Varie, 5 marzo 2002
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PEL (Edson Arantes do Nascimiento) Tres Coracoes (Brasile) 23 ottobre 1940. Ex calciatore. Secondo molti il più grande calciatore di tutti i tempi
PEL (Edson Arantes do Nascimiento) Tres Coracoes (Brasile) 23 ottobre 1940. Ex calciatore. Secondo molti il più grande calciatore di tutti i tempi. Vinse tre campionati del mondo: 1958, 1962, 1970. «[...] la tournèe del Santos nel ”69 in Colombia quando Pelè fu espulso, ma lo stadio s’infuriò, perché aveva pagato per vederlo, e allora in una mischia i giocatori spinsero l’arbitro nella porta e gli fecero gli occhi neri. Lo pestarono così tanto, che l’arbitro fu sostituito e Pelè rientrò tra gli applausi. [...] l’ex ct dell’Argentina, Cesar Luis Menotti, che dice: ”Meglio di Pelè forse Gesù, e qualche volta Dio”. [...] quella volta in cui il Santos andò a giocare in Africa e c’era la guerra tra Zaire e Congo e per far disputare la partita i due paesi fecero la pace, ma Pelè dovette giocare un incontro a Kinshasa e uno a Brazaville. E un capo-tribù gli regalò una moglie, ”prendila”, che però a lui non piaceva. [...] Il Santos con Pelè valeva 30 mila dollari, senza 15 mila. [...] quando lasciò il Santos aveva l’offerta per giocare in Italia alla Juventus, la sua situazione finanziaria era brutta, perché il suo manager gli aveva rubato tutto, ma trovò la fortuna in America con i Cosmos e la Warner Bros. Massaini spiega di aver voluto fare un documentario per nonni e bambini, per la gente che ama il futebol d’autore, ”contro chi pensa che esiste solo il calcio di adesso”. Lui è il primo fan di Pelè. ”Maradona aveva solo il sinistro, Pelè tutto. Fu suo padre, che segnò 5 gol di testa in una sola partita, ad insistere perché il figlio calciasse anche di sinistro. Pelè ha sempre dimostrato una determinazione eccezionale. Era il primo ad arrivare all’allenamento e l’ultimo ad uscire dal campo. Provava punizioni, rigori, cross. Ha sempre detto: se Dio mi ha regalato queste qualità e io le alleno, nessuno potrà togliermele”» (Emanuela Audisio, ”la Repubblica” 23/6/2004). «[...] il suo nome, Edson, fu voluto dal padre, il discreto centravanti Dondinho, perché in quei giorni carichi d’attesa del marzo 1940, nel paese di Três Corações, Tre Cuori, Sudest del Brasile, era arrivata l’elettricità. Sicché il battesimo cattolico di quello scimmiotto tutto nero, un vero ”crioulo”, un creolo, come lo chiamò una volta il medico della nazionale, era stato anche una cerimonia in onore di Thomas Alva Edison, l’inventore della lampadina. Un buon auspicio per un giocatore predestinato: già papà Dondinho, vedendolo, appena nato, scalciare con le gambette magroline, aveva esclamato: ”Sarà un grande calciatore”; il nome elettrico era la sottolineatura per un asso che avrebbe illuminato il calcio mondiale. Come sia nato il soprannome Pelé è troppo lungo spiegarlo. Di curioso c’è semmai che ”Pelé” giunse dopo altri soprannomi: ”Dico”, come lo chiamava lo zio e lo avrebbe sempre chiamato la mamma; e ”Gasolina”, quale lo etichettarono nel Santos, in onore di un cantante brasilero. [...] la prima parte della vita di Pelé è la solita trafila del bambino che diventa adolescente giocando con la palla di stracci e alla fine arriva alla squadra delle star, il Santos. Insomma un lungo e prevedibile chissenefrega. Tranne che per un episodio fra il tragico e il religioso. Insomma, fra la storia e il mito. Fra un voto e la profezia. Voi sapete certamente che nel 1950 il Brasile era destinato a vincere nel campionato mondiale. Era la squadra più forte; aveva perso nel 1938 contro i dannati italiani, nonostante i brasileri avessero difensori leggiadri e per centravanti il mirabile Leonidas; dopo la guerra erano pronti a mostrare all’orbe terracqueo il loro valore, a casa loro. Va da sé che il calcio era la seconda religione. O una religione complementare, per tutti loro, meticci, esuli africani, schiavi liberati dalla legge del 1888, cristiani, animisti, bianchi classicissimi, mulatti velocissimi, figli della foresta come Garrincha. Dunque quando arrivarono alla finale al Maracanã di Rio, il 16 luglio, contro l’Uruguay, dopo avere dato sette scoppole alla Svezia e sei alla Spagna, ”o povo”, il popolo intero, aspettava la vittoria. Avevano tutti trascurato un particolare nefando, riassunto da un vecchio adagio lunfardo che diceva: ”Si Inglaterra es la madre del fútbol, Uruguay es el padre”. E l’Uruguay aveva vinto, con un gol a dieci minuti dalla fine, provocando il pianto di un intero paese e un’ondata di suicidi. ”Fu anche la prima volta che vidi mio padre piangere”, scrive l’illuminato Edson. E davanti a un quadretto di Gesù promette al disperato Dondinho: ”Un giorno vincerò i Mondiali per te”. Per capire bene la situazione occorre sapere alcune cose: che il piccolo Pelé aveva