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 2002  marzo 05 Martedì calendario

PAOLINI

PAOLINI Marco Belluno 5 marzo 1956. Attore. Autore. Regista, ha raccolto il successo più grande col monologo Il racconto del Vajont 1956/ 9 ottobre, trasmesso in diretta televisiva su Rai 2 il 9 ottobre 1997 e premiato con l’Oscar tv come miglior programma dell’anno. Nel 2001 ha messo in scena un testo sulla strage di Ustica. «’Io sono un commediante costretto dalla storia del mio paese a raccontare tragedie” dice di sé, attore-autore che conia orazioni civili con l’ironia di chi fa finta di non sapere. [...] ”Io non faccio né teorie né avanguardie. Faccio pratiche. Tutt’al più dopo trent’anni di mestiere posso smettere d’essere un emergente. E una tendenza ce l’ho: all’inizio usavo risorse teatrali ma ora m’oriento più verso la musica. Sono un improvvisatore che davanti alla gente procede coi moduli del jazz, del blues. Ho i miei ’trasporti’, l’equivalente di blocchi, arie o riff che mi trascino dietro da uno spettacolo all’altro [...] Il mio repertorio? Io mi porto appresso 250.000 parole, e le uso con la tradizione del teatro orientale. Poi bisogna che in quello che dici non ci sia solo ritmo ma anche profumo, senza stanca riproduzione”» (Rodolfo Di Giammarco, ”la Repubblica” 4/5/2003). «Per me la televisione è un elettrodomestico, una cosa che, quando sto con la mia donna o con gli amici, devo spegnere subito perché mi distrae. Questo non vuol dire che non abbia i miei periodi di bulimia, che non senta la nostalgia di abbruttirmi passando nottate intere a vedere di tutto. Insomma, per la fase dell’autismo la tv va benissimo e, nel mio lavoro, offre anche la contropartita della durata nel tempo. [...] Il Paese che incontro quando vado in giro non assomiglia a quello che si vede lì dentro, nel piccolo schermo. E’ molto più articolato, non è piano, ma in movimento. Insomma, non credo a una rappresentazione solo bidimensionale, la tv è un mezzo che rappresenta alcune cose, ma non tutto. E in ogni caso non è la carta d’identità del Paese» (Fulvia Caprara, ”La Stampa” 15/9/2003). «’Col tempo finisci per essere quello che fai. Le doti che non riesci a esprimere si seccano e scompaiono”. Anche lui, col tempo, è diventato ciò che fa, soprattutto ciò che ha fatto: ”quello di Vajont”, quello del teatro civile, quello della denuncia e della memoria. diventato un cantastorie di culto a rischio di essere considerato un guru, ”l’erede” di Dario Fo anche se, dice, ”siamo tutti figli legittimi di Fo , ma lui è una personalità troppo ingombrante perché lo si possa imitare”. [...] Vajont è stato il passaporto per il successo. La sua ricostruzione di quella tragedia che il 9 ottobre 1963, in quattro minuti spazzò via cinque paesi, fu trasmessa in tv nel ’97 e inchiodò davanti allo schermo quasi quattro milioni di telespettatori. Poi vennero Ustica e Il milione, Porto Marghera, Le storie di plastica, ma lui, per molti è sempre ”quello di Vajont”. Non che la cosa gli dispiaccia, ma nell’identificazione con quel suo lavoro avverte un pericolo. ”Il pericolo non è la vecchiaia, ma ’la vecchiezza’. Per questo bisogna andare avanti. Non voglio buttare a mare ciò che ho fatto, ma non posso fossilizzarmi su quello. A volte ci vuole una sveglia, bisogna ripartire da un altro punto. una ginnastica essenziale [...] La verità è che io sono un attore, non posso identificarmi con una maschera fissa. Dovrei, devo, poter interpretare qualunque personaggio. Anche un nazista. E lo spettatore deve poter distinguere ciò che io sono da ciò che interpreto. Non voglio pormi nemmeno come un autore, dietro alla mia faccia ci sono altre persone, c’è una squadra, una redazione. Il problema è che divento ingombrante, faccio ombra”. Anche perché sul palcoscenico c’è sempre e solo lui. [...] ” un lavoro in cui inevitabilmente vai incontro a qualche errore. Io uso le repliche per correggermi: incontro persone competenti che mi spiegano cose nuove, che mi contestano. Sono anche pronto a cambiare opinione. L’importante è non dire mai Mi go capio tuto. un po’ come il teatro didattico di Brecht, però fatto per insegnare non agli spettatori ma a chi lo fa [...] Dario Fo dice che non si deve scrivere per i posteri, che bisogna compromettersi. L’arte non è sorda o cieca, non è questione di distillazione. la scoperta che il vino si può fare anche con l’uva. Anche il teatro si può fare con qualcosa che sente il tempo, che può guastarsi, che muore, che ha un odore e una consistenza [...] Non voglio partecipare a trasmissioni, non scrivo sui giornali, anche se a volte mi interpellano. Il mio ruolo è diverso, le mie opinioni personali non hanno e non devono avere un peso, le espongo ai miei amici, ma non ha senso che vada in tv a dire la mia. Anche perché tante volte la risposta che mi verrebbe è ’non so’. Ho il pudore di dire delle cavolate, forse non sono nemmeno capace di fare questo tipo di interventi. Allora è più proficuo per me rimanere in questa specie di isolamento, scrivere un diario di appunti per me stesso, insomma ’studiare’. Mi vengono in mente due vecchie interviste televisive, una a Pier Paolo Pasolini, l’altra a Tina Merlin. Entrambi prima di rispondere abbassavanola testa, si guardavano i piedi, rialzavano la testa e poi parlavano. Ora in quei pochi secondi passano due spot [...] Mio padre faceva il ferroviere, nella sua famiglia erano tutti rossi, tranne un fratello maggiore che era un alto prelato. Mia madre era cattolica. Non hanno mai cercato di farmi fare qualcosa, l’unica cosa che volevano era che studiassi per poter fare una vita migliore di quella che avevano fatto loro. Al teatro mi sono avvicinato a 16 anni, come conseguenza della politica, era una delle attività culturali di questo gruppuscolo di cui facevo parte (eravamo stati espulsi dall’oratorio proprio per la nostra attività ’sovversiva’)”. Nonostante le raccomandazioni dei genitori abbandona l’Università per fare l’attore a tempo pieno: ”Studiavo agraria perché pensavo che per essere utili all’umanità bisognasse avere qualche competenza tecnica, però ho abbandonato prima dell’esame di chimica”. La passione per un certo tipo di sapere tecnico gli è rimasta, lo si capisce anche dalle letture. ”Cerco di tenermi aggiornato sui giovani autori italiani. Poi ho dei periodi monografici in cui, per esempio, mi leggo tutto Roth o tutto Yehoshua. E non mi perdo un libro di Crichton. Lo trovo magnifico. Ha una capacità di elaborazione straordinaria” [...] l’America non lo tenta, nonostante ogni tanto lo invitino a tenere qualche incontro con gli studenti: ”Non riesco ad amare questo Paese, anche se, come molti della mia generazione, mi sono nutrito del loro cinema, della loro musica, della loro letteratura. Riescono sempre a farti sentire uno straniero”. [...]» (Marco Paolini, ”Corriere della Sera” 13/10/2004).