5 marzo 2002
Tags : Gregory Peck
Peck Gregory
• . Nato a La Jolla (Stati Uniti) il 5 aprile 1916, morto a Los Angeles (Stati Uniti) l’11 giugno 2003. Attore. «E’ stato per mezzo secolo il buon americano liberal, che credeva nei valori sociali, nelle cause civili: fu il giornalista che lottava contro l’antisemitismo in Barriera invisibile di Kazan, l’avvocato antirazzista che combatteva per i neri ne Il buio oltre la siepe di Mulligan. Fu questo il film che, dopo 4 nomination, gli regalò l’Oscar nel ’63 e proprio questo suo personaggio è stato scelto come il più buono della storia del cinema. Fu, per queste qualità umane, premiato e omaggiato spesso e ovunque, specie da vecchio, quando - gentilissimo - correva da un festival all’altro, da Berlino a Karlovy Vary, a ritirare onorificenze per aver così ben pensato, amato, lottato. Conquistò i complimenti in diretta di Lyndon Johnson, diresse l’American Film Institute e per 4 anni anche l’Academy Award: sapeva di non essere fra i dieci migliori amici di Reagan, oltre che nella lista nera di Richard Nixon. Eppure Peck, "l’Uomo dal vestito grigio", fu un americano di saldi principi borghesi, fedelissimo alla sua seconda moglie Veronique Passani (cronista francese sposata 19enne nel ’54) e ai suoi 5 figli, uno dei quali morto suicida, forse per droga. Quello per Veronique era stato un vero colpo di fulmine durante un’intervista: quasi un remake di Vacanze romane di Wyler. Che pretese di riprendere il Colosseo dal vero, trasferì la troupe a Roma e lanciò con la moderna fiaba d’amore la principessina Audrey Hepburn e la nuova Vespa. Da qui nacque anche un amore tra Peck - che all’inizio aveva rifiutato il film, così come non credette a Mezzogiorno di fuoco (cose che capitano) - e l’Italia, di cui è stato amante e conoscitore. Fu un attore semplice, senza sovrastrutture, non un divo né un sofferto personaggio di culto. Gli bastava avere la faccia giusta per il pubblico. Fu Selznick, che poi scrisse e produsse Duello al sole , inventandogli il primo ruolo negativo (il secondo sarà il nazista Mengele nei Ragazzi venuti dal Brasile ), a dirgli che non aveva stoffa e che somigliava troppo a Lincoln, poi raffigurato nell’82 nel tv movie Il grigio e il blu . Peck era un perfetto mix tra Gary Cooper e Cary Grant, signorile e seduttore, come sa bene Lauren Bacall che lo amò nella Donna del destino di Minnelli; ma capace anche di eroismi. Perfezionista, capace di una dedizione totale al mestiere, come diceva Henry King, patriarca del cinema Usa, che lo diresse in alcuni successi come Il romantico avventuriero , dove il suo volto sincero era ostacolato da due imbarazzanti baffi. Era nato da genitori in procinto di divorziare. Gli piace il mare ma, prima di conoscere i tormenti esistenziali del capitano Achab nel Moby Dick di Huston - la sua più sofferta interpretazione - affonda con la sua prima barchetta a 9 anni. Ama lo sport, è atletico, sogna la medicina, ma la prima volta che va a teatro cambia idea: vuole far l’attore. E il teatro gli resterà nel cuore. Dopo un faticoso inizio a Broadway (dove incontrò la prima moglie, Greta Rice, parrucchiera di scena, sposata nel ’42) debuttò al cinema come improbabile soldato sovietico in Tamara , ’44, di Tourneur. Negli anni ’40, indovina quattro titoli fondamentali per la sua carriera: Le chiavi del Paradiso , melodramma in tonaca di Stahl; Io ti salverò di Hitchcock, psycho-thriller con scenografo Dalì in cui Ingrid Bergman gli rimuove un trauma infantile; Il cucciolo di Brown, storia ecologico-familiare; e soprattutto Duello al sole di Vidor, dove si gioca nel ruolo del