, un’estate così spensierata non ci sarebbe mai più stata, da allora si tornò sempre a casa, dopo le vacanze, preoccupati per il futuro. Per me, quel successo ha significato diventare un divo vero, con le ragazzine che mi strappavano i vestiti. Giuro che per un po’ mi sono sentito chissà chi: perché è vero che si diventa stronzi, con un successo così; ci si crede al centro dell’universo. Però poi, per fortuna, il mio innato senso di autocritica mi ha tirato fuori da quella trappola [...] avevo già scritto Il cielo in una stanza e tante altre canzoni che andavano forte; ma quello... quello fu un successo di popolo. Sapore di sale poi era vista come una canzone spensierata mentre spensierata non lo era per niente; è la stessa cosa che successe più tardi con Quattro amici al bar, una canzone amara, che contestava il concetto di gioventù intesa come categoria, mentre la gioventù è soltanto una stagione passeggera. Poi, Sapore di sale era un flash, un lampo di luce, uno stacco dalla realtà come dovrebbe essere una vacanza, che significa un allontanamento temporaneo dalle abitudini consolidate: che invece è una cosa che non si fa più, perché oggi vedi quei commendatori a Santa Margherita che parlano di affari al telefonino come se fossero a Milano [...] non è certo un caso se fu scritta a Capo D’Orlando, in una casa deserta vicino a una spiaggia deserta. Un posto splendido, lontano dal mondo. Avevo fatto una serata con il mio gruppo nell’unico locale del luogo; e lì i baroni Miglio, siciliani, proprietari del locale, ci avevano invitati a fermarci 15 giorni portando le nostre famiglie. Sono cose lontane, munificenze d’antiche cortesie sicule [...] Mi pare che anche Stefania fosse in Sicilia, per un lavoro con Pietro Germi. Ma non c’entra niente; io lì avevo fatto venire la mia prima moglie, Anna. Pensi che il testo di Sapore di sale è ancora oggi scritto nel dépliant di Capo D’Orlando [...]”» (Marinella Venegoni, ”La Stampa” 9/8/2005) • «[...] io appartengo alla categoria degli artisti. Posso essere buono o pessimo, ma sono un’artista. E cioè uno che scrive perché ha il bisogno di farlo e lo fa per dare e non per prendere. [...] La canzone è un’arte povera. Cioè a disposizione. La sinfonia numero 2 di Rachmaninov è memorabile, ma non posso farla mia. Invece la canzone è un attrezzo che chi vuole può usare. [...] Canzoni che vorrei aver scritto io? L’80% del repertorio di Brassens, il 90% di Ferré, il 20% di Brel, poi qualcosa di Cuco Sanchez, Armando Manzanero, Manuel Serrat, Lluis Llach, Aznavour, Becaud, Lucio Dalla, Paolo Conte. Una canzone di De Gregori (La donna cannone) una di Lauzi (Il poeta), molte dei Beatles. Qualcosa di Vasco Rossi: Vita spericolata per esempio [...]» (Stefania Ulivi, ”Sette” n. 3/2001) • Perché si scrivono canzoni? «Per avere successo, oppure per rispondere ad un’intima esigenza di dire: in questo caso, la fama può capitare addosso come un incidente. Oggi, il 90 per cento delle canzoni sono scritte con il fine del successo e la ragione è evidente: Io non sono mai riuscito a diventare un professionista: la frase che mi sono sentito più dire nella mia lunga esperienza: ”in questo momento questa roba non va”. E me l’hanno detto anche per Il cielo in una stanza. Mi ricordò che Mogol mi portò da un editore musicale, Alfredo Rossi, che la ascoltò e disse: ”Queste non sono canzoni, forse è meglio che cambi mestiere”. Ma non fu l’unico. Ancotra adesso, ogni volta che Miranda Martino mi vede se ne esce con un ”che stronza sono stata”, perché all’epoca le feci sentire il brano e lei commentò: ”Questa non è una canzone”. Il modello imperante era Il tuo bacio è come un rock [...] Io sono un ex pittore per forza guardo al linguaggio della pittura. Ci sono canzoni-bozzetto, come La gatta o Quattro amici al bar, che sono una sorta di schizzo; e poi c’è il quadro: lo è per sempio Senza fine. Il bozzetto viene da un’immagine che ti dà uno stimolo e tu in qualche modo la butti giù: il quadro è qualcosa che nasce da un’esigenza interna e ha una gestazione molto più lunga. Ho scritto Averti addosso nell’84, ma ho cominciato ad elaborare quell’inquietudine quando avevo 16-17 anni. Il procedimento nel quadro nasce come un uovo, o una perla: è come un disturbo che hai dentro, non ben individuato, che pian piano viene fuori e lo metti giù [...] Avevo trascorso una vacanza a Capo d’Orlando in Sicilia, dove c’era un matto - Milio - proprietario di un locale dov’ero stato a suonare. Il posto era incantevole e decidemmo di fermarci qualche giorno: facemmo venire anche le donne e fu una vita sospesa, in un isolamento beato. Mare stupendo, la baracchetta sulla spiaggia con i pescatori che ci portavano i pesci. Mi rimase dentro quest’immagine di spiaggia stupenda, cone le preoccupazioni che si allontanavano. Dopo un paio di mesi, scrissi Sapore di sale in mezz’ora, di getto, parole e musica tutte insieme. Solo l’arrangiamento mi fece penare, lo feci rifare tre volte: volevo che rendesse la staticità di quei momenti che sembrano immobili [...] Il cielo in una stanza viene da un’immagine che mi è rimasta nella testa per anni e anni: un momento in una casa chiusa in cui avevo fatto l’amore con una mignotta. E sdraiato, dopo l’amore, mi sembrava un momento sublime, a prescidere dal contesto. Un momento assoluto nel quale mi sentivo parte di un sacrificio umano che avvicina gli uomini agli dei. Avrò avuto 16 o 17 anni. Una decina d’anni più tardi, mi sono reso conto che non era possibile descrivere la sensazione del ”dopo”, il centro dell’emozione, ma occorreva arrivarci attraverso il contesto che lo aveva preceduto: mi ricordai l’armonica che suonava per strada e il soffitto viola. la buttai giù alla pensione del Corso a Milano, dove vivevamo io e Tenco: senza fatica”» (Marinella Venegoni, ”Specchio” 30/11/1996).