nove anni; che si rivolgeva ai genitori chiamandoli ”signore” e ”signora”; che è sempre stato religiosissimo: non al punto di reprimere, fin da adolescente, le sue propensioni erotiche, ma sì da interiorizzare l’idea che una promessa è un promessa, soprattutto se testimone ne è il Cristo. [...] il Brasile del neanche diciottenne Pelè vince i Mondiali del 1958 in Svezia. La spiegazione è che in quella squadra giocavano il portiere Gilmar, detto ”Giraffa”; l’elegante terzino Djalma Santos, detto ”Rato”, cioè Topo; Dino Sani, che più tardi sarebbe venuto al Milan a illuminare San Siro con la sua pelata, era ”Johelo”, vale a dire Ginocchio, proprio in quanto calvo; Didi era ”Airone nero”, Mazzola, vale a dire il nostro Altafini, era ”Cara de Pedra”; e io, dice Pelé, ”essendo nero, venivo chiamato Alemão, il Tedesco” (ironica, la Seleção). [...] Chiaro che i carioca vincono alla grande il Mondiale del ”58, con Pelé che segnava facendo tre dribbling di fila e un ”sombrero” sulla testa del difensore avversario, mentre la torcida sugli spalti ritmava: ”Samba! Samba!”. Il quinto gol del Brasile lo fa lui, Edson, un colpo di testa lento e molle, al rallentatore, e l’emozione è tale che sviene davanti alla porta, con Garrincha che gli tira su le gambe per ossigenargli il cervello, in un clima di miracoli e di pensieri al padre Dondinho, e a una promessa rispettata. Tanto per chiarire il livello sportivo e civile del confronto, il freddo marcatore di Pelè, Sigge Parling, confidò agli amici: ”Dopo il quinto gol anch’io avevo voglia di applaudire”. Dopo di che, ricordato il Mondiale in Cile, in cui però giocò Amarildo, dato che Pelé si era stirato all’inguine, e il catastrofico fallimento del 1966 in Inghilterra, si arriva finalmente al Mundial messicano del 1970. [...] ”o Rei”, il re. La bellissima scimmia creola, che [...] volta dalle altezze siderali da cui sovrasta Burgnich, e che con il pallone è capace di fare tutto, di destro, di sinistro, di testa, in tutti i ruoli, perfino di giocare in porta (ha fatto il portiere quattro volte per il Santos e una per la Selecão, in amichevole): e che naturalmente vince il Mondiale del ”70 con una sonora quaterna agli italiani, reduci dai supplementari con la Germania. Segnerà il millesimo gol, incontrerà la regina Elisabetta, andrà nei Cosmos con Beckenbauer, farà l’attore-giocatore nel film di John Huston Fuga per la vittoria giocando con Michael Caine e Sylvester Stallone, diventerà ministro dello Sport con Fernando Henrique Cardoso. Ha viaggiato dappertutto, ha assaggiato ”testicoli di capra, cervello di scimmia e di cane”, è cattolico ma anche anglicano, ha avuto solo due mogli, se il conto è giusto, Rosemeri e la cantante di gospel Assíria, è stato monogamo inanellando una serie di storielle con domestiche, attrici, modelle, dottoresse, regine di bellezza; dicono le statistiche che ha giocato 1367 partite e ha fatto 1283 gol concludendo: ”Mi pare abbastanza”, con un’aria da Forrest Gump quando chiude la sua corsa e ammette: ”Sono un po´ stanchino”. [...]» (Edmondo Berselli, ”la Repubblica” 11/6/2006). «Sarebbe stato il più grande giocatore mai visto con la maglia della Juventus. Ma le azioni della Fiat offertegli da Gianni Agnelli non furono abbastanza per convincere Pelè. [...] fu la Juve, più del Real Madrid, la squadra europea a fargli la proposta più concreta quando era all’apice della carriera, nei primi anni Sessanta. Cioè quando Pelè era Pelè e le azioni della Fiat erano azioni della Fiat. E invece O Rey in Italia ci venne solo per il viaggio di nozze. ”La Fiat stava iniziando ad aprire concessionarie in Brasile. Ma stavo bene al Santos che mi pagava molto bene, e la differenza non era molto grande rispetto all’andare a giocare a Madrid o in Italia. Ora si cambia squadra per dieci dollari in più, ma ai miei tempi non era così, eravamo meno attaccati al denaro”. Poi s’è adeguato ai tempi anche il grande campione brasiliano che [...] è sempre in giro per il mondo come ambasciatore dei suoi vari sponsor. [...] Su quale dei due, tra Pelè e Maradona, sia stato poi il più grande, lo stesso Pelè continua a non nutrire né dubbi né pudori: ”Io sono un grande ammiratore di me stesso - ha dichiarato con la consueta modestia -. La cosa migliore di Maradona era la sua gamba sinistra, con cui faceva tutto, con abilità fantastica. Però non sapeva colpire di testa e non riusciva a usare il destro. Io invece segnavo di testa, sinistro, destro”. Gianni Agnelli era dello stesso parere: ”Senza dubbio è stato Pelè il giocatore del secolo - ebbe a dire -: era un giocatore incredibile, aveva scatto, elevazione, velocità, tiro. Pelè era unico”. E infatti l’Avvocato dovette accontentarsi di Pietruzzo Anastasi detto (dai tifosi) il ”Pelè Bianco”» (Emilio Marrese, ”la Repubblica” 18/1/2005). Vedi anche: Marzio G. Mian, ”Sette” n. 51/2000;