fratello carogna tutto il perbenismo accumulato. Nel ’47 è sul set di Barriera invisibile di Kazan, più democratico che mai, come giornalista che combatte l’antisemitismo, e subito dopo passa a fare l’avvocato stregato da Alida Valli nel legal thriller Il caso Paradine di Hitchcock. Equamente diviso tra avventura, love story e gialli (o entrambi come in Arabesqu e), fece anche un kolossal biblico, Davide e Betsabea. Su Hollywood non aveva dubbi: "Il più gran porcile del mondo". Girò il mondo e fece tutte le guerre, dallo spettacolare I cannoni di Navarone , a E venne il giorno della vendetta (odiato dalla censura franchista) fino a Mac Arthur, il generale ribelle . Tra i suoi titoli migliori, quelli in cui non agisce ma pensa: il minaccioso L’ultima spiaggia di Kramer e Il promontorio della paura , suspense in cui, di nuovo avvocato, se la vede con Mitchum. Tra i western incassa il medio L’oro dei McKenna, ma eccellono quelli autunnali, gli affascinanti, introversi La notte dell’agguato, Un uomo senza scampo , La mia pistola per Billy. Nel secondo tempo della carriera Peck conosce alcune precoci delusioni tipiche della smemorata Hollywood, ma torna in cima agli incassi solo con un dozzinale horror del ’76, Il presagio ; poi gira per la tv Scarlatto e nero , dove veste la tonaca del monsignore irlandese O’Flaherty, che combattè contro i nazisti. Rifiutò la politica in diretta per i democratici, ma quando Reagan divenne presidente coniò una battuta esemplare: "I presidenti passano, certi attori restano"» (Maurizio Porro, "Corriere della Sera" 13/6/2003). «Forse era più educato che affascinante. Forse era più elegante che bello. Certamente sapeva infondere sicurezza e comprensione, ma in maniera sommessa, a mezza voce. [...] Non era l’uomo delle grandi passioni. Era "l’uomo dal vestito grigio", come si intitolava il film del 1956 che identificò a lungo per il pubblico femminile quell’attore alto e compunto, volonteroso e gentile con cui sarebbe stato bello avere un appuntamento. Ma forse non molto di più. stato il merito e il limite di tutta la carriera di Gregory Peck, questa scelta di medietà che gli ha aperto molti ruoli, e che gli ha fatto lasciare un segno in molti cuori, ma che gli ha anche chiuso altrettanti percorsi professionali. Peck aveva bisogno di personaggi complessi, sofferti, costretti a misurarsi con qualcosa che cercava di dimenticare. Lui era l’uomo delle passioni accumulate e represse, non di quelle pirotecniche ed esplosive. Diciamo la verità. Gregory Peck era forse credibile come il cinico e perverso allevatore che vuole portar via la donna al fratello in Duello al sole? Per niente e chi considera il film "un’operetta pompata a dimensioni wagneriane" non ha tutti i torti. Solo la carica erotica davvero pulsante di Jennifer Jones riscattava un finale di amore e morte dove il ridicolo sfiorava la tragedia. Lei strappava gli applausi, non lui. Eppure Peck non era un uomo tutto d’un pezzo, altrimenti non si sarebbe capito il fascino che esercitava sul pubblico femminile. Non era un eroe infallibile, come John Wayne o Henry Fonda. Era qualcuno che aveva un segreto inconfessato da non far trapelare, anche solo a se stesso, e che finiva per fare i conti proprio con quella parte oscura che cercava di nascondere. Come il protagonista dell’ Uomo dal vestito grigio , la cui immagine entra in crisi quando scopre di aver lasciato un figlio illegittimo in Italia, frutto di un’avventura durante la guerra. Come l’avvocato del Caso Paradine , che s’innamora di una cliente accusata d’assassinio (Alida Valli) e mette in gioco il matrimonio e la carriera. Come il pistolero di Romantico avventuriero, ossessionato da una fama di abile tiratore che non può evitargli di fare i conti con la morte che spesso ha seminato. O come il vendicatore di Bravados , che insegue quelli che crede gli assassini della moglie e non si accorge di trasformarsi poco a poco in un assassino lui pure... Ecco il vero Gregory Peck, il più autentico, quello per cui era lecito palpitare davanti allo schermo. Un attore che sapeva nascondere i propri tormenti, che non esibiva le macerazioni della propria coscienza come i seguaci dell’Actor’s Studio, ma che usava il suo sorriso rassicurante per mascherare una coscienza non proprio adamantina. In fondo persino a cavallo della vespa in Vacanze romane aveva qualcosa da nascondere, quella doppiezza da giornalista che aveva già sperimentato con Kazan in Barriera invisibile e che Wyler stempera con una scanzonata rilettura di Cenerentola, ma che non cancella del tutto il fatto che l’ingenua principessa Audrey Hepburn avrebbe dovuto essere la preda di uno scoop scandalistico. Per questo non era molto a suo agio con le commedie. Il ritmo della sua recitazione era come rallentato, "appesantito" da quel segreto che si agitava in profondità, frenato da una intensità espressiva che aveva bisogno di dialoghi più meditati, più riflessivi. Quando si misurò con la commedia sofisticata, nella Donna del destino, ne uscì una specie di rilettura ironica sul tema dello scontro tra marito e moglie (lei era Lauren Bacall), una interpretazione più attenta alle sfumature psicologiche che al ritmo delle battute. Meglio il dramma, che chiede di esprimere le passioni attraverso poche e controllate espressioni del volto: un serrare di labbra, una ruga in più, uno sguardo che si acciglia. Così si raggiunge lo scopo che troppi gesti non assicurano. Si va direttamente al cuore» (Paolo Mereghetti, "Corriere della Sera" 13/6/2003). «L´uomo dal vestito grigio. Anni fa una rassegna televisiva dei suoi film prese a prestito questo titolo, il titolo di uno degli oltre cinquanta film interpretati dall´attore californiano in circa mezzo secolo, neanche uno tra i più rilevanti. Forse perché quel titolo dice parecchio del suo carattere e del suo stile, è un po´ il suo ritratto. E "grigio" lo è stato in un senso alto, se così si può dire. Composto, corretto. Rappresentando per lo più (non solo, è vero) personaggi positivi e perfino eroi - medico, avvocato, giornalista: lo ricordiamo più per questi personaggi borghesi che per quelli avventurosi che non gli sono mancati - ha vestito i panni dell´americano tranquillo e per bene, fiducioso nei valori fondamentali e loro fermo difensore. Impegnato, sullo schermo ma anche nella vita, dalla parte della tolleranza, dell´antirazzismo, dell´America democratica e liberal. Segnato, come lui stesso ha detto, dalla giovinezza vissuta sotto il New Deal rooseveltiano. Non rubacuori, non identificato come tale nel gotha delle star hollywoodiane, malgrado fosse prestante e affiancato da bellezze come Audrey Hepburn e Jennifer Jones, Ingrid Bergman e Ava Gardner, Sophia Loren e Alida Valli. Grigio in questo senso: senza fronzoli, diretto, franco. Ma qualche volta anche introverso, ossessivo, cupo. A dispetto del grigiore la carriera inizia senza incertezze. Debuttante solo l´anno prima e con soli due non memorabili film alle spalle, Peck irrompe a quasi trent´anni in primissima fila grazie a Io ti salverò di Hitchcock (1945), dove è un sedicente psichiatra ingiustamente sospettato di omicidio che la Bergman, la sola che creda in lui (e come da titolo), tirerà fuori dai pasticci e salverà. Per amore. Con Hitchcock l´attore torna, ma meno felicemente - e comunque nella top ten dei registi da lui più amati né Hitch né Huston occuperanno mai una postazione invidiabile - in Il caso Paradine dove fa l´avvocato, che sarà uno dei mestieri chiave della sua carriera d´attore. Nel ´47 fa invece il suo primo giornalista in Barriera invisibile di Elia Kazan: un giornalista che per fare un´inchiesta sull´antisemitismo americano si finge ebreo e per due mesi dell´ebreo vive sulla propria pelle la diversità. Firmando un film di denuncia importante per quel momento Kazan (che però dell´attore dice cose poco lusinghiere: "uno zero di bell´aspetto") non è ancora diventato il demone delle ritrattazioni e della delazioni maccartiste. Ma il grande balzo in avanti per l´enorme successo che il film ebbe, viene nel ´48 con Duello al sole, un anomalo western a fortissime tinte melodrammatiche diretto da King Vidor ma governato da David O´Selznick, il superproduttore di Via col vento, per sua moglie Jennifer Jones, nel film truccata da improbabile meticcia per la quale fa pazzie il volitivo Peck. Seguono anni ricchi di western ma anche film di guerra e comunque di azione (fa il generale in Cielo di fuoco, il bandito in Romantico avventuriero, il rivale in amore del duca di Wellington in Le avventure del capitan Hornblower, fa praticamente Hemingway in Le nevi del Kilimangiaro) che gli creano qualche attrito, come raccontava in una gustosa intervista a Lietta Tornabuoni, con John Wayne il quale non ammetteva rivalità su tale terreno; e con il quale però, aggiungeva Peck, aveva conservato una buona amicizia malgrado le opposte fedi politiche ("Avrebbe scritturato Reagan per recitare il presidente degli Stati Uniti?" chiede la giornalista. Risposta: "No. Fuori parte"). Ma non definiscono davvero il suo profilo. Un secondo giornalista gli porta enormemente fortuna. Quello di Vacanze romane (1953), svagato e discretamente piacione, per una volta, perfino spavaldo e sbarazzino a cavallo di una Vespa. Chiunque si sarebbe sentito in paradiso, in quella bella estate romana - Peck ha sempre parlato della lavorazione come di uno dei suoi ricordi più belli - e con l´incantevole "principessa" Audrey Hepburn sul sedile di dietro. Nel ´56, anche se l´incontro con l´autoritario John Huston non è buono, il personaggio di Achab nell´adattamento di Moby Dick aggiunge un fondamentale spessore alla carriera di Peck. Che se la cava egregiamente nonostante sia contornato da altri pezzi da novanta come Orson Welles. Dopo essersi fatto del male nel vestire i panni del suo secondo grande romanziere - Scott Fitzgerald in Adorabile infedele - e dopo un successone con il film all-stars I cannoni di Navarone accanto a David Niven e Anthony Quinn, ecco che l´attore tocca l´apice della sua carriera, nel ´62, con Il buio oltre la siepe. E´ il film che gli procura l´Oscar [...] è un avvocato che si batte fino alla vittoria per la difesa di un nero dell´Alabama accusato di aver sedotto una giovane bianca. Avvocato ancora in Il promontorio della paura dove gli ruba la scena il malvagio Robert Mitchum nel ruolo che trent´anni dopo sarà di De Niro in un remake di Scorsese. Gli anni Sessanta ci lasciano di lui ancora un bel ricordo, archeologo passabilmente brillante dietro la scorza di imbranato accanto a una deliziosa Sophia Loren nel sofisticato Arabesque. Il suo vero testamento Peck lo ha lasciato nell´interpretazione del suo unico vero e irredimibile cattivo: il nazista Mengele, l´angelo della morte di Auschwitz, di I ragazzi venuti dal Brasile» (Paolo D’Agostini, "la Repubblica" 13/6/2003).